Kiefer e la «sindrome Pompidou» di Macron, “Il Giornale dell’Arte”, edizione online, 23 novembre 2020

Non per fare paragoni, ma in verità proprio per farli: tanto un annetto fa si storceva la bocca di fronte al mazzo di fiori ridondante e retoricamente vacuo di Jeff Koons piazzato dalle parti del Petit Palais, altrettanto oggi tocca dire, di fronte all’installazione di Anselm Kiefer e Pascal Dusapin al Pantheon parigino, “chapeau” senza se e senza ma.

Anselm Kiefer, Qu’est-ce que nous sommes. . . , 2020

Anselm Kiefer, Qu’est-ce que nous sommes. . . , 2020

Dunque, in breve la faccenda è questa. Si decide di traslare le ceneri di Maurice Genevoix nel mausoleo dei grandi di Francia, e il presidente Macron, notoriamente affetto dalla “sindrome Pompidou”, l’ansia di lasciare a qualche titolo un segno perenne nelle arti francesi, coglie al volo l’occasione. Genevoix è, in letteratura, una specie di Stuparich francese, il cui nome è legato indissolubilmente alla Grande Guerra, e l’ultimo monumento permanente collocato a Sainte-Geneviève era stato nel 1924 proprio “Aux héros inconnus, aux martyrs ignorés morts pour la France” di Henri Bouchard, dunque una commemorazione dei militi ignoti di quella guerra. Ora, a quasi un secolo di distanza, la circostanza offriva il destro a un’opera che, commemorando il grande scrittore, consentisse una nuova, più attuale riflessione sulla guerra. L’unica questione era quella che si presenta puntualmente in Francia in queste occasioni: la mancanza di un artista francese sufficientemente rappresentativo da poter essere omologato come, a qualche titolo, “ufficiale”. Ma i francesi, unici al mondo per la souplesse con cui si annettono il genio a prescindere dal passaporto, da Leonardo a Picasso, per dire, questa volta hanno concepito una soluzione sgorgata da una mente fertile e arguta: hanno commissionato l’intervento plastico ad Anselm Kiefer, tedesco che da quasi trent’anni ha casa in Francia, accompagnato da un’installazione sonora di Pascal Dusapin. Di Kiefer si sa: è probabilmente l’artista vivente più importante al mondo, e la sua démarche è così profondamente antiretorica da saper evitare, anche in un’occasione come questa, ogni sospetto di trombonismo. E poi è tedesco, il che in una circostanza come questa suona come una scelta anche politicamente sagace, e ha intitolato il suo lavoro “In nomine lucis”, come una composizione straordinaria per organo di Giacinto Scelsi, uno che se chiedi ai sapienti nostrani ti guardano con occhio vitreo perché da noi se lo sono bellamente scordato. Dusapin è, oltre che un grande musicista, nato a Nancy da una famiglia lorenese, dunque il dramma dei confini e della nazionalità abita il suo stesso codice genetico. Sono dunque, entrambi, perfetti per dire la guerra, non solo quella guerra, e per farla finita con sciovinismi, sovranismi e rottami storici vari.

Kiefer ha concepito delle grandi teche allestite con brusca, essenziale, desolata scenografia: sono vaste, com’è il suo solito, trovano il modo di intervenire in un luogo già altamente connotato dichiarando la loro estraneità, ma senza arroganze e invadenze visive. C’è l’enfasi di Kiefer, qualche volta eccessiva ma qui necessaria, ritratta da ogni rapporto con le glorificazioni circostanti, che si impone come un accidente che induce a riflessioni che nulla a che fare hanno con l’eroismo, con la grandezza, con l’onore.

Certo, si troverà sempre qualcuno a dolersi che la grande pittura murale di Puvis de Chavannes dedicata a Sainte Geneviève si vede un po’ meno: ma non è che l’unico punto di vista debba essere necessariamente quello da lontano, perché la gente per fortuna si muove, mica come le fotografie, e oltretutto è un’opera con caratteri narrativi che guadagnano con una lettura in sequenza, meno distanziata.

Il lavoro di Dusapin è un’installazione sonora qualitativamente eccellente e di grande suggestione, intelligente non intellettualistica, sfrutta l’effetto di implicita sacralità del luogo ma lo restituisce in piani sonori avvolgenti, non statici.

Ora, finalmente, Macron può menare un vanto, quello di essere intervenuto su un simbolo identitario francese all’apparenza intoccabile e aver aggiunto un tassello del nostro secolo, il “suo” tassello, senza minare il resto. Magari lui si racconta di essere come Luigi XIV o come Lorenzo il Magnifico, e invece ha solo fatto il primo passo. Questa volta, c’è da esserne certi, a funzionare molto bene – e non è sempre stato così – sono quelli che lo hanno consigliato.