Paul Uwe Dreyer. Neue Bilder und Zeichnungen 1985-1988, Galerie Beatrix Wilhelm, Stuttgart, 29 ottobre – 2 dicembre1988, catalogo, Städtische Galerie, Saulgau, 11 dicembre 1988 – 8 gennaio 1989

Quando Paul Uwe Dreyer, intorno alla metà degli anni Sessanta, inizia il suo percorso nell’arte, la questione del linguaggio non oggettivo gode di una ricca e definitiva maturità. È decaduta la verve polemica, affermativa nei confronti del tema del rappresen­tare, che aveva caratterizzato le vicende storiche dell’arte concreta.

Dreyer, Prismatische Konstellation, 1987

Dreyer, Prismatische Konstellation, 1987

È acquisita definitivamente la consapevolezza che l’immagine d’arte, in quanto proposizione plastica pura, è avvenimento totale del vedere, esperienza specifica del percepire, e non effetto eteronomo. La pratica pittorica può, ora, pensarsi come pratica fondamentale, irrelata, di un possibile che è, ogni volta, avvenimento forte di valore, luogo complesso e motivato del senso. Il repertorio problematico è ormai fissato storicamente. Ordine, misura, regolarità, sono non più i risultati di un lavoro di riduzione e semplificazione formale, ma i presupposti di un preciso, e ormai determinato, processo costruttivo dell’immagine: i cui ritmi, le cui articolazioni, i cui passaggi strutturali possono snodarsi da un minimo a un massimo di complessità, come nel naturale (non più mistico, o metafisico) dispiegarsi di una fenomenologia del vedere finalmente in tutto laica e razionale.

Alla radice sono i grandi modelli, ogni volta citati, di Mondrian e di Albers; ma il filtro è quello, di abolizione di ogni implicazione intenzionale, di pratica concreta inemotiva fino alla pura quantificazione, radicalmente antiretorica, del “what you see” di Stella e Kelly, del minimalismo pittorico. Dreyer, tuttavia, sceglie per sé una posizione sottilmente non-orto­dossa, in questo orizzonte problematico. Gli estremismi ideologici e concettuali, benché di straordinaria acutezza, della nuova vicenda americana non gli sono completamente congeniali. Il procedere sistematicamente, e inemotivamente, che egli confi­gura per sé, pur nella più assoluta acribia analitica non vuole rinunciare al margine felice di ambiguità e di scorrimento di senso che è il portato più tipico della tradizione europea moderna, il lievito della sua classicità.

La tensione di Dreyer verso un linguaggio essenziale e congruente non ha per esito la “reductio ad unum”, ma il ridarsi, purificato, dell’esperienza complessa del costruttore di visioni, per il quale non le identificazioni statiche e opache contano, e invece il reper­torio delle differenze, delle variazioni, delle possibilità ogni volta ulteriori che si schiudono. Questo atteggiamento, di costruttività analitica anziché minimale (che andrebbe una volta per tutte demarcata dalle troppe riedizioni del costruttivismo storico, stanche e generiche), riguarda oltre a Dreyer una rosa di figure, in Europa, abbastanza significativa da meritare riflessioni più adeguate di quelle offerte, negli anni Settan­ta, dalla saggistica sulla cosiddetta “pittura analitica”: penso a personaggi carismatici come Kenneth Martin o Mario Nigro, e ad alcuni giovani stretti oggi nelle maglie della non meno equivoca “nuova geometria”.

In effetti, più che alla tradizione costruttivista in senso stretto, che pure per Dreyer costituisce un appoggio importante (non casual­mente alcune opere dei suoi inizi portano il titolo Konstruktions­analyse), egli guarda a un altro tipo di sinteticità costruttiva, meno moralisticamente e ideologicamente rigorista, più disposta all’av­ventura dell’invenzione razionale, quella della decorazione. Fin dagli inizi, egli procede per sequenze di lavori, in ciascuna delle quali la griglia strutturale è posta solo come abbrivio per una serie fluente di variazioni, grafiche e cromatiche. Tali variazioni non si susseguono secondo un ordine meccanicamente sistematico, e invece subito tendono a produrre una sorta di imprevista com­pressione dinamica interna della struttura, fino al punto di una sua possibile dissoluzione. L’esito dell’immagine è allora non l’evoluzione progettuale, dimo­strativa, di un problema costruttivo, ma un’autonoma figurazione emblematica, di forte prestigioso impatto, dotata addirittura d’una sorta di intima, congenita capacità simbolica: stendardi d’un nuovo lògos, verrebbe da defìnire questi dipinti, alti in quella bellezza distante, in quella saporosa tensione in cui la tarsia grafica, pur fondativa, è come inghiottita nella partita silenziosa del colore. Se un riferimento illustre soccorre, allora, alle sequenze dinamiche che da anni Dreyer ci offre, è proprio agli artisti che hanno saputo filtrare la cultura del decorare in procedimenti formali basati su compenetrazioni cromatiche più che nudamente grafiche: Giacomo Balla e Sonia Delaunay.

Anche in Dreyer lo svolgimento strutturale dell’immagine è rigorosamente in piano, caratterizzato da tensioni diagonali disorientate che si intersecano, e che nel procedere della sequenza acquisi­scono sempre maggior accelerazione, fino a dissolvere la postula­zione statica originaria. Anche in Dreyer il colore si zona con passo fortemente ritmico, continuamente tentando sottili dissonanze, giambi cromatici che spodestano il valore architettonico dell’immagine. Ma è un colore, il suo, non primario e dotato d’evidenza propria, e invece disagiato, sempre abbassato e come reticente: la fascinazione non deve scaturire da una captazione diretta dei sensi, ma dal collidere inter­no dei rapporti, dallo scacco inferto alle aspettative percettive, dal riverbero tonale: i meccanismi additivi del colore sono attuati, ma per poterli sottoporre a un erosivo, ambiguo e proprio per questo significativo, lavorio di sottrazioni e spostamenti. Penso ad alcune sequenze recenti, Zonenbilder, 1985, Segmentabfolgen, 1986, Prismatische Konstellationen, 1987. Negli Zonenbilder la partitura spaziale di base varia dalla semplice croce bisettrice a quella in tre bande sovrapposte di quattro rettangoli, passando per le due bande quadripartite e le tre tripartite. L’articolazione dei colori vi insiste, su un passo binario o ternario, secondo modalità che, all’impatto, paiono rispondere a criteri di regolarità distributiva, e invece si producono in forte squilibrio, accelerando ulteriormente il tracciato centrifugo e asimmetrico delle diagonali. Nei Segmentabfolgen la base strutturale è identica, esapartita, ma più corrusca e tesa è l’azione delle diagonali, la cui dinamica reciproca giunge, nell’assoluta bidimensionalità offerta dalle forti tarsie cromatiche, a forzare espansivamente il modulo quadrato e la scansione ordinata dei rettangoli, e a suscitare addirittura una risonanza complessiva del piano, fatta di avanzamenti e arretra­menti percettivi.

Anche la serie più recente è, ugualmente, esapartita, ma l’inciden­za e la vettorialità delle diagonali si spinge a prove ulteriori, offren­do ai piani cromatici – i grigi, soprattutto, in serrata scansione con i gialli – la suggestione di una sorta di interna rotazione, in un gioco ancor più stretto di introversioni ed estroversioni. Tuttavia, si è già detto, non si tratta per Dreyer di dar corso ad alcun tipo di sperimentazione o di sistematica percettiva. Nel suo tenace e sottile lavoro intorno ai possibili visivi, ciò che conta veramente è la coscienza che questa pratica dell’immagine può essere non in virtù di artificiosissime teorie, ma proprio per la sua umile, primaria evidenza, di notomia modernissima e insieme stupefatta come una pittura o un tessuto medievale.