Eva Sørensen: Biennale 1982
Eva Sørensen: Biennale 1982, Sala Esposizioni Panizza, Ghiffa, sino al 30 agosto 2020
Nel corso della sua vicenda Eva Sørensen è stata molto parca di esposizioni. Non per parti pris particolari, ma perché la natura e le ragioni del suo lavoro altro chiedevano, e per certi versi imponevano. Il suo approdo maturo è stato infatti un’esplorazione espressiva che comportasse una declinazione diversa, insieme ostica e sottile, dello straniamento della forma naturale.
S’intende straniamento nel senso ormai classico del termine, ovvero l’assunzione di un lacerto prelevato dalla realtà ordinaria in un contesto estraneo, che gli imprime un’aspettativa di lettura di ordine estetico, e comunque artistico, tale da modificarne in profondità l’apparenza e da rivelarne itinerari di senso ulteriori.
Dopo le incursioni giovanili nella ceramica, ancorché autre, ad Albisola, Eva comprende attraverso la lezione di Fontana e di Jorn la sostanza massimamente artificiosa del plasticare e si pone in cerca d’una scultura in cui la materia rimanga materia, la pietra pietra: in una cava, intuisce, quando il blocco si separa dalla montagna cui appartiene, esso può essere già scultura proprio perché è in se stesso forma amministrabile secondo i codici della scultura, a prescindere dagli intenti dell’artista.
La tradizione plastica vuole che questo sia un passaggio: secondo il bagaglio della disciplina siamo ancora nell’ordine delle premesse, ovvero al momento iniziale del processo demiurgico attraverso cui, con retorica michelangiolesca, l’artista spinge il materiale a rivelare le sue vocazioni formative, a farsi forma intenzionata di cui la materia sia solo veicolo.
Eva no. Guarda il masso come masso, si abbandona a un rapporto di auscultazione più profonda del suo essere, infine, ancora montagna: però non percorrendo la via troppo facile della sineddoche, bensì scrutando la sua presenza muta, brusca, per leggere le trame geologiche stesse che l’hanno fatta pietra, intervenendo solo con l’immissione di piccole rivelatrici differenze che ne riverberano le energie oscure, e verrebbe da dire la potenza ctonia, e che rendono drammaticamente presente, anche, la coscienza della misura impensabile del tempo geologico rispetto a quella, comunque padroneggiabile, dell’intervento.
Per questo Eva vive la sua rivelazione non sulle Apuane, dove ormai si guarda il marmo come materia destinata inevitabilmente a subire una forma formata, ma a Mergozzo, dove una montagna che ti assedia e incombe con la propria estraneità inamena esibisce la propria identità incontrattabile, e dove scopre il granito verde di Montorfano, ancor più oscuro e an-estetico dei più educabili, e a qualche titolo antropizzabili ed estetizzabili, Candoglia e Baveno.
L’occasione del Padiglione danese alla Biennale di Venezia del 1982 è per lei l’occasione perfetta. Le otto grandi pietre esposte nel white cube perdono all’apparenza ogni connessione con l’idea di naturale, che ancora permaneva nella mostra del 1978 al Parco Sempione di Milano in cui le opere assumevano l’aspetto equivocabile di massi erratici in un paesaggio estetizzato, e impongono la propria presenza di veri e propri ready-made aided.
L’incongruità formale dei blocchi è la loro ragion d’essere, il non voler cessare di essere montagna. Gli interventi di Eva non sono trasformazioni formali ma glosse, precisazioni, sottolineature, accentuazioni, petroglifi astratti come accidenti che rivelano drasticamente linee-forza intime, come carezze critiche interposte tra l’ostensione brutale del masso e l’assunzione tutta mentale che l’artista ne fa: un’assunzione che traduce in fogli dalle fluenze di dolce ossessione, andamenti di segni come rabdomantici che si pongono in parallelo a quelli ciechi e arcigni che il destino ha tracciato nella pietra. Sono tracciati geneticamente organici, fluenti, lievi ai limiti della demateriazione, connaturati e insieme devianti rispetto alla volumetria solo all’apparenza estranea delle pietre.