Tomas Rajlich. Opere 1972-2018
Tomas Rajlich. Opere 1972-2018, catalogo, 61° Premio Internazionale Bice Bugatti Giovanni Segantini, Villa Brivio, Nova Milanese, 12 settembre – 25 ottobre 2020
Dalla fine del decennio sessanta Tomas Rajlich diviene una delle figure di riferimento della vicenda pittorica che, variamente codificata e variamente analizzata, sembra attuare una sorta di interrogazione ultimativa al processo e al linguaggio, e che una mostra memorabile allo Stedelijk di Amsterdam, della quale egli è uno dei protagonisti incrociando figure forti del panorama europeo e statunitense, da Ryman a Richter, da Marden a Mangold, da Agnes Martin a Girke, indica acutamente come Fundamentele Schildernkunst.
Pittura fondamentale, cioè rastremata ai propri modi primi, agguerritamente concentrata nell’analisi e nello scrutinio delle radici stesse del proprio consistere in quanto pittura: artificio e disciplina, congegno del senso e pratica dell’esprimere, in cui l’ineludibile necessità del pittorico era considerata l’ipotesi più probante della continuità d’una identità storica che continuava per tradizione secolare a porsi come lo snodo disciplinare centrale dell’artistico.
Per Rajlich non è un’adesione climatica all’estetica del less, e piuttosto il tentare le vie d’una manzoniana acromia capace di ricostituirsi come piena emanazione del colore. L’iterazione della griglia geometrica che funge da all-over spaziale oggettivo, e luogo specifico d’esperienza, ambisce alla fondazione primaria d’una concretezza di campo d’azione e di visione senza la quale ogni gesto pittorico diverrebbe nulla più che un esercizio formalistico. Rajlich sin d’allora mira però, attraverso atti purificati e avvertiti sino allo spasimo concettuale, a dar corso a una pittura di sostanze, e d’energie, che travalichino il mero dato retinico: che siano, dopo il saut dans le vide kleiniano, pulsazioni precise d’un senso possibile.
Se, con Derrida, Rajlich è consapevole che “la forma affascina quando non si è più in grado di comprendere la forza che è nel suo interno”, egli riparte dalla sistematica dei gesti, dalla cadenza processuale, dall’insistenza sulla concretezza antiillusionistica della bidimensione: premesse necessarie, senza le quali il dispiegarsi del colore e dei suoi gesti – intesi a loro volta nella più completa pienezza e certezza fisica – non potrebbe concentrarsi sull’interrogazione della propria identità, del proprio carattere, delle proprie vocazioni. Per lui il pittore non deve solo, come voleva l’accademia secentesca, “formare i quadri nel suo spirito”, ma soprattutto porsi domande ultimative sulla loro ragione. Il colore, colpeggiato in cadenze brevi e avvertitissime, occupando di sé la totalità dell’immagine è sottratto a ogni logica strumentale, compositiva, e a ogni gerarchia linguistica: è, e si dà, per se stesso, in quanto sostanza stessa del vedere, dell’immagine: in quanto luce.
Gli anni settanta di Rajlich trascorrono in un aggirarsi intorno a varianze tonali sottili, lievemente disagiate per ritrarsi dalla captazione sensibilistica, svolte tutte all’insegna della chiarità, a ridosso del bianco, d’un bianco inteso come essenza luminosa per eccellenza. I suoi dipinti sono, vorrebbero essere, estensioni ed epifanie, capaci semmai di coaguli nella sfera del simbolico. Che la via sia questa, è detto dalla stagione successiva dell’artista, in cui l’accortezza del gesto si concede confidenze ed eccitazioni più piene, e cadenze che tendono a sovrastare la tensione reticolare della superficie enunciata.
È un rimontare d’espressivo, che Rajlich ha alle viste. Esso s’incarna, nel nero, nell’oro, negli aliti d’azzurro lontano, in un rosso spossato e pudico, e poi ancora nei gialli, nei rosa. Rajlich agisce, con ancora maggior determinazione, sul piano della saturazione dell’immagine: ma è una saturazione, ora, che non riguarda solo il vedere; è piuttosto una plenitudine che coinvolge l’idea stessa di luce associata, nella nostra cultura, al sentimento del colore e alla vertigine soprannaturale.
Ecco allora scaturire, sia pure nel nitore operativo di chi non concepisce la pittura che come autonoma, e fisica, fondazione di linguaggio e di senso, più d’una eco sapienziale.
Nelle pitture che Rajlich, in concentrazione monastica, ci dà in questi anni, pare di risentire le parole dell’antico biblista tedesco, per il quale “sì, il colore è per sua natura la comparsa e l’emanazione della luce”, ed epifania del senso del divino. Oppure l’umore delle sovranamente ambigue Sefiroth cabalistiche: oppure ancora, il riascolto meditato d’una cultura popolare – per Rajlich, l’antropologicamente ricca tradizione mitteleuropea – dalle complesse simbolizzazioni pagane, in cui bianco e nero e oro, e celeste e rosso, sono i pilastri stessi d’un intero cosmo culturale.
Nel tempo trascolora, in questi quadri, l’elemento attualistico dell’avanguardia, e resta la pittura: purificata, vogliosa di trascendenze.