Il criptico d’arte. Il pazzo che non dubitò del mito
Il pazzo che non dubitò del mito, in “Il Giornale dell’Arte”, 406, Torino, marzo 2020
In mostra c’è anche un ritratto di Schliemann, naturalmente. Che ha le fattezze di un bravo borghese, ma lo sguardo indubitabilmente da pazzo. Pazzo, s’intende, d’una specie che ci piace: pazzo e poeta, come scriveva quello là, uno che s’innamora di un mito e decide di crederci davvero, fino a trovare le prove storiche imparentate con il mito stesso: il che è un controsenso, ma lì sta il bello.
Il British organizza una gran mostra, “Troy myth and reality”, e si lascia felicemente trasportare dagli zefiri che han preso a soffiare prima ancora che l’Iliade e l’Odissea prendessero la loro forma letteraria, e da allora non si sono placati. Niente pipponi archeologici, insomma, niente arie di sufficienza professorale verso il commerciante scaltro e un po’ birichino che fa soldi in modi non sempre commendevoli e poi li spende per trovare, da archeologo dilettante, i luoghi delle storie che aveva letto nei suoi libri di bambino. Diciamolo francamente, a noi di Hissarlik ci frega pochissimo. Ci piace di più pensare che Schliemann abbia cercato Troia e basta, e ci piace molto la vecchia foto di Sophia, la moglie del pazzo, ornata dei gioielli del tesoro di Priamo, e vagheggiare che davvero li abbia indossati Elena: Edward Poynter pochi anni dopo la foto dipinge la sua Elena proprio addobbata uguale. Sophia è giovane, ha trent’anni meno di Schliemann, ed è greca, quindi è una glossa in carne ed ossa al mito medesimo: oltretutto, è assai più attraente della modella di Poynter, per dire.
E poi ci sono le numerose Elene che la storia dell’arte ha immaginato, e gli Achilli, e gli Enea, e gli Ulissi, e le Sirene, e Scilla e Cariddi, eccetera, spalmati lungo i secoli. Il che fa un bel mucchio di materiali, che partono da quelli antichi e arrivano a nostri giorni, cinema compreso e compresa Eleanor Antin, vecchia femminista che ora monta con sapienza e arguzia tableaux vivants di pitture storiche.
Tutta roba che, a far due conti, nell’arte profana si classifica seconda per quantità e qualità, e di un’incollatura, solo agli amori degli dei e alle Metamorfosi di Ovidio: tutte fabulae, ma quelle omeriche con la complicazione felice che queste qui un po’ sono anche un brandello di storia.
Ma ce lo immaginiamo che davvero Paride lo zerbinotto, uno che si scansa dal combattimento per non spettinarsi, sia nominato supplente da Zeus in un concorso di bellezza e si trovi lì Afrodite, Atena e Hera tutte ignude e premi Afrodite avendone in cambio non Afrodite stessa la quale, quanno ce vò, è ben generosa di se stessa – e Anchise, ohibò proprio un troiano, ne sa qualcosa – ma qui si spende a sua volta una supplente (e che supplente!), appunto Elena? E che per una storia di normali corna Menelao e gli Achei tutti montino su quel gran can can, al quale i Toiani si soggiogano obbedienti perché ogni volta che vedono la fedifraga a passeggio vengono paralizzati dall’ormone imbufalito come noi quando eravamo pischelli? Il tutto, mentre gli Achei rischiano di perdere la guerra perché Agamennone porta via ad Achille una schiava con uso di letto?
Certo che ce lo immaginiano. Altrimenti sai che palle, stare al mondo. Sappiamo bene che non è vero, ci mancherebbe altro. Ma il mito è racconto, mica un ragionamento in cui i conti tornano, ed è bello così. Anche Schliemann in fondo lo sa benissimo.
Del resto, dopo di lui un sacco di altri pazzi si sono messi in caccia del relitto della Pequod affondata da Moby Dick. Hanno solo avuto meno fortuna, sino a oggi. Ma è un mito ancora giovane, e per il futuro non si sa mai.