Tomas Rajlich. Opere 1972-2018, catalogo, 61° Premio Internazionale Bice Bugatti Giovanni Segantini, Villa Brivio, Nova Milanese, 12 settembre – 25 ottobre 2020

Dalla fine del decennio sessanta Tomas Rajlich diviene una delle figure di riferimento della vicenda pittorica che, variamente codificata e variamente analizzata, sembra attuare una sorta di interrogazione ultimativa al processo e al linguaggio, e che una mostra memorabile allo Stedelijk di Amsterdam, della quale egli è uno dei protagonisti incrociando figure forti del panorama europeo e statunitense, da Ryman a Richter, da Marden a Mangold, da Agnes Martin a Girke, indica acutamente come Fundamentele Schildernkunst.

Tomas Rajlich, Untitled, 1975

Tomas Rajlich, Untitled, 1975

Pittura fondamentale, cioè rastremata ai propri modi primi, agguerritamente concentrata nell’analisi e nello scrutinio delle radici stesse del proprio consistere in quanto pittura: artificio e disciplina, congegno del senso e pratica dell’esprimere, in cui l’ineludibile necessità del pittorico era considerata l’ipotesi più probante della continuità d’una identità storica che continuava per tradizione secolare a porsi come lo snodo disciplinare centrale dell’artistico.

Per Rajlich non è un’adesione climatica all’estetica del less, e piuttosto il tentare le vie d’una manzoniana acromia capace di ricostituirsi come piena emanazione del colore. L’iterazione della griglia geometrica che funge da all-over spaziale oggettivo, e luogo specifico d’esperienza, ambisce alla fondazione primaria d’una concretezza di campo d’azione e di visione senza la quale ogni gesto pittorico diverrebbe nulla più che un esercizio formalistico. Rajlich sin d’allora mira però, attraverso atti purificati e avvertiti sino allo spasimo concettuale, a dar corso a una pittura di sostanze, e d’energie, che travalichino il mero dato retinico: che siano, dopo il saut dans le vide kleiniano, pulsazioni precise d’un senso possibile.

Se, con Derrida, Rajlich è consapevole che “la forma affascina quando non si è più in grado di comprendere la forza che è nel suo interno”, egli riparte dalla sistematica dei gesti, dalla cadenza processuale, dall’insistenza sulla concretezza antiillusionistica della bidimensione: premesse necessarie, senza le quali il dispiegarsi del colore e dei suoi gesti – intesi a loro volta nella più completa pienezza e certezza fisica – non potrebbe concentrarsi sull’interrogazione della propria identità, del proprio carattere, delle proprie vocazioni. Per lui il pittore non deve solo, come voleva l’accademia secentesca, “formare i quadri nel suo spirito”, ma soprattutto porsi domande ultimative sulla loro ragione. Il colore, colpeggiato in cadenze brevi e avvertitissime, occupando di sé la totalità dell’immagine è sottratto a ogni logica strumentale, compositiva, e a ogni gerarchia linguistica: è, e si dà, per se stesso, in quanto sostanza stessa del vedere, dell’immagine: in quanto luce.

Gli anni settanta di Rajlich trascorrono in un aggirarsi intorno a varianze tonali sottili, lievemente disagiate per ritrarsi dalla captazione sensibilistica, svolte tutte all’insegna della chiarità, a ridosso del bianco, d’un bianco inteso come essenza luminosa per eccellenza. I suoi dipinti sono, vorrebbero essere, estensioni ed epifanie, capaci semmai di coaguli nella sfera del simbolico. Che la via sia questa, è detto dalla stagione successiva dell’artista, in cui l’accortezza del gesto si concede confidenze ed eccitazioni più piene, e cadenze che tendono a sovrastare la tensione reticolare della superficie enunciata.

È un rimontare d’espressivo, che Rajlich ha alle viste. Esso s’incarna, nel nero, nell’oro, negli aliti d’azzurro lontano, in un rosso spossato e pudico, e poi ancora nei gialli, nei rosa. Rajlich agisce, con ancora maggior determinazione, sul piano della saturazione dell’immagine: ma è una saturazione, ora, che non riguarda solo il vedere; è piuttosto una plenitudine che coinvolge l’idea stessa di luce associata, nella nostra cultura, al sentimento del colore e alla vertigine soprannaturale.

Ecco allora scaturire, sia pure nel nitore operativo di chi non concepisce la pittura che come autonoma, e fisica, fondazione di linguaggio e di senso, più d’una eco sapienziale.

Tomas Rajlich, Untitled, 1986

Tomas Rajlich, Untitled, 1986

Nelle pitture che Rajlich, in concentrazione monastica, ci dà in questi anni, pare di risentire le parole dell’antico biblista tedesco, per il quale “sì, il colore è per sua natura la comparsa e l’emanazione della luce”, ed epifania del senso del divino. Oppure l’umore delle sovranamente ambigue Sefiroth cabalistiche: oppure ancora, il riascolto meditato d’una cultura popolare – per Rajlich, l’antropologicamente ricca tradizione mitteleuropea – dalle complesse simbolizzazioni pagane, in cui bianco e nero e oro, e celeste e rosso, sono i pilastri stessi d’un intero cosmo culturale.

Nel tempo trascolora, in questi quadri, l’elemento attualistico dell’avanguardia, e resta la pittura: purificata, vogliosa di trascendenze.