Davide Benati. Realtà del quadro, in Davide Benati, Skira, Milano 2010

Viene una stagione in cui la pittura non è più questione di intenti, progetti, dimostrazioni, suggestioni. Una stagione in cui la pittura è questione di pittura. È stato della generazione tutta (quasi tutta) cui Davide Benati appartiene, riaffermare tra forza e leggerezza la centralità del dipingere, del quadro, il suo statuto di unica condizione intellettualmente ed empiricamente credibile. “Esiste ora soltanto pittura pura – scriveva Georg Baselitz. – Dove può esistere un’altra cosa?”.

Benati, Azzorre, 2005

Benati, Azzorre, 2005

Oggi, alla verifica della durata, della tensione, della qualità, egli è tra coloro, i rari, che possono rivendicare in pienezza la scelta di specchiare e riconoscere il proprio trasfigurare il rimuginio intellettuale – vivo vivissimo – crescente sull’identità storica dell’arte tutta, sul suo dover essere, poter essere, voler essere, in una pura frequenza inventiva, di fondamento sorgivamente e orgogliosamente poetico, e in un fare che, né smemorato né indifferente, sa in se stesso il proprio centro, il proprio inizio e la propria fine.

L’iconografia è sempre in Benati esperienza viva, e ricordo, e a un tempo seme inventivo ulteriore. È memoria colta, una sorta di amalgama tra erudizione e curiosità in parti uguali, con il reagente essenziale dell’amore. Ma è memoria che si fa sensazione vera, risentimento affettivo e fisico, nel crogiuolo dei sensi: “I pigmenti sono sparsi nel paesaggio e basta raccoglierli con gli occhi. […] Compro lo zafferano, il lapislazzuli e la gomma lacca; poi degli incensi, una valigia di latta e una pashmina. Ho bisogno di riposare lo sguardo e l’olfatto, decantarli. Domani comprerò la carta”, scrive Benati in un carnet di viaggio parimenti figurato e scritto. Il medesimo atteggiamento, di empatia che si fa condizione fisica, egli ha, da sempre, nei confronti dell’immagine, dal tempo lontano di Celeste impero e Dedalus, a un dipresso tre decenni orsono, a quello successivo di Baja California, a quello più recente di Doni della bassa marea, a quello ancora di Neve a sera, a quello infine delle opere di questi anni ultimi.

Benati , Mellow Yellow, 2008

Benati , Mellow Yellow, 2008

E’ memoria dell’immagine, dunque, che si fa immagine nuova, come respirando il corso lungo del generare, il quale procede per individua legati dal filo invisibile, ineffabile, della genealogia: ognuno antichissimo, ognuno perfettamente autonomo e attuale; ognuno distinto, e insieme parte essenziale della storia lunga che l’ha generato.

Il colore è, in pari tempo e in complicità perfetta, la misura d’un vedere che vive d’emozione, e quella d’una emozione che esso stesso intende restituire al mondo. Emozione intellettuale e fisica insieme, ancora una volta. Un colore, un tono, è distillato della sua storia – storia di cose: “il bianco di calce degli Stupa”, e storia di altre immagini: il lapislazzuli è “il colore di quel cielo, dei giudizi universali, delle vesti delle Madonne, dei mari del Sud” – ed è puntualmente sensazione da assaporare nelle fibre intime del corpo, stillante nell’acutezza dei sensi che si fanno senso, perché questo a sua volta possa trovarsi in corpo. Scrive Benati in un altro appunto: “Che colore dare al profumo di incenso se non quello dell’oro? Come dare corpo ai ricordi dei verdi del Libano, dei blu del mare di Cipro, dei bianchi mulini a vento di Creta?”.

Realtà del quadro non può essere dunque, per Benati, che realtà fisica, concentrazione disciplinata in cui il fare stesso si dà in perfetta pienezza. Il dipinto è il luogo buono cui l’esperienza tutta dell’artista tende, e in cui tutta assume valore e necessità.

Benati non esegue un quadro. Il suo non è un far vedere, è un vedersi. Il quadro è il maturare e il materializzarsi, in un tempo delucidato, spinto a una condizione straniata rispetto all’ordinario dal rituale nitido dei pensieri e degli atti, come per precipitato ogni volta definitivo, della totalità del pensare e del pensarsi dell’artista: che è, a ben vedere, la vecchia questione raffaellesca della “certa idea che viene dalla mente”, e la “cosa mentale” leonardesca, ritrovata e declinata alla fine delle avanguardie, nel punto in cui l’arte, senza smentire se stessa, continuamente s’interroga facendosi.

L’immagine è dunque essenziale per Benati, ma proprio in quanto preliminarmente assunta, senza infingimenti, come finzione pretestuosa. È “fictura”, come voleva Isidoro di Siviglia, ma esplicita e orgogliosa. Non simula, e invece della simulazione convenuta fa pietra da costruzione d’un vero altro possibile. Figura, ma nel senso appropriato del fingere, facendosi proprio per ciò ricettacolo d’un senso altrimenti fondato.

Benati, Dipinti in palmo di mano, 2009

Benati, Dipinti in palmo di mano, 2009

Ed è essenziale la tecnica, quel sublimare la disciplina che Benati contrappone con determinazione incoatta alle celebrazioni postmoderne di debolezze del pensiero fatte infine latitanza, ché il suo atteggiamento in ciò fortemente s’imparenta a quello del Delacroix che, nel Journal, scrive: “Adorazione della falsa tecnica nelle cattive scuole. Importanza della vera per la perfezione delle opere”, alla faccia delle troppe simulazioni correnti di rinuncia alla qualità del fare divenute ormai, anch’esse, “cattiva scuola”.

Perché egli sa bene che disciplina è prima di tutto ordine morale ed estetico ben prima e ben più che fabrile, condizione indispensabile e irrinunciabile, né a qualunque titolo contrattabile, del senso.

Disciplina è per Benati già il momento di quel suo vivere vedendo, toccando, annusando, assaporando; è pensare, auscultando il proprio stream emotivo attraverso il vaglio d’una non affettata cultura alta; è rielaborare continuamente, e decantare, e selezionare nell’animo, in un pensare forma e pensare colore da subito esclusivo; è il sentir crescere dentro di sé l’immagine che si vuole necessaria; è lo stillare i gesti precisi del mescere i pigmenti, del carezzare la carta; è lasciare che la mano corra, in se stessa sapiente.

Poi, “dopo giorni i colori si faranno corpo, avranno saturato lo spazio ma continueranno a rivelare per sempre la loro trasparente illusorietà”.