Clavé
Antoni Clavé. Pitture 1959-1993, catalogo, Galleria Maggiore, Bologna 1995
Due preistorie fondamentali segnano la formazione di Clavé prima del suo assurgere, al volger di lustro degli anni Cinquanta, come una delle figure più cospicue della cultura pittorica europea del dopoguerra.
E’, dapprima, la sua formazione catalana, l’arte del cartellonista, del vignettista, del pittore murale. Pratiche, tutte, ad alto gradiente tecnico, che ne assettano una maestria insieme perfettamente consapevole di sé e sanamente sprezzata, fervida e radiante tanto quanto lucidamente strumentale e nutrita d’una vena autoironica.
Clavé non solo ne riporta la strepitosa variabilità e proprietà di registri tecnici che diverrà, nell’opera a venire, uno dei suoi stessi fondamenti espressivi, ma anche l’attitudine a leggere la misura storica della pittura – e saranno, negli anni, i vicini Vuillard e Soutine come i lontani Zurbarán e Theotokopoulos – con un misto di ammirazione culturalmente lucida e di barbarico cannibalismo espressivo, che gli consentirà, in stagioni di teoricismi e di vitalismi volontaristici, una delle rare posizioni non imputabili, ad alcun titolo, di retorica.
Di questi anni è anche, ovviamente, il sottofondo di hispanidad, meglio, di catalanità, che farà per sempre la temperatura della sua pittura, e della sua non meno ricca scultura: che è dato ineffabile, a non voler ricorrere a sempre imperfetti alberi genealogici e a nomenclature inadeguate (il barocco, lo spettacolo, l’ombra, la cadenza sanguigna dell’immagine, vene di modernismo e surrealismo…) se non a perpetrare luoghi comuni: ma che l’evidenza stessa di queste pitture, il loro rapinoso “far grande” unito all’ironia dimessa e nervosa, fa ben assaporare.
Seconda preistoria è il tempo parigino, che giunge per Clavé dopo la frattura brusca della guerra civile, della prigionia, della frustrazione delle passioni civili: anno 1939.
Si rinfranca, nel suo cuore, l’amore sempre esplicitato per Picasso, sul quale s’intesse un’amicizia personale datante al 1944: un amore che si fa, primariamente, modello di atteggiamento artistico, insieme coltissimo e antiintellettualistico. Altri se ne aggiungeranno, variamente: Vuillard, s’è detto, e Soutine, e Rouault, e Giacometti; esempi, però, più modali che di sostanza: strumenti d’un cercarsi che altre ambizioni ha, altri approdi che non l’onesto epigonismo o la moderata adesione climatica.
Nel frattempo, si precisa anche la misura disciplinare del suo professionismo. Non più la cartellonistica e l’illustrazione secondo standard marcati di gusto, e piuttosto un agire fortemente inventivo nei due ambiti che meglio segnano, pittura a parte, la continuità della straordinaria esperienza del Novecento parigino, la scenografia e l’illustrazione e la grafica a stampa.
Il lavoro per il teatro musicale, a cominciare dalla collaborazione storica con Roland Petit, e le plurime edizioni, gli danno la notorietà mentre s’intrecciano a un lavoro pittorico in cui egli determina le movenze concettuali di base della sua concezione d’immagine, una sorta di affioramento fantomatico delle figure – figure smisurate sino a slogarne i rapporti strutturali – da un fondo cupo e magmatico, di cui s’intuiscono le imperscrutabili profondità, al punto da saturare e forzare la percezione superficiale dell’opera, la sua eccitata cadenza rappresentativa o decorativa, in una dismisura febbrile di potente carica espressiva.
Lento, laborioso è dunque il riconoscimento, da parte di Clavé, della propria primaria vocazione pittorica: riconoscimento, s’intende, che non riguarda la certezza della propria tensione qualitativa, e piuttosto il raggiungimento di un grado di autonomia, e d’autorevolezza, delle opere che da sempre nascono nello studio. Non ha dubbi, Clavé, riguardo alle premesse e alle ambizioni: non ne vuole avere, però, anche sul piano dell’identità e della qualità, prima di potersi, sia pure senza enfasi – un understatement saporoso e umorale è la sua dote caratteriale più diretta – sentire collega di Picasso.
Il 1956 è l’anno di svolta della sua biografia, e di definitiva consacrazione alla ricerca. Proprio mentre la Biennale di Venezia ne ratifica la grandezza d’incisore (l’altro grande omaggio veneziano sarà, nel 1984, la retrospettiva nel padiglione spagnolo ), nel suo studio premono le prime folgoranti serie pittoriche, i Rois, le Reines, i Guerriers.
Clavé macera emotivamente il soggetto – la figura, o la natura morta: non rinuncerà mai alla padronanza confidente del tema, alla sua circoscritta misura fisica – sino a ridurlo a una sorta di tarsia slabbrata e franante di piani. Esso si deposita tra un fondo d’immagine d’autonoma forza evocativa, impastato di neri e grigi per i quali non si può non spendere la suggestione di Velázquez, com’è in Poisson à la table noire, 1959, oppure di disagiati bruni e ocre d’aroma picassiano; e una definizione di primi piani pittorici (che sovente sono sfondi convenzionali, affioranti per scarto percettivo: Guerrier au fond rouge, 1959) eccitata da rossi ardenti, viranti al viola, oppure da celesti disagiati, o da bianchi calcinati.
La lettura della superficie pittorica, della sua unità concettuale, è increspata e contraddetta dagli inserti in collage, carta o stoffe, che amplificano la concitazione materica delle stesure; parimenti, l’impiego di tappeti come supporto, talora lasciati in vista nella tessitura pittorica (esemplare è Pastèque au tapis, 1959) conferisce una contraddittoria compressione di profondità, e una continua contaminazione decorativa, addolcendo insieme la tensione superficiale dell’opera.
E, questa, la serie di opere che segnano lingresso autorevole di Clavé nel circuito della grande pittura, in seno a quella troppo variegata nuova scuola parigina – da De Staël a Bazaine a Manessier – con cui si tenta, da parte dell’ambiente artistico, di ridar vita ai fasti d’inizio secolo.

Clavé, Feuilles et point roug, 1960
Altra, però, dalle tattiche mondane dell’arte, è la via di Clavé, che presto sceglie di rinverdire la propria radice mediterranea nel Midi, lontano dalle politiche artistiche della capitale, lontano dai dibattiti su gesto e materia, tradizione francese e art autre, dai quali si sente istintivamente, ma radicalmente, alieno.
Il decennio Sessanta è caratterizzato da due interessi fondamentali. Da un lato, Clavé si dedica intensamente alla realizzazione di sculture e oggetti plastici la cui fonte è, nuovamente, Picasso, e attraverso questi il primitivismo polimaterico, al limite tra ready-made e metamorfosi simbolica, che transita dalle arti esotiche al surrealismo, e che qui si fa pulsazione visionaria sensuosissima, crepitante di motivi, in una sorta di coagulo di umori lasciati liberamente fluire nell’animo e nelle mani febbrili: mani, ancora, che son d’artigiano (Pierre Cabanne scriverà che in Clavé mai l’artigiano si separa dall’artista), cioè dotate d’una immediata e profonda intelligenza delle materie e dei modi, e sono d’artista, capaci cioè di provocare e accogliere il caso, la deroga, l’accidente, la cecità progettuale.
Sono di questi anni gli Armoires, compresse e fascinate Wunderkammern dai forti climi mentali, dalle affastellate evocazioni, delle quali valga, al di là delle analogie con le altre esperienze simili dell’arte del secolo, l’indicazione della predilezione di Clavé per l’interno, per una spaziosità circoscritta e ombrata, che rimonta non casualmente all’innamoramento giovanile per Vuillard.
D’altro canto, è questo il tempo delle serie pittoriche d’omaggio al Greco, e per complessi transiti mentali a Giacometti. La concitazione dissolutoria del gesto lascia il posto a una spaziosità più regolata e scandita, a voler ritrovare una misura dell’immagine (assetto, e soprattutto profondità) tutta interna al suo processo costitutivo, e insieme ad alto potenziale di senso.
Ancora, alla tela si alterna il supporto di carta da parati, e gli inserti a collage si moltiplicano. Con una vocazione più strutturante, tuttavia, rispetto al passato. La scommessa vera, infatti, non è più padroneggiare una fastosa machina tecnica, una maniera lussureggiante. Clavé sa, ora, che la profondità di cui è in cerca è un fatto d’anima, di concentrazione, di tensione, primariamente affettiva.
Ecco il colore restringere allora le proprie gamme, le proprie captazioni tonali, sino a farsi unitario e severo ambito climatico: del quale le impronte – la inquietante mano in primo luogo, ma anche una dissonante tache cromatica, o un inserto oggettivo – sono sigillo superficiale, e insieme reagente emotivo fortissimo.
Si inizia, qui, il lungo viaggio notturno di Clavé. Egli intuisce che, per la sua pittura, non è più questione di soggetto, di sia pur periclitante pretesto tematico.
Innesco della sua pittura deve essere lo stesso viaggio cieco attraverso le cose, il sensibile, alla ricerca d’un senso possibile: il senso che può darsi per inciampo, per caso, ma solo se l’artista accetti di porsi per via senza previsioni, facendosi non specchio ma filtro – filtro accanito, interrogativo, struggentemente determinato – del mondo.
Scriverà di lui Pierre Schneider che “Clavé avanza attraverso l’opera in corso come il re Lear titubante sulla landa, a tastoni”, non guidato dalla luce ma da lucori, da un teatro oscuro di parvenze.
Agli inizi degli anni Settanta, è la nerità – non più quella turgida di Velázquez e Manet, e piuttosto malata, dubitante, mentale – a intonare le opere di Clavé. La saturazione del campo dell’immagine si fa per ulteriore compressione di zonature, in una spaziosità ansimante e cupa, forte di materie ma per tensione a una sorta di collasso del senso: Feuilles et pochoir, 1969, Points vert et rouge, 1970. Il soggetto vi frana, definitivamente: si fa segno, fantomatico e inattingibile: marca simbolica.
Il primo viaggio in Giappone, 1972, che gli schiude la suggestione (rinverdita poi nel 1986) d’una cultura visiva in cui il segno ha valore fondativamente diverso, e le suggestioni dei graffiti metropolitani, ora letti con occhio diversamente intonato, gli schiudono nuovi percorsi genetici dell’opera.

Clavé, Retour du Japon, 1987
Anziché la pittura come continuum consistente e contraddetto dagli inserti oggettivi – il guanto che subentra all’impronta della mano degli omaggi al Greco, ad esempio: Gants et signes, 1975 – ecco svilupparsi un’economia materica più rattratta e dilavata, in cui svolge un ruolo determinante, oltre all’assai più frequente ricorso a stesure liquide, il cui fremito è il gesto più che la rugosità fisiologica, l’adozione quasi sistematica di carte e tele accartocciate, spiegazzate, in una tattilità con forti suggestioni di demateriazione, e d’inserti tessili di nuda evidenza: da Ja torna, 1972, a Le captif, 1976, da L’exploit, 1976, a Le sac des Postes, 1977. Analogamente, il segno si fa, definitivamente, sindone, marchio d’inaccertabile corporeità, che si tratti di sigilli more japanico ( Etoile bleu clair, 1978 ) o di crampi grafici tra scrittura e graffito ( Le point bleu, 1975 ), di taches padroneggiate calligraficamente (La tache noire, 1976 ) o di quadranti d’orologio o delle amate lische di pesce (Arètes et punaise rouge, 1975 ), echi dell’antica passione per la natura morta cubista.
Notturno, è il lavoro di Clavé: oscuro: ma evocante lontani splendori, voglie non dismesse di senso, d’una erotica della pittura che egli sa, ora, non necessariamente corollario di turgori di colore e di meretrici sensibili. Ora, Clavé sa la propria pittura: né più cerca. Le sue opere nascono con il passo stesso della respirazione, s’allargano in cadenze ampie e cantabili oppure s’impennano in stratificazioni di lacerti del suo stesso mondo pittorico. E’ il tempo di dipinti cruciali come lo scandito Instrument sur la table, 1984, e il diversamente corrusco e inquieto Avec des étoiles, 1985.
Ciò è testimoniato dalla sua più felice serie recente, Retour du Japon, 1986-87, in cui s’alternano parossismi espressivi a situazioni di sospesa meditazione pittorica, spaziosità cadenzate secondo un ritrovato “senso dell’ordine” e derive accecate della materia e del segno, procedenti per lacerazioni e accumulazioni, collisioni. Che sia avvertitissimo e stillante, oppure crampo urgente del gesto, sempre il segno si dipana consapevole, picco ed effusione di coscienza vitale.
E’ un clima d’anima che trova una accelerazione definitiva alla fine degli anni Ottanta, con la serie dei murs americani (Octobre 89, 1989, Vu à New York, 1989 ), sorta di reificazione pittorica definitiva, esplodente di concitazione, della coscienza della visione: fondazione, infine, di realtà.
Lo spazio della pittura, ora, è per Clavé lo spazio stesso della coscienza, del suo avvertirsi e dirsi al mondo: e il gesto, bruscamente indifferente o calligrafico, è sublimazione energetica, energia sorgiva e pura che si sa in una condizione altrettanto sorgiva della pittura.
Nota
La citazione di P. Cabanne è in Clavé, La Différence, Paris 1990, la più completa delle monografie dedicate all’artista. La citazione di P. Schenider è in Antoni Clavé. Peintures 1958-1978, cat. Musée d’Art Moderne de la Ville, Paris 1978, con testi di J. Lassaigne e P. Cabanne. Sugli anni iniziali, cfr. J. Cassou, Antoni Clavé, Rauter, Barcelona 1960. Sulle stagioni della maturità, eccellente è J.-L. Mercié, Clavé, Seghers, Paris 1980. Sul Retour du Japon, cruciale esperienza degli anni recenti, cfr. Antoni Clavé. Retorn del Japò. 1986-1987, cat. Sala Gaspar, Barcelona 1987, con testo di P. Cabanne.