Italia: una generazione, Auditorium San Pancrazio, Tarquinia, 22 agosto – 27 settembre 2020

Come mutano le prospettive, gli approcci: i pensieri. Alcuni vengono, se ne vanno, poi tornano. Tre passaggi, più uno.

Era chiara, ad Arturo Martini, la vocazione d’artista, e il suo primo incarnarsi dentro la dimensione allora ordinaria di “arti e mestieri” (“ceramista nel sangue” avrà modo di dirsi presto, ma parlando della provenienza della madre da Brisighella), che si ufficializzerà nel passaggio cruciale del 1927 nella mostra alla galleria milanese Pesaro: e il catalogo recita “Mostra individuale del pittore Andor De-Hubay e dello scultore Arturo Martini”. Che le sculture siano nate nell’albisolese fornace La Fenice di Manlio Trucco è, né più né meno, un fatto.

Italia una generazione, Tarquinia 2020

Italia una generazione, Tarquinia 2020

Quando rientra dall’Argentina nel 1927 Lucio Fontana esibisce il biglietto da visita “Lucio Fontana Escultor”, abile in molte tecniche, ma già pochi anni dopo dovrà  affermare il celebre “Io sono uno scultore non un ceramista”, rivendicando di non aver mai “girato un piatto su una ruota, né dipinto un vaso”.

Nanni Valentini vince il suo primo premio Faenza a ventiquattro anni, nel 1956, subito dopo Leoncillo, e due anni dopo alla “XX Ceramic International Exhibition” al Syracuse Museum of Fine Arts, che sarà l’Everson, fa famiglia con giganti come Hans Coper, Lucie Rie, Peter Voulkos. Il compound ufficializzante dell’arte lo accetterà davvero solo nel 1976, quando alla galleria Milano esporrà le Trasparenze, ovvero opere ricevibili come congeneri alla forma-pittura, e si comincerà infine a vederlo scultore. È un po’ quanto accade anche al più giovane Giuseppe Spagnulo, i cui grès della prima personale al Salone Annunciata, Milano, 1965, sono del tutto ignorati, mentre i grandi ferri del 1968 lo proiettano d’emblée sul palcoscenico della scultura internazionale.

La terra è un dono e anche una grande/piccola dannazione. Può essere tutto perché, come scriveva nel 1963 Ettore Sottsass, “Da cinque seimila anni da un’enorme quantità di anni le ceramiche ci sono – dolci come il pane e sono anche più vecchie del pane. Sono più vecchie della Bibbia e di Gesù Cristo, più vecchie di tutte le poesie che si sono scritte, più vecchie delle capre e dei gatti, più vecchie di tutte le case, più vecchie di tutti i metalli”. Ma è lo snodo antropologico su cui si fonda l’idea stessa di techne, e che Niccolò dell’Arca sapesse tirar su anche una brocca e versarci il vino era il suo bello, genio a parte. Siamo noi – noi, cioè “i maggior nostri”, gli storici dell’arte – che abbiamo inventato la vaccata delle “arti minori”, inutile superfetazione instupidita, e alla luce dei risultati dannosissima.

È divertente e opportunissimo ragionarci proprio qui, nel luogo in cui tutto parla dei Tirreni che, testimoniano Ferecrate e Ateneo di Naucrati, facevano opera d’arte anche di un candelabro di bronzo.

Italia una generazione, Tarquinia 2020

Italia una generazione, Tarquinia 2020

Poi, per fortuna, Dick Higgins nel 1966 inventa il termine intermedia, il lavorare “between media” (“The concept of the separation between media arose in the Renaissance”: e in realtà neppure questo era vero) perché “separation into rigid categories is absolutely irrelevant”. Fare arte diventa, da un certo punto in poi, finalmente più importante che fare con arte: il che significa anche mutare non il come del fare ma il perché, lo sguardo e non l’oggetto dello sguardo. E postilla Giulio Carlo Argan: “come se il significato delle forme dipendesse dalle materie e dai procedimenti con cui si realizzano”.

È grazie a ciò che, per quanto riguarda la pratica della terra, si è definitivamente imposta sulla scena una generazione, quella degli artisti nati negli anni settanta, che s’è messa a esplorare con sottigliezza e avventura, con scrutinio e criticismo, i possibili della ceramica, libera da remore disciplinari (il bagaglio disciplinare è come lo zaino del viaggiatore, se è troppo pesante non si riesce neppure a camminare: oppure devi avere spalle molto larghe) perché ora non si dà questione di esser ceramista, dal momento che anche essere scultore, o pittore, ha perso ormai ogni ragione di senso.

Nel bagaglio formativo d’un autore di questa generazione molti caratteri si affermano vividi. La rilassatezza disciplinare, in primo luogo, che è approccio critico alla dimensione operativa ma senza paranoie d’appropriatezza, senza inseguire un assoluto del ben fare che possa frasi valore in se stesso. L’informazione in presa diretta su quanto l’arte tutta va producendo, il che significa l’esenzione da ogni complesso di minorità nei confronti del dibattito mainstream, quel complesso che sino agli anni settanta ha fatto del mondo a parte della ceramica un’appendice in cui tutto veniva mediato tardivamente, e come snervato. In presa diretta, e in dimensione internazionale, il che ha consentito anche a chi è, per dire con Martini, “ceramista nel sangue”, ovvero cresciuto in luoghi canonici come Faenza, Albisola, Bassano, Grottaglie, eccetera, di contare su fondamentali operativi di prim’ordine ma senza subire l’assedio della tradizione locale, delle sue retoriche, del suo inevitabile piccolo cabotaggio.

Italia una generazione, Tarquinia 2020

Italia una generazione, Tarquinia 2020

La terra è, ha insegnato Fontana, “materia docile” disposta a “esperimenti difficili”, per chi ne sappia cogliere il potenziale sterminato dei possibili. Ora una generazione vi immette una tensione concettuale adeguata, una misura piena del fare arte, in cui la ceramica porti in dote anche il suo tasso specifico di formatività, una richiesta di aspettative che ne apprezzi la ricchezza e, appunto, la docilità confidente, al pari d’ogni altra possibilità di fattura.

La generazione di cui si dice è più ampia dei cinque exempla che qui si documentano: ma attraverso essi si è inteso dar conto della pluralità di orientamenti e di scelte, della varietà degli “esperimenti difficili” e delle implicazioni profonde.

Silvia Celeste Calcagno (Genova 1974) ragiona da sempre, e qui con un’operazione di decifrazione del luogo architettonico stesso, sul doppio registro della sostanza materiale e dell’immagine come apparenza, come pelle che, dai tempi della brocchetta cretese di Gurnià, si eccita nel tentare una misura diversa dal corpo. Qui la materia è materia, e l’immagine vive lo struggle dell’affermazione e della perdita, l’impossibilità di un effettivo embodiment.

Andrea Salvatori (Faenza 1975) lavora sui canoni della forma ceramica di tradizione perché ne fa l’oggetto stesso della propria operazione, con umori che muovono dall’adozione di veri e propri ready-mades per esplorare modi diversi di détournement. Qui, l’esibizione del ben fatto è fondamentale, perché è una sorta di doublure caustica dell’aspettativa di lettura, dunque operazione criticamente lucida, non esente da insinuati picchi poetici.

L’atteggiamento di fondo di Sissi (Daniela Olivieri, Bologna 1977) è eminentemente quello della performer, le cui ossessioni agiscono sempre intorno al nucleo centrale dell’idea di corporeo a partire dal proprio stesso. Toccare la terra è, per lei, porre il focus sull’ambiguità complessa del trasferimento che passa dall’avvertimento del sé fisiologico all’identificazione della ceramica come corpo altro per eccellenza, il luogo proprio dell’ansa su cui Georg Simmel ha scritto pagine decisive.

Paolo POL Polloniato (Bassano del Grappa 1979) è la quintessenza del “ceramista nel sangue”. A Nove da fine ‘600  girano molini “per pestar sassi e macinar colori per le pignatte”, e la stirpe dei Polloniato ha lavorato per gli Antonibon e poi per i Barettoni. Per Paolo è questione d’identità e di radici, e insieme d’una delucidazione critica radicale. Le sue terre bianche hanno la sostanza della blankness concettuale, sono esercizi continuamente rinnovati sulla forma bella e sul banale, sulla forma utile e sulla decorazione: un mondo scrutinato lucidamente e reinventato per derive visionarie.

Nero / Alessandro Neretti (Faenza 1980), “occhio disincantato e impudente” secondo le sue parole, è un reinventore di luoghi fondamentali, di situazioni costruite in cui la forma plastica afferma se stessa inaugurando anche le proprie derive. È lucido e acuminato, a sua volta maestro di détournement, che qui si fa, più ancora che fisico, mentale, capace di straordinarie appropriatezze culturali e di sprezzature che altri direbbero inaudite.

Prima di loro rari altri hanno dischiuso vie decisive. Dico non solo autori come Bertozzi-Casoni e Giacinto Cerone, d’una generazione precedenti, il confronto con le cui opere dice nitidamente dello scarto generazionale. Dico soprattutto Alfonso Leoni, classe 1941, morto nel 1980, colui che primo da noi fece della ceramica la vera matter problematica del ragionare su forma, e processo, e materia, e immagine, con atteggiamenti di acutissima sovversione, e decostruzione, e collage/décollage mentale prima ancora che fabrile. Questa mostra è anche, almeno per me che ne ricordo con emozione la personale del 1978 al San Fedele di Milano, un piccolo omaggio alla sua lezione.