Il criptico d’arte. L’ossessione è cosa seria
L’ossessione è cosa seria, in “Il Giornale dell’Arte”, 404, Torino, gennaio 2020
Ecco un caso in cui la dizione “capolavori” diventa un’espressione viva e problematica e non una ecolalia da ufficio stampa mediocre. I “Capolavori della pittura italiana” della collezione Alana, messi insieme nei decenni da Álvaro Saieh Bendeck e dalla moglie Ana Guzmán (il nome della raccolta non è stato un gran colpo di genio, è nato saldando le iniziali dei nomi) ed esposti al Jacquemart-André, cioè nel museo nato dalla maniacalità d’un’altra coppia illuminata, ti ricordano che la faccenda non è per niente mettere insieme i soliti nomoni da arricchito ma possedere opere che ritieni fondamentali secondo un disegno, un progetto, ché anche coltivare un’ossessione è una cosa seria, da perseguire con metodo e competenza.
Saieh è naturalmente un billionaire, Forbes dice che è un uomo di finanza che vale circa 3 miliardi di dollari – in quella classifica, robetta: è 745simo –, ed è cileno: ma neanche il più ricco dei cileni. Gli interessa solo l’arte italiana antica, quella che va dai primitivi fino al caravaggismo, e lì si ferma. E gli importano solo le opere qualitativamente alte, anche quelle che normalmente, quando si fa una mostrona di “capolavori”, neanche si prendono in considerazione. Lui, per dire, ci vive davvero insieme, altro che porti franchi e caveaux chissà dove.
Facile, uno dice, fare i fenomeni quando stai seduto su una montagna di denari. Ma, giusto per, Silvio sta seduto su una montagna alta il doppio e coltiva passioni ben diverse: in generale, ho molte meno ragioni per ammirarlo. Il signor Álvaro ci ha messo del suo, non solo si è circondato di gente che sa le cose ma lui si è messo lì e le ha pure studiate, per cui quando gli è capitato di incrociare, che so, un bel Niccolò di Pietro Gerini o un Franciabigio, non solo sapeva chi erano – anche tra gli spocchiosi giovani accademici di oggi la cosa non è così scontata – ma anche che erano “minori” solo per dire, e aveva allenato gli occhi a guardare le opere e a capirle per davvero.
In mostra ci sono, per dire, due o tre robe per cui si può perdere la testa. E la si può perdere vedendoci, dal momento che gli spazi sono messi su un po’ a quadreria, citando la vecchia maniera, e con luci non dementi, fregandosene della moda buio/spot/buio/spot che fa sembrare tutto una gioielleria di lusso: tipo, per capirci, l’Annunciazione di Filippo Lippi al Palazzo Marino di Milano, un allestimento che ti fa andare subito in bestia.
Un’Annunciazione di Lorenzo Monaco soave, dipinta proprio negli anni in cui Masaccio sta debuttando, che in una sola mossa ti dice dell’humus fiorentino di quel tempo. Uno Jacopo del Sellaio che fa a gara con Botticelli: questo è un po’ più ovvio, ma il dipinto è proprio bello. Un trittico potente di Guariento e, ancora a proposito di Masaccio, un fronte di cassone dello Scheggia. Un Cosimo Rosselli, un Fra’ Bartolomeo e un Granacci che raccontano la storia parallela, più sottotraccia, che a Firenze si interseca con quella di Raffaello e Michelangelo & Co. E poi c’è Bartolomeo Manfredi, una Scena di taverna del 1619-1620 che, a Caravaggio morto, è la pagina perfetta per spiegarti perché nell’Europa del nord Sandrart e i suoi emuli chiamano questo genere pittorico la “Manfredi Manier”.
Cose così, un percorso fatto di innamoramenti e amori e occasioni (e avrà pure fatto i suoi begli errori, Álvaro: ci sta, ma quelli mica te li fanno vedere), qualche snobismo sagace, e un vero progetto intellettuale che ne fa, giusto per citare la vecchia Aline Saarinen, un “proud possessor” che non sembra neanche un po’ un palazzinaro de noantri o un magnate russo con lo smartphone sempre aperto su Artprice.
Insomma, una mostra di “capolavori” così in uno spazio espositivo italiano mi sa che mai ci capiterà: Cosimo Rosselli e Franciabigio ma chi cippa sono, alla fine?