Forgioli
Forgioli, catalogo, Museo Butti, Viggiù, 16 giugno – 19 luglio 1984
Scontato, nel caso di Forgioli, richiamare in campo il naturalismo. Le ragioni congenite ci sono, bardate del solito armamentario di lucori lombardi, sensi terragni, cromosomi foppeschi, bisogni o nostalgie presunte di riconoscibilità, di figura.
Per un certo qual grado sì, la sua pittura scaturisce da quell’humus, così come si rigenerò nelle vicende dell’informale nostrano. La titolatura ricorrente nel suo catalogo parla di paesaggio, in modo mediato o immediato. Non c’è dubbio. Ma per far tornare i conti questo non basta; non basta forse neppure per iniziare a farli, quelli più sostanziosi. Nella pittura di quanti altri, campioni riconosciuti di non oggettività, la filigrana è questa stessa, del paesaggio, senza che ciò crei presupposti vincolanti di lettura?
Il fatto è che ciò che aggalla sulla pelle trasparente, ma ben tesa e concreta, dei dipinti di Forgioli – e già questo mi pare un argomento non affetto da ovvietà: non c’è deposito di sostanze figurali, qui, non c’è decantazione di avvertimenti quantitativi, ma come un affiorare, un sentore di apparizione – non è mai una perifrasi cosale, una deduzione per via di parentele fisiche, sensoriali. La qualità, il peso specifico, il punto di esistenza della sua immagine hanno altra storia, altri viatici, altre vocazioni. Non importa nulla, in sé, che sulla tela si dia alla lettura una scarpa, o una montagna, o una bistecca, o un’isola: i connotati del lacerto sono generici, pretestuosi, non portano acqua al mulino del senso. (Anche il buon Emile Bernard si chiedeva, senza sapersi rispondere, cosa mai facesse tutti i giorni Cézanne sur le motif, visto che poi la pittura andava per i fatti suoi).
Il problema, il nodo cruciale, è in una questione di sguardo. Che si dà un abbrivio – e quanto volutamente poco significativo – in grado di ancorarlo a un piano diretto, elementare di schiettezza, di assoluta assenza di retorica. In modo da evitare tentazioni capziose, l’esistenziale, il sentimentale, il lirico, il patetico… In modo da mantenersi duro, freddo, di osso. E, insieme, da provocare una concentrazione assoluta, una sorta di sovradeterminazione allucinata. Una condizione di malessere, fertile. È una maniera di innescare un alto gradiente di mentalizzazione, scontando però a priori gli alibi intellettuali, la corona degli aggettivi che fa da contorno all’argomento centrale, all’unica vera totale preoccupazione di Forgioli, la pittura.
Postosi in scacco rispetto alla sensazione, con la stessa intransigenza, tenera e feroce, acuta e senza orpelli, Forgioli il suo vis à vis più complesso e sostanzioso lo gioca nei confronti del corpo storico della pittura. Che non è il simulacro ortopedico, il fantasma che inquieta molte delle altrui ossessioni, e invece il luogo delle qualità plurime, tutte vive, tutte vivibili a patto di far scelte d’amore, di carezzarne il segreto senza volerlo snidare – e men che meno arraffare.
La complessione di Forgioli non permette compilazioni genealogiche. Géricault o Cézanne, Sutherland o Morlotti, Fautrier o Pollock, nomi, lontani e vicini, se ne son fatti molti: ma di pertinenza sempre obbligatoriamente presunta – e non a caso cosi disparati – che spiega ogni volta tutto e niente. Perché egli lavora sull’intensità, più che sui modi; sul far la pittura dal di dentro, con la lenta fatica della crescita di un organismo che deve solo a sé le proprie ragioni, sanamente egoista, sovranamente indifferente verso il proprio nutrimento, pur cosi consapevolmente assunto e metabolizzato. Perché egli, soprattutto, è sempre totalmente calato nel fare, senza appigli.
La “ferocia d’analisi” che Guttuso gli ha riconosciuto, la severità nell’interporre un diaframma ostico fra il proprio istinto di trepido amante della pittura e l’acribia dei gesti elaboranti del dipingere, cui non sono concessi languori né accensioni di temperatura – salvo poi far trapelare aromi sottili, come certe ricche fluenze lineari, o il rapprendersi di rosa e azzurri tutt’altro che casti – non sono le regole poste del suo giocare a scacchi con l’idea, con i codici della pittura. Per lui non può darsi pittura di problemi, ma solo l’unico problema di pittura. La pittura per lui non può che farsi, che essere fatta, prassi non rituale in cui ogni passaggio è luogo di scelta, di avvertimento, di consapevolezza, ma di dubbio, mai di dichiarazione o definizione o dimostrazione. Se un’ideologia – l’unica possibile per lui – è da riconoscere a Forgioli, è quella del pudore, o forse meglio di una ben maturata reticenza, che scava con acuminata penetrazione per poi mascherare la complessità, la straordinaria ricchezza problematica dell’immagine in pelle, lì dove par di cogliere invece una semplice, rassicurante evidenza.
Cosa c’è di contemplativo, di gratificante nei quadri di Forgioli? Me lo sono chiesto spesso, di fronte alla sua Scarpa del 1975, gialla e verde, smisurata, e davanti ai Paesaggi e alle Isole di dieci anni fa, come alle Montagne e alle Palme di oggi. Quel loro emergere dalla tela grezza per via di trasparenza e liquidità, di toni aciduli di violetto e verde, soprattutto di distanze sempre forzate e stranianti, mi ha dato ogni volta una risposta di allarme: c’è quel tanto che basta a disorientare, a disarmare l’apparato ordinario di lettura, ad attrarre per subito far avvertire la resistenza del dipinto a dipanarsi lungo il filo della pura sensibilità e della godibilità. Il fremito sensuale è aggrumato, distanziato. Lo stesso indubitabile piacere della pittura è, in Forgioli, come tenuto a bada. Non per penalizzarlo, ma per filtrarlo al massimo grado di trasparenza nel bagno del rigore, di una misura del fare che né è disciplina, né è confezione ed eleganza, e piuttosto assunzione inequivocabile di necessità non spuria.
Forgioli non argomenta in rima, non ricorre alle fascinazioni smaglianti e al teatro d’idee. Nemmeno ha utopie o nostalgie da raccontare. Silenzioso, col suo bagaglio di dubbi sacrosanti ma non d’incertezze, cesella la sua prosa salda, nitida, che cresce su se stessa con felice sicurezza (senza sudore: come dice Gauguin, “quando uno suda, puzza; puzza di banalità e di impotenza”). La sua qualità – che è qualità vera, non atticciata – è cosi. Laica, forte, essenziale, appena addolcita da un velo di pudica aristocrazia.