La ceramica di Arman, catalogo, Museo Internazionale delle Ceramiche, Faenza 1994, Edizioni Maggiore, Bologna 1994

E’ una stagione nuova, nell’opera di Arman. L’epoca “eroica” del prelievo brusco degli oggetti della vita, del loro stravolgimento simbolico, della loro paradossale nominazione estetica, da alcuni anni si è amplificata a inglobare sempre più regolarmente l’identità tecnica stessa dell’arte. A partire dai materiali.

E’ la ceramica, ora, la “scoperta” recente di Arman. La ceramica, ovvero la materia per antonomasia, la materia biblica, la sostanza di cui s’è nella storia informato, e di cui s’informa, ogni possibile artistico.

E’ la sua stessa identità, quella storica in primo luogo, e quella fisica, a interessare l’artista. Come dire, quella che Henri Focillon indicava come la “vocazione formale” d’un materiale, ma soprattutto ciò che la stratificazione lunghissima dei gesti dell’uomo è stata in grado di connaturargli, sino a farne una sorta di codice genetico.

Arman l’affronta con il suo tradizionale piglio scrutinante, attraverso il meccanismo della sua deviante simpatia: un approccio diretto e contaminante, ma capace di sceverare la logica della funzione da quella del gusto indotto, gli stati di necessità formale da quelli di perversa opportunità secolare.

Ciò è particolarmente evidente nella scelta del repertorio oggettuale  che egli ha adottato. La teiera, la tazza, innanzitutto, possiedono numerose caratteristiche sulle quali, dal punto di vista di Arman, valga la pena di indagare.

Sono oggetti della cultura “bassa”, del quotidiano anonimizzato in nonsenso: ma insieme ereditano dalla tradizione storica più antica e colta, l’arte del vasaio preistorico e greco, medievale e rinascimentale. Sono oggetti di techne in ogni senso, dunque: ma il loro stereotipo formale si è sdrucito, liso, sino al punto da perdere ogni facoltà suggestiva e significativa, all’apparenza.

Attraverso i meccanismi del sezionamento, della catalogazione, dell’iterazione con varianti di immagini identiche, Arman compie un’operazione di precisa riappropriazione intellettuale della ragione della forma. Non solo: egli, assuntala per via di notomia, la sottopone a un procedimento ulteriore di ordinamento, quello che presiede la messinscena ossessivamente ridondante che egli ne fa.

Egli ripropone, dunque, un lògos fondamentale, una restituita ragione primaria della forma. Il vero e radicale ribaltamento del senso, in questo caso, il cortocircuito rivelatore ed artisticamente energetico, risiede in due punti: che egli adotta come mera struttura decorativa ciò che nasce, in identità storica, come ragione funzionale; in secondo luogo, che il suo processo rigoroso di ordinamento non si fonda su alcun principio accertato – non funzionale, non estetico, secondo le convenzioni correnti –rivelandosi della natura totalmente arbitraria del gioco.

E’ evidente che si tratta, rispetto ad altre operazioni del passato, di una amplificazione notevole dell’orizzonte problematico nel quale agire. Un tempo il meccanismo dello straniamento, cioè della decontestualizzazione e della ricontestualizzazione brusche e paradossali, agiva nello scarto tra convenzione reale – l’oggetto effettivo o il suo fantasma di scarto, prelevato dal mondo dell’esperienza quotidiana – e convenzione artistica – la manipolazione, l’estetizzazione secondo codice, la designazione –svolgendo un ragionamento di ricostruzione di un apparato possibile di valore a partire dalla conclamata scomparsa del valore oggettivo delle cose.

Ora, Arman agisce su un duplice livello, ove la falsificazione (l’ambito quindi dove si sposta e si rende saporosamente più ambiguo il confine tra il kitsch e un’estetica probabile: e dove la previsione funzionale entra in crisi) prevede comunque, ineludibile, la mediazione artistica.

Il collasso di senso per saturazione iconografica, il collasso estetico per via d’una ratio formale né avversa al gusto corrente né di esso complice, si è spostato dal rapporto tra reale ordinario e evento artistico al ben più fondante rapporto tra realtà della rappresentazione artistica e capacità referenziale dell’arte: in altri termini, tra la facoltà tradizionalmente attribuita all’arte di pronunciare il mondo reale attraverso la sua falsificazione convenzionale, e la falsche sprache d’un’arte che si restituisce oggetto tra gli oggetti, merce tra le merci.

Cosa significa, da questo punto di vista, far eseguire appositamente tazze e teiere per le proprie operazioni, presso laboratori artigianali dove ordinariamente si possono avere tazze e teiere di produzione corrente? A mio avviso, affondare il colpo proprio nella nozione stessa di vero/falso artistico, stante che le stesse mani e gli stessi processi realizzano, identico, l’oggetto “vero” e la sua replica “artistica”: per pura nominazione, per rabbrividente gioco concettuale: che è, esattamente, ciò che importa al gioco al massacro di Arman.

Più esplicito è il gioco della mediazione artistica (tien conto di insistere, sul valore di gioco in Arman, e non solo per la sua conclamata passione per gli scacchi, ma perché egli è uno degli interpreti più autentici del gioco duchampiano, tra minuzie regolamentari e derive di senso) in altre delle operazioni recenti.

La serie dei motori d’automobile perfettamente riprodotti, con tanto di bagliori metallici, è caso eloquente di contraffazione, cui la proliferazione aggiunge una proiezione d’ambigua grandiosità: particolarmente autoriflessiva, e per certi versi autobiografica, per chi ricordi le originarie fascinazioni di Arman per la meccanica, per l’ordine e il ritmo formale scaturenti dalla catena di montaggio, per l’ “arte industriale”. Salvo, poi, fare di questa piramide di motori una fontana, con soave destituzione delle nostre proiezioni emotive sulle forme.

Arman, Piccin gai, 1994

Arman, Piccin gai, 1994

Non troppo diversamente funzionano le coppe – oggetto, va detto, insensato in sé, nelle sue pretese simboliche, nel suo standard di bellezza da salon che costituiscono, in grappolone ramificato, un monumento tronfio alla propria stessa tronfia iconografia.

Ancora, ecco l’automobile “Topolino” rifatta al vero, con minuzia orientale, in ceramica. Rispetto al lavoro sui motori, il passo è più lungo, anche se a sua volta echeggiante un tema caro all’artista, l’automobile. Sia perché spinge sino a una soglia di insensato virtuosismo il repertorio tecnico della disciplina – e ciò potrebbe farci riflettere sui ben altri virtuosismi, in effetti, apparentemente ma solo apparentemente motivati – sia perché pone in tutta la sua turgida evidenza la questione dello scarto rappresentativo concesso all’arte: qui la dimensione, la forma, la struttura sono identiche tra rappresentato e rappresentazione, e ciò, cioè il massimo dell’uguaglianza, è l’elemento veramente straniante.

In altro modo: ciò che inquieta l’esperienza del riguardante rispetto alle sue aspettative non è tanto la falsificazione più clamorosa, quella sostanziale, ma la perfetta identità epidermica tra ciò che rappresenta e ciò che si rappresenta: perché altro è il codice estetico che si dovrebbe riconoscere – e che il bon ton dell’arte suggerirebbe – rispetto a quello cui l’artista ci costringe. L’anima delle cose, ci indicava Jean-Pierre Vernant, s’avverte nello scarto tra esse e il loro dyplon: e doublure, per i francesi, è sintomaticamente sia la fodera che la controfigura, oltre che il doppio teatrale: e par d’essere tra i giochi e le maschere di Roger Caillois.

Il che introduce, anche in questa mostra, un tema assai caro all’Arman degli ultimi anni (ma a ben vedere di tutto il suo lungo arco creativo): quello della monumentalità, della capacità dell’immagine di amplificarsi simbolicamente a una condizione accolta come totemica. Il plein di Arman, dopo le prime urlanti prove, si è fatto sistematico in questo senso: accumulazioni ipertrofiche di oggetti analoghi – orologi biciclette violini e quant’altro – sino a farle divenire monumenti fantomatici e disperati alla propria stessa immagine. Ora, con l’unicum della “Topolino”, ci troviamo di fronte a una diversa forma di monumentalizzazione, svolta tutta sulla mitologia banalizzante, sulla suggestione di gusto che scambiamo per simbolica: vicenda perfetta, soprattutto per l’automobile, e per di più per un’automobile cui sono consegnati, vogliono taluni, “i migliori anni della nostra vita”, e provvista dunque anche d’un serbatoio mitico di memoria.

Fatto curioso, e domanda impertinente: perché lo stesso spettatore stupito e indotto al disagio estetico da quest’auto, troverebbe bello e normale un cavallo di bronzo?

Del resto, bella per antonomasia; miticamente, simbolicamente, fisicamente, paradigmaticamente bella è l’immagine di Venere, un altro dei topoi di Arman che anche in questa occasione fa la sua comparsa. Squarciata da una farcitura di telefoni, oppure ridotta a una sorta di malcerto costrutto architettonico omaggiante il surrealismo – dunque un’altra iconografia arcinota e già a sua volta stereotipata – la Venere è una sorta di presenza incombente su tutto il lavoro di Arman: che, va detto, in anni recenti si è cimentato partitamente su interi olimpi di figure mitiche, ridotte quasi a segni della nostra psiche disorientata: e utilizzando il bronzo, cioè un’altra delle materie della cultura “alta”, autonomamente in grado di indirizzare la fascinazione estetica dello spettatore.

In effetti, anche se l’affermazione parrebbe alle prime estrema, il ragionamento sulla bellezza è uno dei gangli, da sempre, della riflessione di Arman.

Dalle poubelles in poi, in un certo senso. Il processo di straniamento dei rifiuti, che si leggeva allora giustamente come distruttivo rispetto agli standard del gusto, passava attraverso un progetto consapevole e preciso di riestetizzazione. Riestetizzazione, ovvero assunzione schwittersiana dei laceri dispersi e deidentificati del mondo, e utilizzo secondo un codice esteticamente regolare, formalmente assettato.

E’ stata tale tensione, in seguito, a spingere Arman verso oggetti dall’iconografia autorevole ma insieme dalla struttura formale intimamente sfruttabile in questa chiave: a cominciare dai violini.

Estetizzare non significa, tuttavia, per Arman, corrispondere a una norma preventiva, a un apparato stilistico riconosciuto a priori come autorevole. Arman, da questo punto di vista, si sceglie una posizione laterale, piuttosto, di sardonico e divertito scrutatore, che smonta e rimonta i pezzi della nozione di stile esattamente come quelli degli oggetti cui pone mano.

Ciò che ritrova, al di là delle esperienze estreme, è una sorta di snudata condizione necessaria della techne. In cui il processo deve valere come sequenza di passaggi logicamente conseguenti, e orientati solidalmente a un esito unitario; in cui la strutturazione dell’opera deve rispondere a un’architettura concettuale e fisica essenziale (indipendentemente dal barocchismo spettacolare di certi risultati) e ripensabile; in cui talune regole formative – equilibri, simmetrie, corripondenze, proporzioni – e retoriche – iterazione regolare in testa – e materiali – accordi tra materie congruenti, e tra le loro condizioni cromatiche – fungono da collante fabrile oltre che concettuale dell’operazione.

Su questa qualità estetica fondamentale Arman ha sempre investito molto, anche in questo erede degno di Kurt Schwitters e, nei tempi suoi, di quel Lucio Fontana che è stato per molti versi padre spirituale della sua generazione, da Yves Klein a Piero Manzoni.

L’ha fatto, naturalmente, scegliendo l’unica via intellettualmente e operativamente appagante, quella dell’esperienza diretta e fuori dalle righe, non imputabile di didatticismi e di ideologismi; quella che alla fine, comunque la si voglia guardare, approda all’opera. La quale non è più l’opera degli antichi, e a ben vedere neppure quella dei moderni: ma che su esse riflette assai più di quanto non appaia al primo sguardo, e che con esse può davvero misurarsi, perché la sua modernità non è secolare, ma profondamente, autenticamente genetica.

 

 

Nota

Per un inquadramento storico generale dell’opera di Arman si vedano B. Lamarche-Vadel, Arman, Editions de la Différence, Parigi 1987; A. de Lima (a cura di), Arman 1955 – 1991. A Retrospective, catalogo della mostra, Museum of Fine Arts, Houston, Texas, 1991; P. Cabanne, Arman, Editions de la Différence, Parigi 1993; D. Durand-Ruel, Arman. Catalogue raisonné. III, Editions de la Différence, Parigi 1994 (prima uscita del catalogo generale dell’artista)