Flaminio Gualdoni, Adriano Altamira, Un saggio e due interviste, Corraini, Mantova 2021

[…] Altamira adotta definitivamente uno schema operativo che appartiene alla storia dell’arte: non solo esso chiama latamente alla memoria una delle imprese più cospicue del secolo, il Bilderatlas Mnemosyne concepito da Aby Warburg, diffuso da narrazioni leggendarie ma peraltro edito per la prima volta solo nel 1994 (e il suo figlio minore e diverso, l’Atlas di Gerhard Richter) , ma riporta alla pratica ordinaria dell’iconologo, per il quale la ricerca e la collazione di dati a partire da un motivo di ricerca sono funzionali a stabilire un proficuo campo di indagine. In questo caso, tuttavia, stabilite le premesse almeno apparenti di un certo rigore metodologico, l’autore ne stravolge largamente le premesse e il processo. Certo, postwarburghiana è la consapevolezza che le riproduzioni di opere riassumono, nella pratica di decontestualizzazione e ricontestualizzazione, una sorta di aura diversa e straniata, innescano processi di significato e di senso (oppure di conferma della deriva definitiva d’un senso) ulteriori, e in ogni caso processi di pensiero non scontati.

Altamira Gualdoni, Un saggio e due interviste, Corraini 2021

Altamira Gualdoni, Un saggio e due interviste, Corraini 2021

Il suo non è studium humanitatis, e soprattutto fa a meno di costanti metodologiche in grado di eterodirigere il lavoro: esso non è sistematico, non è cronologico, non è prodotto di una ratio preventiva, ma procede con l’aria di un’apparente flânerie intellettuale, accogliendo gli accidenti dell’alea, della scoperta casuale, del rimando filologicamente inappropriato ma proprio perciò visivamente fruttuoso. Egli non opera, tra l’altro, su un livello costante. Se nel caso di La vie des formes i rapporti tra immagini si dipanano a partire dall’esecuzione tecnica e dalla persistenza del soggetto, uno degli standard tematici più solidi della storia della fotografia, su un arco temporale relativamente ristretto e in un ambito comunque caratterizzato, pur a livelli e in contesti diversi, da intenti creativi, la serie sul Déjeuner sur l’herbe di Édouard Manet, che assumerà il titolo definitivo Degradazione e consumo delle iconografie, anch’essa presentata a Liegi, muove da un’immagine d’arte identificata e storicizzata al punto da veder trascolorare ogni lettura che non sia puro riconoscimento e feticizzazione pop del soggetto (e proprio a proposito di Manet Émile Zola scrive nel 1867 che il pittore e i suoi sodali non hanno “la preoccupazione del soggetto che ossessiona prima di tutto il pubblico; il soggetto è per loro un pretesto per dipingere, mentre per il pubblico esiste solo il soggetto”). La serie esordisce con il raffaellesco Giudizio di Paride di Marcantonio Raimondi, che è la fonte antica dell’opera di Manet, costeggia il suo d’après ortodosso di Jacques Villon e l’appropriazione che ne fa Pablo Picasso, inoltrandosi sino alla ripresa pop di Alain Jacquet, alle versioni naïves e alle ricostituzioni fotografiche “en tableau vivant” […]