Federico Faruffini. Io guardo ancora il cielo, Villa Borromeo d’Adda, Arcore, sino al 30 maggio 2021

Cresciuto, per il tramite di Giacomo Trecourt, nella nidiata migliore degli eredi del Piccio, Faruffini vive la stagione ansiosa d’una pittura che vorrebbe svicolare dalla tradizione accademica ben più di quanto in realtà sia in grado di fare, ancorata com’è a codici incombenti come l’enfasi della pittura storica, e tende a rifugiarsi in un bozzettismo fresco, ambizioso ma incapace di leggere ciò che l’arte parigina va dettando: la carenza d’un sistema artistico decente e i suoi effetti perniciosi sul dibattito artistico italiano sono, qui, drammaticamente evidenti.

Federico Faruffini, Toeletta antica, 1865

Federico Faruffini, Toeletta antica, 1865

Tenta chiavi d’aneddoto, di folklore, di neo-romano, e anche quando infine nel 1865 (!), a Parigi, avrebbe sotto gli occhi le ipotesi di un nuovo davvero nuovo, non riesce a liberarsi dalla vernice meridionale di peintre italien che filtra ogni sguardo sul suo lavoro.

Ha talento, certo, una decorosa informazione sulle evoluzioni del gusto, ma continua a non vedere quali vie ulteriori si possano prendere, oppure non ha abbastanza coraggio da percorrerle.

Federico Faruffini, Veduta di Roma, 1866-1867

Federico Faruffini, Veduta di Roma, 1866-1867

Alla fine abbandona e tenta la via della fotografia, ma anche di fronte a queste praterie dello sguardo non riesce a sottrarsi alla tirannia del soggetto, all’odore di provincia che gli si è impastato addosso. Poi viene l’altro, definitivo, abbandono: alla fine del 1869 si suicida.