Giovanni Sesia, catalogo, Fabbrica Eos, Milano, La bottega d’arte, Lugano, 2000

È possibile che un volto si trasformi in una natura morta? Questo, certo, doveva chiedersi Giovanni Sesia maneggiando le antiche lastre, retaggio ultimo d’una storia di esistenze.  E ripensava, insieme, a ciò che conveniamo di chiamare vita, una sorta di ambigua abitazione di spazio e tempo cieca di radice e di destino.

Sesia, Donna pazza, 1999

Sesia, Donna pazza, 1999

Ne poteva scaturire della letteratura, oppure l’ancoraggio alla tradizione recente d’una iconografia che rammenta Dubuffet e Rainer e Boltanski e Serrano: come se l’antico catalogo in progress di Close e il “lasciate una traccia del vostro passaggio” di Vaccari avessero assunto il tono seppia del delirio normativo, del lombrosismo d’antan. Sesia ha tuttavia scartato entrambe le prospettive. Ha lasciato depositare ogni arbitrio memoriale e ogni ansia di politically correct e ci ha offerto, in ostensione cruda, ossosa, quelle facce: foto d’antenati altri a tutto, antenati, anche, della fotografia, escrescenze nude del codice occidentale di ritratto.

Proprio su quel codice, prosciugato a sua volta di retoriche, egli ha deciso di continuare a operare. Una sedia e un panneggio, anch’essi figli d’un repertorio sedimentato (penso alla plasticità reinventata d’un Manzù, all’ossessione visionaria d’un Lopez…) nel dire assenza e straniamento di luogo, dell’ubi consistam del corpo. Una sedia e un panneggio fotografati e dipinti, fotografati e dipinti, in definitiva compressione dei codici visivi, di ricezione e attribuzione di senso, prima che disciplinari. Una sedia e un panneggio, e talora un bucranio, simbolo tra simboli d’una vanitas assaporata in lucido laicismo. Lì, con quelle scritte velenose e imperfette, fomentate dall’ansia della cattura impossibile d’un senso: a scialbare anch’esse, ultimo oltraggio, la condizione anch’essa mortale dell’immagine.

Antico, atavico è il soggetto del viaggio di Sesia; forte, nella tradizione, il solco in cui egli si muove. D’oggi è però l’attraversamento definitivo, per interrogazioni incontrattabili, dei codici, e la sfiducia ultima nella capacità dell’immagine di farsi segno stabile e schiarito. Questo, della mortalità dell’immagine – “se i quadri potessero gridare come porci scannati! E le immagini non morissero appena nate”, così Novelli – è il vero dramma: e la follia radicale: questa la mediatio mortis che Sesia ci dice.