Il criptico d’arte. Il Met non si meritava Mutu
Il Met non si meritava Mutu, in “Il Giornale dell’Arte”, 410, Torino, settembre 2020
Il senso dell’iniziativa, peraltro non particolarmente innovativa, è di aver piazzato delle sculture di oggi in nicchie concepite più di un secolo fa. È da quando ho iniziato a studiare arte che mi chiedo perché alle statue facevano il didietro ma poi le infilavano in una nicchia: tant’è che per l’Afrodite cnidia di Prassitele gli parve uno spreco e, racconta lo Pseudo-Luciano, fecero in modo che si potesse contemplare agevolmente anche “la sua bellezza posteriore”.
Ora ci ha pensato Wangechi Mutu, piazzando i suoi bronzi freschi di realizzazione sulla facciata del Metropolitan di New York che dà sulla Fifth Avenue. Molto se ne parla, ma non perché le opere siano rivelatrici di qualcosa: Mutu era passata anche alla Biennale del 2015 e non è stata, diciamo così, proprio una presenza memorabile. Karl Bitter, lo scultore austriaco cui nel 1899 vennero commissionate in prima istanza le decorazioni scultoree della facciata, da buon trombone aveva immaginato delle cariatidi con tanto di allegorie, ma poi per carenza di budget (e per fortuna, aggiungerei) non le realizzò. Hanno provveduto ora, per le celebrazioni del centocinquantenario del Met, e gli è parsa un’ideona. Ideona alla quale si è aggiunta subito l’altra, quella che fa notizia perché suscita il frisson politicamente corretto: le nuove cariatidi le ha realizzate un’artista di colore nata in Kenya – ha studiato alla Cooper Union e a Yale e vive a Brooklyn, ma tant’è – e le ha concepite, recitano sussiegose le schede museali, come “un intervento femminista nella storia della cariatide, liberando le sue figure dai compiti che erano loro storicamente assegnati, quelli di sostenere qualcosa o qualcun altro, fossero un edificio o un re maschio”.
Ovvero le ha fatte sedute, con il busto eretto come regine, stilizzate secondo il luogo comune più stantio dell’art nègre con il collo lungo (ohibò) e dei lineamenti resi vagamente surreali come i marziani nei film d’animazione, con dei panneggi fluidi e schematici tristanzuoli ma capaci di sfruttare tutto il luccicore del bronzo ben patinato. Robe che appetto ai bronzi del Benin che stanno dentro il Met medesimo paiono più che altro una forma di parodia, un pastone citatorio che strizza l’occhio a troppe cose: un giornale newyorkese le definisce, senza ironie, “Afro-futuristic women”.
Non le avesse fatte un’artista nata in Kenya – e peraltro rappresentata da un paio di gallerie autorevoli – ti si presenterebbe subito il pensiero che sono vaccate di serie B, di quelle che si espongono nella hall di un albergo per ricchi scemi amanti del kitsch, ma qualcosa nell’animo ti avverte che se osi dirlo poi ti infliggono dei pipponi infiniti, e prendi atto silenziosamente.
Quanto all’africanità, mi pare una faccenda un bel po’ più complicata che scegliere un artista su mere basi anagrafiche, come se il certificato di nascita potesse fornire qualche omologazione di qualità. Quanto a femminismo, aridatece Valie Export, è l’invocazione che sgorga subito dai precordi: anche perché lo statement di Mutu che le sue sculture lustre riflettono “a stunning message from beyond”, mi sembra una pura, distillata, irrevocabile, fantozziana boiata pazzesca.