Eliseo Mattiacci. Opere 1965-1989, catalogo, Galleria Martano, Torino, 1989

Ragionando, come accade sempre più sovente, delle vicende che alla metà degli anni Sessanta portarono all’ultimo fenomeno autentîca­mente neo-avanguardistico della nostra epoca scandito dalle defini­zioni commilitanti in minimalismo, concettualismo, anti-form, arte povera, eccetera, la critica attuale par tendere a privilegiare uno schema interpretativo poggiato tutto sulle varianti, le alternative, le interne reattività al codice artistico nominato prevalente, più che a coglierne i sottesi, ma non meno fondativi, fili consequenziali.

Mattiacci, Alta tensione astronomica, 1984

Mattiacci, Alta tensione astronomica, 1984

Con buon motivo; per molti versi. In effetti, il costituirsi d’un clima le cui intenzioni, e modalità operative, e strategie mondane tenevano appieno proprio della logica wave on wave dell’avanguardismo storico, così come appariva essersi sedimentato tanto nel costume arti­stico quanto in quello esegetico (al punto da sovrapporli in un unico conclamato “necesse est”, come d’un marinettismo risciacquato war­holianamente: con lo stereotipo e la mitologia implicite), a ciò non eteronomamente orientava e spinge. Tuttavia restava, e oggi ancora, in sospeso quale fosse lo spettro dei riferimenti condizionali, quale la tensione d’innesco storicamente ac­creditabile, tale da fare di questo fronte innovativo qualcosa di ben più fondante e autenticamente radicale della ripresa generica dell’e­sprit dada, d’un duchampismo più nominale che di sostanza, che era stato dei Rauschenberg e dei Nouveaux Réalistes, nelle loro epifanie correnti. E’ storia di teoricismi e di sistema dell’arte, di singolare e irripetibile pensarsi al mondo dell’artista – esistenzialmente e mondanamente ­e di torturante bisogno comunicativo: forse il tempo in cui essa si potrà scrivere, esorcizzando la crescita esponenziale di mitologie ul­teriori, non è lontano.

Per ora valga qualche postilla a un’esperienza tra le più cospicue, tra quante allora ebbero i primi atti di crescita, e del cui spessore pare oggi si prenda ad avere coscienza piena: quella di Eliseo Mattiacci. Dei suoi esordi, precoci e folgoranti, tra filo spinato e tubi, paraca­dute e fantasmatici teli, si è sempre sottolineato il rapporto privile­giato con Pascali, il sodalizio inventivo stretto fino alla contaminazione, che ha portato a proiettare anche su Mattiacci un immaginario saporosamente iconico, un clima da eventum teatrale, una mitopoietica totemica ed estroversa, di diretto vitalismo: che erano invece, in lui, nulla più che aromi, rispetto a ben altre congenialità espressive e riflessive, e consanguineità.

Anziché spettacolare, come Pascali e, per altri versi, Kounellis, l’in­venzione di Mattiacci si muove attraverso un’assunzione reticente, sottrattiva, ipodeterminativa, del codice di significazione delle forme. Cooptando un elemento del repertorio oggettuale, Mattiacci non opera per designazione, per sovrapposizione di sensi, sia pur collidente. La nozione corrente delle cose, e il suo potere evocativo, all’atto stesso dell’assunzione sono strappati dalla costituzione materiale, sulla quale egli lascia proliferare un tutto differente rapporto di agnizione, e simpatia, e proiezione fantastica, a tentarne l’estremo dell’ormai attoni­ta sensorialità. Non duchampianamente, tra cosa nome simulacro, egli sceglie di pro­cedere, ma nel senso della continuamente collassante e continuamente viva materialità e primarietà antropologica di Schwitters –ultimo/pri­mo senza fine d’una civilizzazione – con un piglio che mai nega mai afferma, ma interroga in profondo la ragione stessa delle cose, dei significati, del loro equivoco dover essere e consistere. E’ lo Schwitters che in seguito gli accadrà spesso anche di citare espli­citamente e che ora, anni Sessanta, egli assume a primum problema­tico e concettuale di una genealogia che egli tende a scriversi per vie non da molti frequentate.

Non la diaccia avventura “per verba” di Duchamp e Manzoni, allo­ra, ma il senso del toccare, del congegnare di Fontana: e di Klein, la dispersione nella cosmogonia cieca, la misura dell’universo come più o meno infinito tra il cervello e la divinità d’un cielo estraneo. E Colla, e il mai rivalutato Mannucci, e per il loro tramite Smith, presso i quali tra reperto muto e forma formata passa solo un atto purificato d’amore, crampo bianco e umile e demiurgico della men­te. Forma formata, meglio, precisata per interne consistenze e asset­ti di macchina interrogativa: opera aperta sì, e in progress, ma solo nelle introverse energie e flussi e tensioni che ne abitano il pensiero, e la ambigua percezione intellettuale, oltre lo stare come di lontano idolo muto nella sua apparenza, forte, precisa, trasparente: di vetro non di specchio.

E nell’agire, non l’offrirsi ipocrita d’una trasfigurazione, d’una esem­plarità iattante, ma il procedere per equivalente astrazione, forzan­do l’ordinarietà dello scorrere temporale, dei gesti, alla nudità d’un senso trasceso. Indeterminazione, indifferenza, inemotività, e mobilità, ora brusco ora progressivo spostamento dell’estetico fuori di sé. Son quasi pa­role d’ordine, per i tempi. Ma Mattiacci è, in radice, costruttore, an­ziché detrattore, e ne traversa lo spettro dei possibili non da scacchista dell’intelligenza, non da dimostratore teoretico. Per lui tutto ciò significa riguardare in volto la fede bruciante che era stata dell’art autre, la vertigine emotiva e mentale, l’urgenza di un dire che non nasca già morto; ritrovarne il luogo fuori della me­tafora, dell’imbarazzo della finzione, della palude della retorica. Ripudiando le negazioni, ma riguadagnando in un’astrazione non con­tingente, di nitida concretezza, l’estremismo di quell’ansia, la poten­za di quella lucidità disperata.

Questa è l’evidenza che anche oggi Mattiacci disegna, montando co­smogonie, rubando riflessi al cielo, per pesi e avvertimenti qualitati­vi di materia. E’corpo/tempo ancora, ma che accade e non si proclama; lì, forte come una cosa, preciso e smisurato come un pensiero.