Notula su Gallizio, in Pinot Gallizio. Mostra antologica, catalogo, Galleria Martano, Torino, 14 novembre 1983

C’è una mitologia marginale, che alita intorno alla fi­gura di Pinot Gallizio. Pittura industriale, caverna dell’antimateria, diario emozionale… dietro pochi lavori, l’ansia di porre e dipanare contraddizioni. I termini sono punto zero, lavoro, non valore, macchinismo, sperimentare, era atomica, uomo di domani, società, libertà.

Gallizio, Gibigianna II, 1960

Gallizio, Gibigianna II, 1960

Gallizio costruisce utopie, è tenace nel crederle, nel pensare un mondo intorno a sé. Si vuole organico dell’avanguardia, intellettuale in servizio. Ha radici robuste e consapevoli, tra Langhe ed Euro­pa. Ha la curiosità saporosa, la disponibilità intellet­tuale, la polypragmosyne dell’umanista di provincia. L’avventura del nuovo lo attira, è una gibigianna fa­scinosa. Non credo ingenuamente. Arruolarsi nell’esercito dell’avanguardia proprio mentre la rotta si avvicina è solo in piccola parte un soprassalto roman­tico. E’ soprattutto tentare di evitare, o almeno ritar­dare la disfatta. Più, guardarla in viso, quando verrà. Fondare una rivista come “Eristica” e far congressi mondiali ad Alba – Pollock, nei medesimi tempi, si sta schiantando in auto – dichiara che Gallizio non vuol smettere di credere all’utilità, alla rifondazione, a un ethos. Poco importa che la falsariga sia quella del fantasma goliardico del futurismo (la foto dell’équipe del Laboratorio Sperimentale somiglia troppo alle foto nu­merose di Marinetti e compagni), e più della confré­rie surrealista, con politiche, ortodossie, scomuni­che. Il prezzo, una devastante dispersione d’amore e di mente, va comunque pagato. Meglio bruciarle così, queste energie, alla grande.

“Meglio giocare una volta un gioco disperato che vi­vere inutilmente la tragica, inutile vita”: come Gad­da. Il basso continuo dell’avanguardia, infine, è forse veramente questo. Ecco, allora, proprio il gran gioco, sempre incerto se prendersi sul serio. E questa pittura che si titilla nel dubbio se esser quadro o no, o fino a che punto. Cer­to, Gallizio fa proliferare un rotolo di settanta metri. Ma anche, spatole e tubetti alla mano misura rettan­goli, li mette addirittura in storie, in cicli. E firma, e data, persino disegni appena abbozzati. Magari, snobismo supremo, li espone in una balera, con indiffe­renza. Ma sotto, più passa il tempo, più aggalla la ten­tazione dell’umanista “totale” alla pittura.

Gallizio, Pittura industriale, 1958

Gallizio, Pittura industriale, 1958

Sulle colline non gli appaiono diavoli. Le sue Ama­lassunte sono Gibigianna, Ipotenusa; i suoi notturni, cercate vertigini cerebrali. Gallizio non si fa soverchie preoccupazioni professionalistiche, di tecnica, di stile. Ha però attenzioni precise, e un procedimento anomalo ma pur sempre determinato. Usa naturalmente degli stilemi altrui, senza farne vessillo. Accetta la grevità vischiosa delle materie e dei segni, assettando comunque costrutti.

Sempre, racconta i brividi di un intelletto umorale e visionario, storie esplose in cristalli. Tentando, talora, come in Presagio e Robigo­go, e i neri della fine, il filo di una cupa grazia, al ter­mine della speranza.