Per Alfonso Leoni
Per Alfonso Leoni, in Alfonso Leoni genio ribelle 1941-1980, a cura di C. Casali, catalogo MIC, Faenza, Silvana editoriale, Cinisello Balsamo 2020
Alfonso Leoni è stato, prima di tutto, una coscienza, conficcata lucidamente in uno degli snodi più ispidi della cultura artistica dei decenni ultimi.
Terra fare forma disciplina materia cosa: arte. Serve, e se sì a cosa serve, dirsi ceramista? Se sei nato a Faenza, è questione ineludibile, e chiede un processo di de-definition che non sia solo enunciare, nella sfera delle negazioni radicali che sono state dei Sessanta e Settanta, il montaliano “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, ma molto più. È porre al centro della propria identità fabrile misure diverse e per certi versi ultimative: la remise en question dell’oggetto e della decorazione ceramica scarnificandone i retaggi storici; la dispersione d’amore delle Vetrine che distanziano, ma distanziando delucidano, cose e immagini che scrivono un vivere e un morire; il fare abile della mano fatto risalire sino al punto in cui lo spettatore stesso si ritrova nell’atto sorgivo e supremo di sentirsi e sapersi toccare l’argilla, riattivando lo scambio corporeo primario con la materia.
Per dire ancora con Montale, magari Leoni offre, anziché teorie, solo “qualche storta sillaba e secca come un ramo” – questo solo vuol fare – ma sono proprio queste sillabe storte che aprono mondi possibili e impensati. Esse improvvisamente, in quel memorabile Premio Faenza del 1976 e, più, nella personale d’inizio 1978 al San Fedele di Milano, sommuovono, per chi voglia vedere, un ambito d’arte più vasto, dialogando di fatto con un’area ampia e a sua volta radiante d’esperienze: Nikolaus Lang, Charles Simonds, su tutti Claudio Costa, secondo cui “l’oggetto antico, isola di sapere antropologico, riva dell’infinito fiume del tempo, rimanda a un’interiorità profonda, alla pre-natalità soggettiva e, carico di uno strato di vissuto, di una pellicola di sudore, ci riporta all’ancestrale”.
Certo, dal punto di vista delle cronache il fatto che a Faenza venga presentato un “ready-made assisted” di aroma duchampiano è ciò che fa immediata sensazione, ma a uno sguardo meno puntato sull’epicentro critico del fare ceramica esso offre una inedita posizione dialogante alla pari – e finalmente, cosa rarissima, in perfetta sincronia problematica – con le pratiche dell’avanguardia artistica tutta: alla faccia dell’“arte minore” è, qui, il caso di dire.
Non poteva non avvedersene, più d’altri, un autore strepitoso come Nanni Valentini il quale, sia consentito un ricordo personale, mi condusse praticamente a forza a visitare la mostra milanese di Leoni e m’ingaggiò in uno dei nostri infiniti conversari intorno a materia, memoria, identità, fare: per Nanni, Leoni era la dimostrazione che aveva preso a esistere, infine, un modo altro di pensare la terra.