Rajlich: “Noir Lumière”
Rajlich: “Noir Lumière”, in Tomas Rajlich: Black Paintings 1976-79, a cura di M. Robecchi, catalogo ABC Arte, Genova, ottobre 2020
Malevič, Reinhardt, forse il Rauschenberg dei Black paintings, 1951, il già eccentrico Rothko dei Black-Form paintings, 1964, e dintorni. Ci raccontiamo la storia della blackness come un binario ferroviario, ed è inevitabile che tenda a prevalere una logica, per citare una vecchia espressione di Roberto Longhi, da “orari ferroviari della pittura”. Ma la questione del nero nella pittura di Tomas Rajlich costringe a cercare percorsi diversi dalla via maestra, pone interrogativamente una questione di qualità su una scacchiera concettuale e operativa affatto diversa.
Naturalmente il nero suprematista di Malevič, 1915, è un punto di conflagrazione, quello dell’intuizione – volontaristica la sua parte, desiderio del pensiero infine – d’una “quinta dimensione della pittura”, energia cosmica e intima dynamis. Ma la pittura degli anni Sessanta, cruciali per la formazione di Rajlich, si avvede anche d’un quadro sino ad allora mai visto, che nulla aveva a che fare, o forse sì, in radice, con l’ambizione concettuale di Malevič: la Porte-fenêtre à Collioure, 1914, di Matisse. È anch’esso una negazione, un’esplicita cancellazione – il nero vi è steso in sostituzione del balcone e dell’esterno visibile, sottraendo insieme a ciò che sarebbe visibile dalla porta-finestra il codice albertiano stesso del quadro come finestra – ma è soprattutto lo stabilimento di un indefinito, di un’attesa, di uno spazio che si dà tout court in quanto spazio, non aggettivabile. Matisse si arresta, su questa via, come fosse egli stesso sorpreso dall’oltranza dell’intuizione. Ma proprio Reinhardt ne è folgorato, nel 1966 in cui il dipinto viene esposto la prima volta a Los Angeles, e ne rimette in circolo l’esempio decisivo. Il nero di Matisse è “noir couleur”, ha a che fare comunque con la luce e con lo spazio, non è negazione della forma attraverso la negazione del vedere ma è condizione che dalla forma prescinde, attraverso la sostanza specifica di questo vedere. “Pissarro me disait un jour: “Manet est plus fort que nous tous, il a fait de la lumière avec du noir””, testimonia Matisse nel 1947.
Certo, nel clima della Monochrome Malerei entro i cui corsi matura Rajlich il nero è assunto in primo grado per lo più come istanza simmetrica al bianco, l’acromo di evidente derivazione da Manzoni, ma senza connotazioni di teoricismo esasperato, e naturalmente men che meno a qualche titolo allusive. La binarietà bianco/nero è, in questa prima fase, puramente modale, è un approccio di essenzialità pragmatica perfettamente congruente alla griglia ortogonale posta in premessa e al suo rapporto con il fondo, a livelli d’indifferenza pittorica diversificati, in cui non possa aver luogo alcuna captazione sensibilistica, e men che meno naturalistica.
Una volta stabilito che la pittura è la pittura, una superficie sdefinita in circostanza del dipingere, irrelata e fondamentalmente indifferente – ma andrà interrogato, dei quadri di Rajlich, anche il rapporto dello spazio del far vedere con la questione dei bordi, dei quali egli fa sempre in modo di enunciare la condizione convenzionale di perimetro dell’esperienza – ad altro che non sia l’attuarsi del colore, sia che le unità minime di significazione si declinino per sottrazione o per indeterminacy oppure, nell’iterarsi dei gesti, per saturazione, non mette mai in discussione che siamo in presenza, sempre, di quello che Matisse indica come il “noir lumière”, che con Fontana, il quale nell’Ambiente spaziale a luce nera, 1949, usa sì la luce di Wood, ma nei quadri si attesta senza remore nel nero-colore, e con Reinhardt si dichiara come consapevolezza nitida che la pittura non può essere che “a pure, abstract, non-objective, timeless, spaceless, changeless, relationless, disinterested painting – an object that is self-conscious (no unconsciousness), ideal, transcendent, aware of no thing but art”. Siamo in presenza, dunque, di un precisato oggetto pittorico, e comunque sia nel caso di Fontana sia in quello di Reinhardt di situazioni ben lontane dal teorico “nero assoluto”, viste le implicazioni, con il violetto e il blu e la terra di Cassel, delle minime variazioni luminose in cui essi operano.
Il dipinti neri di Rajlich comportano, e per certi versi impongono, una condizione di lettura lenta, concentrata, il cui apparire desensibilizzato chiede una tensione estrema sia sul piano ottico sia su quello psicologico, una durata fastosamente dilatata, anomala, e anche, per dire con Fontana, una fondamentale “libertà emotiva dello spettatore” che si verifica nel suo mettersi in consonanza con un’idea di luce che assume, anno dopo anno, sempre più espliciti tratti d’umore metafisico.
Quando, in tempi più vicini a noi, Rajlich estende il campo delle sue tautocromie – riprendo il neologismo coniato nel 1972 da Claudio Olivieri per una serie di dipinti (“Intitolo molto spesso i miei quadri tautocromie o autocromie proprio per sottolineare l’autonomia del processo che li genera, lo sforzo di non farne la rappresentazione di qualcosa (anche qualcosa di astratto)” – che sono per lui anche una sorta di dichiarazione irrevocabile di renitenza estetica, è ben chiaro che dell’utopia di un’assolutezza del nero nulla gli importa, così com’è per la macchina simbolica dell’oro, dell’argento, del celeste, del viola. Conta, sempre, scrutinata, evocata, cercata, carezzata, intuita, la luce.
Mi pace pensare che, com’è per l’Edmond Jabès del Libro della sovversione non sospetta, anche in Rajlich “il minimo chiarore è sospetto d’universo”.