Mafai estremo, in Mario Mafai 1902 – 1965, catalogo, Palazzo Ricci e Pinacoteca Comunale, Macerata, 6 luglio – 15 settembre 1986

Quando, nel 1943, Santangelo pubblica per le Edizioni della Galleria della Spiga e di Corrente il volumetto dedicato a Mafai nei “Quaderni del disegno contemporaneo” (1), l’artista è nel pieno di uno dei più complessi e sottili “slittamenti programmatici” (2) tra quanti caratterizzano la lunga sua vicenda tra guerra e dopo­guerra.

Mafai, Rinascere, 1959

Mafai, Rinascere, 1959

Egli vive una crisi. Crisi che non è debito di stimoli, o calo di tensione sti­listica, o squilibrio improvvisamente aggallato di mezzi: che scaturisce dal collidere silenzioso ma drammatico tra le ragioni tutte esterne del suo essere nella pittura e il lavorio ossessivo, interno, irrelabile, di una coscienza che sa la propria irrevo­cabile estraneità storica. A quarant’anni, tra Genova e Roma, egli è già certificato maestro. La consan­guineità con Scipione, via Cavour mitizzata, Demolazioni e Fantasie erette, bon gré mal gré, a stendardi della moralità indignata dei tempi, e a prodromi di quell’arte “nazionale e popolare”, sinergia di tensioni politiche e civili, che farà la cultura nuova, sono i segni macroscopici del suo consistere come figura pubblica, riferi­mento e modello necessario d’una generazione.

Picasso, in fondo, è lontano. Qui ci sono Mafai e Birolli, Roma e Milano me­diate dagli eremi liguri, accomunati eroi d’una trincea che è, autenticamente, dub­bio fondamentale, singolo, pencolare ossessivo intorno alla dissoluzione e alla mor­te, e che nel bisogno di capitelli del tempo è travisata amorevolmente in trincea del nuovo, in grande figura della responsabilità morale. Il premio Bergamo ai Modelli nello studio, appendice sovrana d’un rimuginare astratto, per luci e atmosfere sospese, sulla parvenza e le sue larve imperfettibili, che era tensione amara del decennio dei Trenta (3), è un’esplicita medaglia al valore. Il reiterarsi dei riconoscimenti di moralità e responsabilità nei – non casual­mente – fitti testi dedicati a Mafai in questo volger d’anni (4), sincrono – ancora non casualmente – a ciò che nel milieu milanese emana dallo straordinario rapporto Bi­rolli-Bini (5); così come le riserve subito avanzate, sull’onda dell’effetto eccitato e di acida virulenza delle Fantasie tra la mostra veneziana da Mentasti e la romana “Arte contro la barbarie”, verso “l’uso e l’abuso di un armamentario di gusto mo­derno”, morandiano, decadente, postimpressionista, che si prolunga in “remore formalistiche” (6), dicono insieme di una richiesta di parole d’ordine, d’una necessità di mettere in scacco proprio i dubbi, il tormento appartato della pittura di Mafai, in favore di certezze e chiarezze collettive, d’un contesto d’arte che si sceglie e si riconosce e si vuole storicamente necessario, a costo di violare gelose e dolorose intimità.

Gli inchiostri rossi, verdi, azzurri, viola, neri dei disegni del “Quaderno” si fanno allora bandiera, nel loro irritarsi, e slogarsi in tumulto di curve che si scom­paginano e rimontano in accumuli affannati, di un espressivo di cui più si fa im­portare la sintonia d’angoscia con i tempi, l’“irrazionalismo drammatico” (7) che non il dato, forse, fondativo: il rimuginare ostinato l’antico, la sublimazione letteraria – e, per questo, infine antiretorica – delle ombre lunghe dell’imago mortis fatta corpo di pittura: dove lo stile, allora, non è norma estetica, ma addensarsi plasticamente pieno dell’ombra estrema nella rimemoria di passate, grandi intensità. L’antico come sostanza, anziché come gioco di fantasmi formali, è il modo di sus­sistere senza il dover essere del moderno, che Mafai intravede, negli anni della guerra. Questa, forse, è anche la più vera sua ragione di simpatia con Morandi, che in questi anni serra paesaggi “inameni” (Longhi) nella secchezza di una pittura che è anch’essa, tutta, desolazione e ripensamento (8).

Penso alla sospensione quasi bontempelliana dell’Omaggio a Vermeer, dei Ma­nichini, degli altri dipinti e disegni con tappezzeria e ventagli… Penso a certe ve­dute romane, con quei rosa, gialli, azzurri contaminati nel fremere abbreviato delle paste, come echeggianti antichi bagliori, dove non è luogo per cronaca ed eloquen­za, e l’immagine si aggruma introversa, aspra, reticente. E ai cobalti e viola sovra­tono di certe nature morte, frutti d’una quieta ma non meno allucinata visionarietà, in cui il colore livido e assordato, a pennellate brevi, delle ultime Fantasie, ritrova fluenze più lunghe e lievitanti, in cui già lo sfaldarsi delle consistenze in aliti bassi di colore – con episodi di rubino incupito, di vinaccia virata al marrone, di alo­nature verdi – erige improbabili strutture, assetti pericolanti e infine ininfluenti, che la luce segna faticosamente: nella Natura morta con candelabro, in quella con il teschio. Ancora, all’episodio altissimo del Ritratto Fersen, con quei blu e verdi resi metafisica distanza, con quel vedere di fosca e disperata semplicità, caduto ogni turgore violento.

Tant’è. C’è urgenza di realtà, di storia, e cronache, e castelletti retorici di nuo­vi discorsi, d’un sentirsi vivere tutto specchiato nelle parvenze del vivere per qual­cosa. Che Mafai concepisca il fare, l’indignazione stessa, come il proprio fare, come la propria indignazione, come separatezza renitente a ogni esemplarità, a ogni con­frérie ecclesiale, in fondo poco importa. Che abbia rinunciato a invader l’Italia col veleno dolce dei suoi fiori per ten­tare la singolarità irripetibile dell’immagine estrema, per uscire definitivamente dal marasma dei nutrimenti terrestri, e non per seguire basculando le querelles tra gli apologeti provinciali del formalismo e i loro simmetrici del realismo – con l’incu­bante terza via astratto-concreta – conta ancor meno. A lui, vocato al mormorio solitario, al laicismo da ogni verbo, si chiede d’es­sere maestro di parole chiare, e univoche, che tengano il passo delle fragorose eco­lalie critico-ideologiche. Egli però continua a mormorare, a coltivar dubbi in luogo di speranze, ergo, si proclama, è in crisi, né gli tocca l’aeropago dei consacrati, ma l’umiliazione di chieder continua venia alla mediocrazia.

Così nasce la sua presenza alla Biennale del ‘48, tra omaggio retrospettivo (9) e propositi di una maestrizzazione che gli è chiesta, cui è indifferente. Marchiori av­verte che “occorre attendere Mafai allo sviluppo di questa nuova dichiarazione”. Ma la dichiarazione non è davvero fattiva, nervata di progressi. È, piuttosto, la mortificazione faticosa del gusto, “l’esigenza di uno spettacolo, di una misurazione, rapporto di emozione visiva” (10) fuori da compiacenze virtuosistiche – tentazione ben nota a lui, antico faber cultore di maestrie, essere intriso di spossante sensualità – e da scadimenti illustrativi, banalizzanti in fondo. L’ansia di una purificazione, d’una energia emotiva che si componga in severa potenza senza cosmesi di genere, senza i cari abbigliamenti della scena post-metafisica o il retrogusto polemico, in virtù d’un saper guardare che colpisca al cuore i fantasmi del fenomeno e sappia ricostruire l’immagine in forma formata per via di pensiero, è il propellente di que­sti anni controversi.

Capire il “tragico sentore di cadavere” (11) delle cose dandogli una conformazio­ne non tributaria di retoriche, significa anche il coraggio di sopprimere l’aura ca­rismatica, sacralizzante del proprio sguardo, tentare una qualità che non adeschi e innamori i sensi, ma sia come l’affioramento strenuo e lento d’una verità fonda­mentale sotto le spoglie d’una materia torpida, infelice, muta.

Mafai si tiene ancorato al paesaggio, alla figura, alla natura morta, ma sacri­ficando il motivo, il lievito sentimentale che pur sempre risuona nelle sue pitture. Le periferie, le vedute di Fiumicino, così come i fiori i barattoli i peperoncini, divengono costrutti elementari, strutturalmente elusivi, ritrovano la propria scala di valori nello scambiarsi magro e risentito dei toni, nella luce salda e senza splendori che ne imbeve i rapporti e li rende evidenza semplice, appena concedendosi so­prassalti di rosso, di viola, nella tonalità minore degli azzurri imbigiti, degli ocra deperiti a terra spenta. Le pennellate si poggiano brevi, come timorose del guizzo di grazia, macerano il colore anziché eccitarlo, sfibrano la materia in rinunce continue, in temperature rattenute, in emozioni filtrate e meditate fino all’estraneità. Certo, è pur vero che questo che dipinge è un Mafai preoccupato, così ansioso di controllo sul processo pittorico e così assediato dalla scelta di essere uomo di verità – per quanto consapevolmente illusoria, perdente – piuttosto che bizantino uomo di parola schie­rato su l’una o l’altra barricata (12), ma contemporaneamente in coscienza presente ai tempi, da rattrappire l’estensione naturale, fisiologica direi, dei suoi raggiungimenti e possibilità, in una sorta di continua autocertificazione di rigore.

Proprio in questo tempo, il giovane Scialoja gli dirige un’esortazíone assai sin­tomatica: “Diffida dai garzoncelli petulanti che si permettono starti alla pari, non far coro nel rinnegare e spregiare i tuoi simbolici fiori secchi. Scava, approfondisci, arricchisci nella tua direzione, sii fedele a te stesso, al tuo dolore. Decidi di non esser popolare nelle brigate turbolente o sugli sgrammaticati giornaletti d’avanguar­dia. Fatti superare dai tempi, ma rendi sempre più solenne il tuo tempo interno; non esser contemporaneo ma sii contemporaneo a te stesso, fatti pure trascinare dalla cronaca piuttosto che comportarti con essa in modo subdolo e affascinato, come il vecchione con Susanna. Guarda d’essere inattuale, di apparire in ritardo, addirittura sepolto” (13). Non con l’attualità si gioca la partita di Mafai, ma con il tempo. Il suo purismo è come si misurasse continuamente con il fantasma ostinato e digrignante dell’ultimo Cézanne, eretto in lui a grande modello della vocazione definitiva al silenzio, all’alterità.

Mafai, Profezia, 1963

Mafai, Profezia, 1963

Non che, però, le proprie garanzie Mafai le chieda o le offra all’esterno. Le contingenze contano solo come provocazioni, assunti ideologici intorno all’arte di cui egli misura in partenza la superfetazione mondana, ma che pur non può per­mettersi di rifiutare senza averli ben penetrati: e il suo modo di comprendere è dipingendo, a costo anche di rinunciare all’alibi del quadro risolto, di parere ir­retito in un gioco di paternità politico-culturali che fa certo parte delle cronache ma che incide solo superficialmente nell’atmosfera del suo studio. Alla critica, alle sue impotenti piccole architetture, nulla ha da domandare, né in effetti, anche in questo delicato squilibrio d’intenti, che pur bisognerebbe d’in­terlocuzioni sostanziose, rivendica, offrendo in pasto il proprio personaggio aspro e tormentoso, di popolano anarcoide blasfemo geniale che – sotto sotto è il filo d’ombra costante – ha avuto il torto di sopravvivere alla morte e glorificazione mi­stica del germano Scipione. Come far capire il coraggio di scommettere, ogni volta, tutto? Come mostrare l’ovvia inutilità d’attualizzarsi, se il vezzeggiamento critico, e i tributi d’onore, era­no già garantiti come sinecure? Come, ancora, dire di batter la via più impervia, il rischio continuo di contaminazione con le voghe modeste in corso, ma tentando ben altro, se questa via non è nel fuoco visivo di nessuno, e invero è da lui stesso più intuìta che conosciuta? Meglio tacere, e mascherarsi dietro la figura mondana, tollerando (e soffrendo anche) d’essere redarguito, e conteso volgarmente, inutilmente censurato come inu­tilmente celebrato, concentrandosi solissimo su una transizione che non sarà da modo a modo, ma verso il barlume possibile di coscienza estrema.

Così nascono le forti composizioni di pomodori e peperoncini, e altri paesag­gi, e certi sintetici disegni di nudo di pigra bellezza, come velati da una membrana sfocante, che polarizza la luce e la impedisce alla plasticità degli oggetti, che schiac­cia la bellezza pericolante, ora piena ora marcescente, dei colori in prime, timide tarsie. Nasce anche un autoritratto dal fondo blu umbratile messo in risonanza dal teso rosso violaceo della camicia, a far da portante alle carni illividite, dure, mo­ribonde nel verdastro appena toccato di lilla, che fa il paio con quello dal berretto blu, di pari tenacia riduttiva, poggiato sul quel fondo di peltro da controriforma. Prendono ad apparire anche le prime osterie, e strade, e scene di sentore popolare con cui s’affaccia alla Biennale del ‘50, con l’Osteria di via Flaminia campeggiante nei pressi del Ritratto di Carlo Levi di Guttuso (l4): sintomo di molte, forse troppe cose.

Pare, questo, il momento di maggior tangenza con gli entusiasmi programma­tici per la vita reale, che coincide con le ben diversamente orientate, e affettuose, letture che gli dedicano De Libero e Bigiaretti (l5): i quali guardano ad altre prove, come quel paesaggio del ‘50 serrato tra l’ocra e verde di natura e un cielo fatto di mille irritazioni, in cui il colore si moltiplica in tensioni lunghe e fratte che mon­tano verso l’alto fino a sfocarsi in vaghezze afose di colore freddo e ormai già pa­drone di sé, irresponsabile di notomie descrittive, con l’incidente della cupola ag­giunto a levar perfezione a questa partitura scandita tra due orizzonti. Dei nuovi temi, di epos acido e basso di popolo, che lo occupano almeno fino al ‘54, lo interessa la possibilità del costrutto ampio e complesso, cui sacrificare la consueta tenuta del radiante tessuto tonale e il gioco saporoso dei timbri sovrato­no: come se in queste prospettive frananti e centrifughe, ricche di curve fendenti, e in questo indurirsi ostico e affumicato del colore potessero ritrovarsi certi cupi bagliori della pittura del ‘29. Ma le sovrapposte specificazioni analitiche, l’abbreviazione dei rapporti cromatici in zonature sorde e ultimative, la cruda sospensione della luce, nulla più hanno della potenza risolutiva del tempo di prima. Il sospetto d’aneddoto, certi so­prassalti d’ambizione intenzionale che si traducono in stenografia, l’imprigionare l’immagine in materie senza aroma, lo fanno correre sul filo teso d’una volontà che a furia di penalizzare grazie rischia equivoci ben più perigliosi.

Ovvio che la critica, pur riconoscendogli autenticità d’intenti, veda dietro que­sti specchi di solitudine tremenda sintomi allarmanti (16) d’impasse, soprattutto nella riduzione del colore a strumento passivo d’un linguaggio che proprio sul colore aveva edificato la propria facoltà di montare in immagine. Ovvio, anche, che nella querelle dei tempi questa pittura venga infine salutata come quel chiaro segnale di affiancamento non più solo culturale alle ragioni di una pittura di forti tinte so­ciali (17). Poco importa che, misurandosi con i modi, con il clima, Mafai ad altro miri; che proprio tra ‘53 e ‘54 insista nei propri appunti privati sulla banalità di pensiero e sulla noia correnti a causa di poetiche preconfette, compromissioni letterarie e accademiche del fare pittura, sulla desolante mancanza di qualità del dibattito sull’arte, e sulle cialtronerie variamente emergenti (18). Anche, che quel rovello pittorico, quel provare affannato, generosamente ineguale, sia per lui giusto la conferma pro­vata della propria incompatibilità, dell’irrevocabile alterità del suo destino. L’altro destino, quello di ogni giorno, sarà fino alla fine d’essere oggetto d’una trista con­trattazione: tanto che, ancora all’ultimo, la rivendicazione di una inattualità fonda­mentale sarà per lui una preoccupazione ben avvertita, a fronte di disagi critici ir­risolti (19).

Né è un caso che altri saggi degli stessi anni, pittoricamente assai più alti e compiuti, e soprattutto in prospettiva più fertili, siano come taciuti dai più, e considerati una sorta di compiaciuta appendice delle glorie passate. Ma sono nature morte di densità fremente; soprattutto, ulteriori paesaggi romani. Qui il procedere per trame fitte di variazioni tonali in luce distante e velata, con il frammentarsi solare di terre e rosa e azzurri e improvvisi accenti di verde dà una lontananza definitiva, che fa inerpicare le tessere cromatiche verso la chiusura risoluta del cielo che si apre ad altre attese, ad altri inscrutabili approdi. Cruciale è la mostra alla Tartaruga del ‘55, la prima d’un trittico (’57, ’59) destinato a far franare negli esegeti i residui di bon ton e d’umiltà, a scatenare una bagarre tra le più stolide e deplorevoli del dopoguerra, culminata in occasione della partecipazione alla Biennale del ’58 (20). Mafai è come si offrisse nudo, nel tumulto silenzioso del suo studio, dove “quella gelosa fatica di cavalletto, quella elaborazione lenta, quella meditazione ancora una volta sui pretesti” d’un figurare senza programmi e certezze e alibi, quel tentare verità che assediano e sfuggono armato solo “col sugo amaro della sua tavolozza” (21), s’incarna nel dimesso, agghiacciante autoritratto in piedi, e insieme in nature morte di tenace, pudica qualità. È ammettere, dichiarare forse, il proprio convivere quotidiano con un senso ineluttabile del limite, con l’impossibilità d’estasi e grazia, con il gelo mortale d’im­magini che non possono finger di vivere, quando non s’abbiglino di stile intrigante e arguzie fabrili, e petizioni di principio. Laico fino alla distruzione, Mafai non vuol essere eroe né sconfitto dal mondo. Chiede solo di poter continuare a scavare, con lucidità impietosa, dentro il proprio mondo, nell’angoscia metafisica che ha preso il posto dell’antica, leopardiana vaghezza: fino a vederla in volto, la tacita, ultima combinazione del pensiero: e bestemmiare, o tacere.

Non gli è toccato certo lo scetticismo casto e distante di Morandi, la mistica focosa di Scipione. Ogni agnizione è fatica, aspra, dolorosa, lenta, risentita fino all’estremo nei sensi. E dolore che si propaga, ed espande con inarrestabile flusso, facendosi arma anche di un’ironia che debilita la speranza di bellezza. Mafai questo limite, questa fatica sfibrante, sceglie di viverli fino in fondo, sa­pendone il prezzo tremendo. Ritrova il passo del suo soliloquio allucinato, del per­dersi senza felicità dentro il crescere delle parvenze nella memoria, dentro il flut­tuare dell’angoscia sublime della pittura. Quando, nel ‘57, è nuovamente alla Tar­taruga, chi ha occhi e sensi s’accorge che il tormento del Mafai del dopoguerra sta per sboccare. C’è un Mazzo di fiori che apre il piccolo pieghevole, in cui verde rosa arancio si offrono senza più residui d’orgoglio, dimessi, indifesi, in una sorta di stanchezza ebbra, con quel violetto che rimonta in aloni e tacche brevi sul blu a trovare un tono che non è più nulla che se stesso, la propria apparenza. Ancora uno scotto è il testo di Venturi, che non si astiene dal proclamare, a fronte della grandezza baluginante dei toni sfaldati, ansimanti per introversione brulicante del vedere, dei Paesaggi romani, dei Tetti, del Mercatino, che Mafai “ha risolto per sé, in modo pieno ed esemplare, il problema dell’astratto-concreto”.

Eppure è tutto lì, nell’aver dimesso ogni intenzione, nell’aver preso ancora, con appassionato coraggio, le distanze da chi “organizza il suo istinto e lo filtra attraverso la sua astuta e fredda intelligenza” (23), nell’aver ammesso infine la volontà del colore di rimuginarsi fino a concepire ulteriori, sempre più inquieti, fantasmi di morte, effigiati in splendore allarmante. Quel viola stillante aromi amari che poi sarà solo di Turcato, il disagio pie­namente ammesso dei blu e rossi e gialli e bianchi d’intonaco putrefatto, quei verdi inspessiti di sedimenti sordi eppure non più grevi, tutti impuri d’una impurità che è soprassalto, singulto di vitalità, segnano il cupio dissolvi delle Maschere, ripensamento ensoriano con la rabbia agonica di un Tancredi, e i Mercati, col riverbe­rarsi corrusco di materie e pause di stralunata e meravigliata contemplazione, con lo spianarsi definitivo della visione in pullulare impazzito di segni disorientati, col­lidenti, eppure così compatti e grandiosi, così autenticamente intensi. Sono i quadri della controversa Biennale del ‘58, il Banco di pomodori, il Mercato delle erbe, il Mercato del pesce, lo straordinario Fascio d’erba… (24)

Mafai ormai vede dove nessuno; ha con il colore, con la sua capacità di esser luce e materia e vocazione di forma e spazio e insieme molto più, un’estrema con­naturata solidarietà, il passo di una cognizione dolorosa, sottilmente avvelenata, che ora trova modo pieno di dirsi, e che non si sfiducia più nell’inseguire parvenze irraggiungibili di verità. Ancora due Roma, 1958. Nella prima, le pennellate sono brevi, fitte, tese, s’aggrappano alla banda di cielo illividito, inspessito di minacce lontane. Il tessersi dei piani multicolori si neutralizza in una più fonda fisiologia del colore, in un’or­ganicità che è fatta di intrisioni e infiltrazioni di luce dentro materie ormai respon­sabili, ceneri d’una visione consumata al fuoco lento d’una memoria pensosa. Nella seconda, le pennellate assumono cadenza più lenta e sfibrata, nulla più resta se non il loro premere alitando lo spazio, il loro crescere incoercibile all’in­terno d’una immagine convocata per puri valori, e tenuta appesa a quella distanza nutrita di naturalità, non più d’alibi di natura. Ineffabile, terso prosatore, quando non cerca più Mafai trova infine la sono­rità piena del passo poetico, una visionarietà che non è frutto di fantasia esercitata, ma di diversa, ultima cognizione. Forse è questa la “capacità di sfida agli altri e a se stesso” che Venturi in­travede, oltre le preoccupazioni definitorie, nel passaggio del ’57 (25). Le fantasmago­rie si aprono, distese, a una melancolia aggettivata solo pittoricamente. A ciò, in­fine, è servito l’aggirarsi inattuale dal “goffo surrealismo” al “programmatico de­cadentismo intimista”, al “filone barocco-ensoriano”, fino alla tangenza apparente con “la morta gora del cosiddetto informale pittorico” (26): proprio a non dar credito ai tempi, a tentare un’autenticità non conclamabile, orfana di credenziali mondane e vocata ai tempi lunghi della qualità vera.

Le cose, le parvenze, trasecolano, si ritraggono da se stesse. Cedono gli effetti, la logica del discorso. Mafai resta ancora più solo, con quei colori le cui movenze giocano campi di affetti, così reticenti e privi di pietà, monologanti nel deserto dell’inutile, del vacuo pretestuoso, solo perché il sangue circola, perché ci sono notti e giorni da vivere, perché l’ethos indignato non vuole soccombere alla spettralità animosa del mondo. La luce ritorna la luce. Come lenta agonia. Pensieri inutili. Ciò che rimane è ancora possibile. Quadri “in cui miccie si accendono e spengono, braci si consu­mano, petali di rosa si sfanno” (27), ironie esorcizzano il patetico, in titoli sconsola­tamente nuovi, cartigli d’una pittura splendidamente muta, concentrata nel suo non essere al mondo che per abbaglio colorato.

Nel clamore scandalistico della mostra alla Tartaruga del ‘59, tra rifiuti e cooptazioni facinorose, tra gongolii e ripulse di critici che ancora pretendono d’e­largire medaglie, Mafai ritrova senso e respiro di quel limite sottile, di bruciante angoscia, che era stato – questo sì, pienamente, seppur in altre fattezze – delle al­lucinate tensioni iniziali. Sente finalmente correre nei propri nervi, nelle proprie vene pulsanti, la cupa felicità finale del suo Cézanne, del suo Greco, del suo Ti­ziano. Certo, gli altri parlano di Wols e Tobey, compagni dell’ultima Biennale, e di Pollock e De Staël – qualcuno, più acuto, di Gorky –, monumenti di dispersione eroica, esemplari sconfitti. Certo, pur nel suo voler essere marginale, né eroe né esempio, Mafai li guarda: anch’essi hanno un’intensità da offrire, imprigionata in quei totem franati. Ma lui non è uomo di simboli, o allusioni; soprattutto è disincantato al fare per energia attiva. Il suo è un avvertirsi vivere, non un sentirsi vivo; senza aperture prospettabili. Rinascere, Pensieri inutili. I gesti sono brevi, contratti, come crampi senza pul­sioni che si alzano su un fondo più disteso e zonato, come nuclei grumosi che lie­vitano irritati a misurare una profondità, a moltiplicarsi evitando il rischio banale delle due dimensioni, dell’ultimo sospetto decorativo. I bordi chiudono ancora, in una ritrovata tensione centripeta: non sono convenzioni: l’opera, tutta, è la stre­mata esperienza. Cancellare la mernoria. I reticoli, semplici blu gialli rossi, si serrano fittissimi a occludere lo spazio, a pressarlo, in una crescita che non è regola ma annaspare saturando, per toni disagiati, per elisioni continue.

Ad altri, che credono ancora l’utilità, di essere persuasivi, di capire e propor­re. Agli altri, tutti, di interrogarsi sul perché un senatore della pittura paia somi­gliante e non somigli, paia convertito e si riveli ateo, paia restituire una nuova fe­licità e souplesse del fare e invece coaguli una rassegnazione fondamentale, una schietta infelicità da nomade della ragione e dei sensi. Nel flusso di questa pittura, ancora una volta tanto in apparenza contigua ai tempi quanto radicalmente estranea, ecco anche momenti di più aperto cantabile. In Verso il sereno sono bianchi e azzurri come d’intonaco, lontani come tracce d’affresco; in Colloquio platonico sono bruni dalle stesure magre di ragia, di sner­vata eco carnale, con lenti aloni rosa e bianchi e gialli senza più splendore, e l’ardua irritazione di qualche grumo e delle curve degli inserti. Nuclei sono i cordini, ipotesi larvali di forme presenti ma senza vita. Non sono che gli antichi fiori, quei filamenti inerti e abbandonati dei primi Trenta, il lunare garofano del grande Nudo coricato, e i brandelli di corpi degli inchiostri del­le Fantasie. Lì, senza più ragione che il proprio esserci, che il proprio assumersi la perdita di ogni garanzia di forma. Non fluttuanti in una sorta di atmosfera amniotica: pro­prio fissi, incollati, bloccati a quelle consistenze di colore, alla capacità d’emanare di quelle stesure dilavate, di indefinitezza sismografica.

Ancora qualche mostra, ancora qualche residuo d’incomprensione, affettuosa e non, e disagio. Mafai però è altrove, s’interroga ancora su coraggio e pericolo in pittura, su verità e realtà: “ho bisogno di altro” (28). Forse, è ciò che rigurgita dal grigio d’amiantite marezzata su cui si rapprende un bianco intristito e greve, di Solitudine. Oppure, dal blu macerato e vivido di Può essere, con quel grumo di corda invischiato nel violetto. Insomma, dalla materia inestetica, misura di dispersione sensuale, fatta tacche e colature, aloni e veli, pennellate senza fremito e tumescenze senza vita.

È la perdita fatta pittura, il vuoto attraversato senza orgoglio senza orrore. “La mostra è stata inaugurata, molta gente molto vuoto. Adesso si sta spe­gnendo quel poco di eco. Nessuna cosa incide nessun verbo colpisce. Corda indurita e la vernice più non traspira e trasuda. O gli dai la bestemmia o la speranza o la fede o la maledizione è la stessa cosa” (29). “Stasera mi sento bene. Evviva. Evviva, lo spirito torna e la materia è scon­fitta: non ho avuto fede. Male. Lo spirito ha vinto!” (30).

Note. 1. Milano 1943. La pubblicazione esce dopo quelle dedicate a Guttuso e Manzù, prima di quella su Ma­rino.  2. C. Brandi, Importanza di Mafai, in “Corriere della Sera”, Milano, 16 febbraio 1969: nel senso, ov­viamente, dell’irrequietudine insoddisfatta.  3. C. Brandi, Mafai all’Arcobaleno, in “Le Arti”, II, 1, Firenze, ottobre-novembre 1939, p. 44, offre uno scorcio esemplare del finale di decennio dell’artista.  4. Cfr. in particolare R. De Grada, Mario Mafai, in “Corrente di Vita Giovanile”, III, 4, Milano, 29 feb­braio 1940, p. 4; G. Marchiori, Artisti contemporanei: Mario Mafai, in “Emporium”, XLVI, 9, Bergamo, settembre 1940, pp. 121-128; R. Guttuso, Nota a Mafai, in “Primato”, I, 13, Roma, 1 settembre 1940, p. 18; A. Santangelo, Mario Mafai, in “Emporium”, XLVIII, 4, Bergamo, aprile 1942, pp. 149-157.  5. Cfr. R. Birolli, Taccuini 1936-1959, Torino 1960; S. Bini, Responsabilità della forma, Milano 1971; AA.VV., Birolli, Milano 1978.  6. È la lettura di R. Guttuso, Pitture di Mario Mafai, in “Rinascita”, II, 11, Roma, novembre 1945, pp. 253-254.  7. R. De Grada, Omaggio a Mafai, in “Vie Nuove-Arte”, 1965. G. Briganti, Un po’ di Russia in piazza Na­vona, in “L’Espresso”, XII, 19, Roma, 8 maggio 1966, p. 29, parla di questi disegni come dei più alti dell’intera produzione mafaiana, comparabili solo con gli ultimi nudi.  8. Su questo momento di Morandi cfr. G. Raimondi, Morandi dopo la liberazione, in “L’immagine”, I, 3, Roma, luglio-agosto 1947, pp. 176-178.  9. Alla XXIV Biennale di Venezia, 1948, la sala XXXIII ospita la retrospettiva di Scipione con 17 quadri e 14 disegni, la sala XXXIV presenta 20 opere di Mafai, che vanno dai Tre polli e dal Cestino di fiori del ‘38 a Lungomare, La strada, Porto di Fiumicino, etc. del ‘47 e Ombrello nero del ‘48 (in catalogo, cfr. pp. 142-144).  10. M. Mafai, Diario 1926-1965, Roma 1984, p. 78.  11. In G. Visentini, Visita a Mario Mafai, in “La Fiera Letteraria”, Roma, 11 aprile 1946.  12. Esplicitamente si riprende l’espressione di F. Arcangeli, Lettera a Crispolti, ora in Dal Romanticismo all’Informale, Torino 1977, p. 379.  13. T. Scialoja, Mafai 1947, in “Mercurio”, Roma, gennaio 1948, pp. 128-133. Cfr. anche la sottile analisi di C. Brandi, Europeismo e autonomia di cultura nella pittura moderna italiana (III), in “L’immagine”, I, 3, Roma, luglio-agosto 1947, pp. 133-156; inoltre, l’affettuosa testimonianza di Cairola, Mafai tradito, in “Omnibus”,  Milano, 6 maggio 1947.  14. XXV Biennale di Venezia, 1950, sala XXX (in catalogo cfr. p. 140).  15. L. De Libero, Mario Mafai, Roma 1949; Mario Mafai, catalogo della mostra, Modena, La Saletta, 17-26 dicembre 1949, con prefazione di L. Bigiaretti. 16. Cfr. G. Ballo, Mafai è tornato se stesso, in “Settimo giorno”, VI, 9 Milano, 4 marzo 1953, p. 32; R. Longhi, La biennale degli astrattisti ci sorprende con un realista (1954), ora in Scritti sull’Otto e No­vecento, Firenze 1984, p. 151. Assai utile è la ricostruzione di V. Martinelli, Mario Mafai, Roma 1967, pp. 37-44.  17. Per esempio da A. Trombadori, La coerenza di Mafai, in “Il contemporaneo”, II, 12, Roma, 19 marzo 1955, p. 9.  18. Mafai, Diario, cit., pp. 84-109.  19. Sintomatiche della tenacia di tale disagio sono letture come A. Pica, Tra fiaba e realtà la pittura dí Mario Mafai, in “Arte illustrata”, Milano, luglio-dicembe 1968, pp. 48-57, che parla dell’ultimo Mafai irretito “dalla monotonia d’un Tobey o dal vacuo impeto distruttivo di un Pollock o dal disordine (sic!) di un De Staël”; oppure come G. Contessi, Perché Mafai?, in “Europa Libera”, XV, 4, maggio 1969, monumento di finto non-provincialismo. Dal canto suo Mafai, in una bella intervista a M. Venturoli (L’ultimo incontro con Mario Mafai, in “Le ore”, XIII, 17, Roma, 29 aprile 1965, pp. 57-60) insiste sulla sua predilezione nel frequentare artisti non manichei e nomadi come Turcato e Corpora, piuttosto che gli ortodossi realisti “di piazza Nicosia”, e specifica: “Mentre con Guttuso – rise, una risata lenta, affermativa – non mi accomuna niente: lui è violento, io un non violento… Anche nel periodo figurativo e realista non ho avuto proprio niente da spartire con lui”.  20. Cfr. il ripercorrimento bibliografico dedicato alla Biennale del ‘58 in altra parte di questo catalogo.  21. L’espressione è in M. Venturoli, La lezione di Mafai nella mostra alla Tartaruga, in “Paese Sera”, Roma 25 febbraio 1955.  22. Mafai, catalogo della mostra, Roma, galleria La Tartaruga, 3 aprile 1957, con prefazione di L. Venturi.  23. M. Mafai, Mafai risponde a Il Punto, in “Il Punto”, Roma, 5 ottobre 1957, p. 2.  24. XXIX Biennale di Venezia, catalogo, Venezia 1958, pp. 23-25, con prefazione di L. Venturi.  25. L. Venturi, Mario Mafai, in “Commentari”, VIII, 1, Roma, gennaio-marzo 1957, pp. 69-77.  26. È la lettura di A. Trombadori, L’universale di Mafai, in “Il Contemporaneo”, IV, 17, Roma, 27 aprile 1957, che prospetta per Mafai “una sintesi superiore, realistica, ancora una volta”.  27. Mafai, catalogo della mostra, Roma, galleria La Tartaruga, 3 dicembre 1959, con prefazione di A. Bertolucci.  28. Mafai, Diario, cit., p. 154 (13 febbraio 1964).  29. Mafai, Diario, cit., p. 156 (25 marzo 1964).  30. Mafai, Diario, cit., p. 158 (4 febbraio 1965).