Ico Parisi. L’officina del possibile, catalogo, Padiglione d’arte contemporanea, Milano, 30 gennaio – 10 marzo 1986

Forse è possibile discorrere di eccentricità esem­plare, a proposito del lavoro di Ico Parisi. Esemplare nel muoversi sui binari del dubbio, dell’ininterrotta rimessa in questione, della pe­netrazione problematica ogni volta radicale, e ancora della scommessa che lo schema ideologi­co, il metro razionalmente costituito prevede di sé una dismisura, e una possibilità di senso ulte­riore, che è doveroso tentare: non per il gusto della trasgressione che si esibisce come capriola del nuovo, ma per l’integrità di un ethos che chiede, e cerca, solo pensieri necessari, alitanti ambiguità vitale invece che piccole retoriche snervate.

Parisi, Tavolo mensola, 1947

Parisi, Tavolo mensola, 1947

È un dubbio praticato quotidianamente, con tut­ta la concretezza di chi sa che pensare senza vi­vere è un esercizio sterile, e che anche l’utopia è un’avventura seria, non un anestetico per la sopravvivenza. Come un’officina del possibile, come un campo d’esperienza che non accetta perimetri dati e normative catastali, e definizioni, e reinventa ogni volta la propria fondamentale ragione di esistenza.

Gli esordi di Parisi, nato a Palermo nel 1916, datano a un luogo, e a una stagione, tra le po­che veramente fertili della cultura italiana mo­derna. Como, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, è dominata dalla figura di Ter­ragni, razionalista senza verbo, sognatore post­metafisico. “Gli incontri di questi anni erano straordinari: Bontempelli, Martini, Figini, Pollini, Lingeri, Radice, Ciliberti… era dibattito vero, in cui la questione dell’integrazione delle arti, fuori da schemi disciplinari, era pratica quotidiana, non un postulato teorico. Inoltre la marginalità di Como, il suo essere da un lato provincia e dall’altro confine con l’Euro­pa – e oltre frontiera viveva Sartoris, il cui ruolo di proposizione e informazione era di prim’ordi­ne – garantiva una libertà e un’autonomia d’ini­ziativa inconsuete”. Terragni chiama Parisi a collaborare, con una serie di fotografie, al numero speciale di “Qua­drante” dedicato alla Casa del fascio di Como, e all’allestimento della Mostra coloniale a villa Olmo: qui l’invenzione precoce di una torre in tubi metallici segna, insieme ad altre soluzioni per l’ingresso e la sala centrale, l’esordio del gruppo Alta Quota, che Parisi costituisce con Cappelletti, Galfetti e Longhi.

Negli stessi anni, ecco anche apparire i primi do­cumentari cinematografici, le prime scenografie, le prime privatissime prove pittoriche condotte nel segno di una sorta di astrazione organica. Insofferente al rigido clima disciplinare, Parisi cerca deliberatamente continui sconfinamenti tecnici e linguistici. L’architettura nuova rischia al suo nascere, già di rinchiudersi su se stessa, di contentarsi di frigide purezze. Lo spazio che interessa Parisi non è quello, teo­rico, racchiudibile in un foglio da lucido, ma l’ambiente della vita, accidentato, mutevole, ca­pace di contenere il quoziente poetico di un’idea prima ancora che la sua fisionomia razionale. “Galfetti muore in Africa, io vivo l’esperienza della campagna di Russia. Del lavoro di Alta Quota, concluso prestissimo, non resta quasi nulla. Nel ‘45 è come se si ricominciasse da capo, con l’urgenza di porre le condizioni per una vita nuova che non sia solo sopravvivenza economi­ca”.

Parisi, schizzo per Padiglione soggiorno, X Triennale, Milano, 1954

Parisi, schizzo per Padiglione soggiorno, X Triennale, Milano, 1954

Nel ‘45 Parisi realizza al Broletto di Como la “I Mostra dell’arredamento”, nel ‘46 inizia a proget­tare per preveggenti mobilifici brianzoli, nel ‘47 arreda la Libreria dello Stato di Milano, in Gal­leria, e l’anno successivo partecipa con Bottoni, Sottsass, Minoletti, B.P.R., Buffa e Ulrich al “Salon des artistes décorateurs” a Parigi, e apre con la moglie Luisa l’atelier La Ruota a Como. Sono alcuni momenti di un’attività intensiva fat­ta di allestimenti, architettura d’interni e proto­design, organizzazione culturale anche; una sorta di vitalismo febbrile che è qualcosa più della semplice riconfigurazione di un’attitudine profes­sionale, che si scommette nell’invenzione quoti­diana, e insieme nel rigore di penetrare sempre criticamente le ragioni prime di un’idea, di una necessità.

L’unicità e l’omogeneità dello spazio intese come inscindibile organicità funzionale e decora­tiva, la logica produttiva non prevaricante il gu­sto di una sofisticata qualità artigianale della fat­tura e del senso sculturale della forma, la cifra individuale poggiante sul dato inventivo più che su quello stilistico, a costo di calcolate enfatizza­zioni… gli scaffali per la Libreria dello Stato, così come la memorabile poltrona a uovo e le sedie ideate per Cassina nel ‘51, gli arredi per la Casa unifamiliare presentati alla IX Triennale, il tavolo-mensola e gli altri mobili in legno per Singer, New York (che produceva anche Ponti, De Carli, Bega e Mollino), dello stesso anno, questo dicono, di un’energia fantastica e di una generosa curiosità sperimentale renitente all’idea di prodotto, all’idea di stile per riduzione, all’idea stessa di casa come luogo gerarchico di funzioni organizzate.

Contemporaneamente, infatti, nascono i primi edifici, la casa a Maslianico del ‘49, le case a Monteolimpino dei primi anni Cinquanta, il ce­lebre Padiglione soggiorno al Parco di Milano del ‘54, per la X Triennale. “In realtà il razionalismo ‘freddo’ non è mai sta­to dominante, nel clima internazionale in cui l’Italia viveva allora, di cui si facevano portavo­ce riviste come “Domus”, “Interiors”, “Aujourd’hui”. L’alternativa è stata subito tra il fervore inventi­vo e il degrado edilizio, quantitativo, seriale; tra poesia e speculazione. La mia scelta è stata di convogliare nel progetto il senso di esperienze diverse, dalla scena all’allestimento, dall’arte alla decorazione, cercando una progettazione che fosse qualità concreta dello spazio, crescita di una forma articolata e vivente. Alcuni artisti, per fortuna, hanno capito fin dall’inizio che la questione non era di stabilire un rapporto gerar­chicamente corretto tra il loro lavoro e il mio, ma di operare insieme in una sorta di terra di nessuno disciplinare, nel modo più autentico possibile: Somaini, Radice, Melotti, Fontana, qualche altro…”

Parisi, Casa Parisi, Como, 1957-1958, terrazzo con intervento di Lucio Fontana

Parisi, Casa Parisi, Como, 1957-1958, terrazzo con intervento di Lucio Fontana

Crescita della forma significa, anche, concepire l’edificio come un aprirsi dall’interno verso l’esterno, evitando la retorica nuova dei materia­li e delle tecnologie assunti in sé, così come la vecchia delle facciate e dei balconcini – che già faceva fremere d’indignazione Gadda –, dell’in­combere del paesaggio e nel paesaggio: i riferi­menti problematici sono Wright, Corbusier, Aal­to, Johnson, ripensati non come maestri di stile ma come laboratori d’idee. Il Padiglione soggiorno è una struttura a chioc­ciola in cui la copertura di cemento armato si svolge lieve come un origami, come uno degli antichi modellini in carta di Fontana o di Bal­dessari, intorno al perno della scultura di Somai­ni; gli altri interventi sono di Munari, Reggiani e Milani. La Casa per vacanze del ‘57, realizzata alla mo­stra “Colori e forme nella casa di oggi” a Villa Olmo, Como, è un unico spazio a raggiera, esagonale, moltiplicabile modularmente, concentra­to sui gangli visivi delle sculture di Somaini, che vivono in uno spazio qualificato da elementi funzionali/decorativi eseguiti in materie plastiche. Come nella facciata della casa di Monteolimpi­no, staccata e raddoppiata rispetto al corpo d’edificio per evidenziarne i connotati ideologici, di sclerosi concettuale, così nella copertura del Padiglione soggiorno e nell’impostazione della Casa per vacanze è palese il lucido atteggiamen­to concettuale di Parisi, di smontaggio sistemati­co dell’identificazione tra funzione e soluzione linguistica e tecnica usuale, sino al punto limite di dissoluzione della retorica organizzativa dell’ambiente: un ambiente che non può più concepirsi come riproduzione statica di modelli di vita accolti come inderogabili (si pensi, ad esempio, al disastro culturale, pur nato da civi­lissimi intenti sociali, della proliferazione delle case popolari e di ‘civile abitazione’), né coagu­larsi in nuovi stilemi, debitori della mitologia del nuovo, dell’esperimento a ogni costo: dove, insomma, la vita possa inventarsi criticamente, li­beramente e individualmente, anziché adeguarsi di necessità a un piccolo usurato status precon­fetto.

È utopia? Certo, per fortuna. Ma che non perde di vista, come troppo spesso avviene, le ragioni concrete della propria realizzabilità, deliberata­mente contrastanti con l’interesse dell’edilizia massificata e invece perfettamente conciliabili con una ipotesi di vita – e qui risiede il punto effettivo di rottura – fatta di pensiero, e scelte, e atteggiamenti consapevoli, e non di perversa e indistinta cellularità sociale. Della propria casa, realizzata nel ‘58, Parisi dice infatti: “E come una villa su un tetto, in cui lo spazio è differenziato solo nelle quote. Certe volte il gatto sente il bisogno di starsene sotto il letto, certe altre in mezzo alla stanza. Le differenze di spazio che ho creato sono possibilità emotive, esistenziali prima di tutto. Così come l’apertura verso il paesaggio, che diventa esso stesso rapporto dell’esistere dentro la casa; e il terrazzo di Fontana, che è una sorta di raddop­piamento speculare del cielo e della vetrata, e i lavori degli altri artisti, i colori stessi delle pare­ti”.

È certo un atteggiamento di coscienza primaria dell’abitare, sorretto da un ethos lucido, distilla­to. Talmente determinato da affrontare, anche, il luogo tipico della retorica e dell’esteriorità me­diocre, il monumento, riportandolo a una misu­ra interiore, autenticamente morale, di sentire più che di far apparire. Nel progetto del Monumento per i caduti della resistenza di Cuneo, ‘62, purtroppo mai eseguito per le note polemiche, con Fontana e Somaini concepisce uno spazio sotterraneo, scavato in una collina, sovrastato da un’inquietante scultu­ra di Somaini serrata tra due ganasce; sul pavi­mento Fontana in un primo tempo prevede, ge­nialmente, un semplice fascio sparso di rose in ceramica, e successivamente una grande fenditu­ra scavata con un aratro nel cemento. Anche in questo caso nessun formalismo, nessun impaccio letterario, e invece l’attenzione a iden­tificare la dimensione dell’intervento con possi­bilità d’innesco solo psicologico, di flusso di stati emotivi. È un punto cruciale, di lucidità lancinante. Sem­pre più Parisi prende a lavorare su progetti in­fattibili, che forzano l’estremo limite del codice. Quando opera, come nella casa a Erba del ‘66 o quella a Fino Mornasco del ‘67, spinge all’en­fasi concettuale i nodi minimali del costrutto ar­chitettonico, la colonna, il tetto. Giunge così, nel ‘68, il definitivo salto qualitati­vo nell’idea stessa del progetto. I Contenitori umani, realizzati con Somaini e poi progettati con De Vecchi, Boriani, Colombo, “sono come un repertorio di funzioni primarie, meditare, dormire…, ridotte ciascuna a una struttura che libera completamente da ogni vincolo di servitù l’ambiente. Certo, rappresentano una sconfessione irrevocabile della pratica sempre più perversa dello spazio che si va attuando: ma sono più utopici i Contenitori, con la loro carica concet­tuale, o l’illusione ora cinica ora pia dei piani regolatori, che sono il monumento alla presunzio­ne impotente dell’architettura?”. I Contenitori sono un’utopia, ancora, che mira a ricostituirsi in discorso, in ragionamento, in possibilità; che dissolve un codice ma cercando un altro luogo. A ben vedere, sono assolutamente conseguenti a tutto l’arco della ricerca e della riflessione di Pa­risi: solo la strategia d’azione ha mutato di pia­no, ha preferito eludere quel campo disciplinare d’intervento che ormai è asfittico, muto, acceca­to dalla incosapevolezza di un professionismo astinente, ridotto a puro ruolo tecnico-burocrati­co: per di più, come insegnano le statistiche, incidente solo per poco più del due per cento su quanto l’edilizia va costruendo.

Meglio, allora, azioni esemplari come questa, e le altre che verranno. “I Contenitori sono in fondo la chiusura di una vicenda. Inoltre, la loro configurazione eccentri­ca li tiene fuori dal dibattito architettonico e da quello artistico, mi lascia di fatto senza interlo­cutori. Fino al ‘72, penso addirittura di smettere di lavorare. È la visita a “Documenta 5” che fa scattare in me l’idea che l’arte della crisi e l’ar­chitettura della crisi possono travasare vicende­volmente molti più spunti, e soprattutto concor­rere a erigere la critica stessa a quoziente inven­tivo, a carica creativa. L’arte sta ipotizzando una nuova soggettività che chiede il proprio ambien­te: è su questa ipotesi che progetto, nel ‘72-73 la Casa esistenziale”. L’idea è ancora quella dell’ambiente come cre­scita di una forma naturale, basata su un modu­lo triangolare, che si svolge secondo i momenti psicologici del vivere, con uno spazio di ‘soprav­vivenza’ in cui si concentrano le funzioni prati­che. Gli artisti si assumono il compito di identificare i gangli energetici e di senso del luogo con i pro­pri interventi: sono César, Close, Hanson, Colli­na, Bellandi, Dudley. Ancora, è necessario insistere, il paradosso con­siste nel fatto che si tratta di un habitat a totale qualità artistica, ma perfettamente realizzabile, che non si nasconde dietro l’alibi dello speri­mentalismo puro e dell’architettura disegnata che ribalta il punto di rottura e di crisi al piano delle scelte di vita.

È così anche nella più complessa Operazione Arcevia, nelle Marche, che prende naturalmente le mosse dal materiale della Casa esistenziale: il villaggio per una piccola comunità – 600 persone su 180.000 mq – giunge a essere dotato di un terreno, e di ogni licenza di costruzione necessa­ria, e solo ragioni politiche ed economiche ne impediscono la costruzione. In questo caso, siamo nel ‘73, Parisi articola ul­teriormente la propria strategia progettuale. Co­stituisce con Pierre Restany, Enrico Crispolti e Antonio Miotto un gruppo di progettazione, il cui compito è di far da regia e coordinamento ai contributi degli artisti, i quali operano sulla gri­glia di spazio continuo dell’architettura di base. Michelangelo Antonioni progetta le coperture tra posteggi e abitazioni, Arman un’accumula­zione-memoria di strumenti agricoli, Balderi dei garages-uovo, Burri il palcoscenico-scultura (poi realizzato alla Biennale di Venezia dell’‘84), Cé­sar un pollice-colonna per la piscina, Aldo Cle­menti la musica per l’orologio della torre-serba­toio di Soto, Tonino Guerra poesie da affiggere temporaneamente (idea oggi ripresa e attuata da altri a Milano), Sanejouand un percorso… gli al­tri interventi sono di Astengo, Carrino, Cavalie­re, Ceroli, Collina, Corneille, Del Pezzo, Di Bello, Dudley, Frascà, Maglione, Magnoni, Mannucci, Nikos, Pennisi, Ricci, Romanos, So­maini, Staccioli, Takahashi, Tilson, Trubbiani. Anche il lavoro di Arcevia, però, nel ‘76 si esau­risce. L’architettura è sempre lì, non dimette l’idea di progettare scatole e riempirle di cose e persone, è imprigionata nelle pastoie ideologiche di coloro che Zevi chiama gli “antiquari-urbani­sti”, tende a divenire a ogni livello pensiero “in stile”.

Parisi concentra nuovamente la propria azione. Le tavole, i progetti, gli interventi di Libertà è uscire dalla scatola, Utopia realizzabile, Apoca­lisse gentile, Crolli edificanti, sono immagini ge­lide, che giocano su accostamenti di modelli de­scrittivi nel cui aspetto paradossale risiede il cortocircuito critico. “Se l’uomo non sarà capace di uscire dalla scato­la, l’architettura sarà solo di colombari”. Ecco allora Parisi concepire paesaggi urbani a struttu­ra antropomorfa, oppure erigere automobili, te­levisori, elettrodomestici, confezioni commercia­li, cessi, a segnali ipertrofici del disfacimento dell’idea dell’abitare, a agenti dell’eutanasia dell’ambiente.

“Zevi mi dice: ‘però ricordati che sei un archi­tetto, che devi costruire’. È vero, ma queste cose sono ancora lo smontaggio ideologico del professionalismo, del tecnicismo acritico, delle false idee chiare e distinte, e anche della falsa coscienza di chi si nasconde in architetture so­gnate da un bricoleur. Certo, meglio il post-mo­dern dell’edilizia, ma il punto non è questo. Sto ancora cercando, con accanimento, il dopo dell’architettura, quando l’ambiente potrà dav­vero avere il senso di chi ci vive. Per questo l’edificio polivalente di Dalmine, di cui si sta ini­ziando la costruzione, è importantissimo nel mio percorso. Sto edificando sulle macerie dell’architettura, in questo momento. L’importante è non crogiolarsi nell’impotenza, e praticare coraggio­samente il ragionamento. Anche se la gente che ragiona, oggi, è troppo poca”.