Nanni Valentini. “Nell’interspazio tra il visibile e il tattile”
Nanni Valentini. “Nell’interspazio tra il visibile e il tattile”, ABC-Arte, Genova, 5 ottobre 2019 – 5 gennaio 2020
Giusto per prendere le prime misure in termini cronologici. Nel 1954 Leoncillo, uno dei massimi scultori del dopoguerra europeo, ottiene il primo premio al XIV Concorso Nazionale della Ceramica di Faenza. Due anni dopo, 1956, lo stesso premio tocca al non ancora ventiquattrenne Giovan Battista Valentini: e nel 1958 una sua ciotola smaltata e gaffita è premiata alla “XX Ceramic International Exhibition” al Syracuse Museum of Fine Arts, che sarà l’Everson, Syracuse, New York, a fianco di giganti come Hans Coper, Lucie Rie, Peter Voulkos: il suggerimento di invitarlo è venuto da Lucio Fontana.
I talenti sorgivi e predestinati esistono, e da subito il mondo della ceramica riconosce che Valentini ha un futuro già tracciato da ceramista geniale. Solo che egli sa bene, altrettanto precocemente, che l’immedesimazione istintiva, in piena souplesse, con il fare della terra, non può limitarsi e circoscriversi al compound orgoglioso della ceramica, ma deve essere ragionamento fondamentale sulla forma plastica, e sull’immagine. In altri termini, a Valentini ben poco importa di pensarsi ed essere considerato un precoce grande ceramista. In primo luogo, sa bene che l’idea corrente di ceramica è troppo intrisa di idées reçues intorno alle arti applicate per essere accolta senza riserve nell’ambito ristretto e alto delle arti “alte”: la celebre rivendicazione di Fontana “Io sono uno scultore, non un ceramista. Non ho mai girato un piatto su una ruota, né dipinto un vaso”, e capolavori come l’Angelo per la tomba Chinelli al Monumentale di Milano, 1949, sono lì a indicargli la via. In secondo luogo avverte, nel clima di integrazione delle arti che proprio in quegli anni permea le Triennali milanesi e le scelte della “Domus” di Ponti, che diverso è il trattamento riservato agli autori, di cui sia già omologata l’appartenenza alle cerchie alte dell’arte, quando affondano le mani nell’argilla – su tutti Asger Jorn fattosi albisolese – rispetto a quello che tocca a coloro che nella ceramica sono nati ed evolvono: i casi di Arturo Martini e dello stesso Leoncillo son lì a proclamarlo.
Dell’operosità ceramica egli ritiene, tuttavia, la crucialità della conoscenza partita dei processi, un’idea di sperimentazione mai épatante ma come intellettualmente e operativamente ripensata e cautelata, il che gli fornisce un ancoraggio essenziale in una stagione in cui fare en artiste è troppo spesso posare en artiste con spregio, quasi, dell’appropriatezza tecnica. Più a fondo, intuisce che l’idea della ceramica è formatività e non formazione, auscultazione del pensare/fare anziché intenzione: argomento, questo, che nutre molte delle vicende esemplari dell’epoca, a proposito di materia e segno e gesto. E ne cerca gli snodi oltre il confine canonico della disciplina, nel territorio vitale delle sue triangolazioni intellettuali vere e delle sue prime esperienze pittoriche. Esse sono gallerie autorevoli come La Salita a Roma e la Numero a Firenze, dove partecipa a mostre collettive, e figure come Gastone Novelli, Emilio Scanavino, Tancredi, Ettore Sottsass jr, i fratelli Pomodoro (con Gio’ tiene nel 1960 una mostra a due alla galleria del Giorno, Milano, poco prima della personale al Salone Annunciata), Bepi Romagnoni: ma il debutto è ancora con la terra, alla prestigiosa galleria milanese dell’Ariete, 1958, insieme ad Albert Diato e il viatico d’una presentazione di Fontana, con grès in cui la materia è anche la sua stessa superficie, e il segno è segno congenito alla materia: “trovai un segno che non era separato dalla materia”, scrive, come un accidente qualificativo del suo spessore.
Lo spettro radiante, e in quegli anni fluido e mobilissimo, dei suoi rapporti, intonato soprattutto dal sodalizio profondamente amicale con il genio diverso di Tancredi, gli insegna come la questione vera sia quella di trasferire le proprie sapienze altoartigianali in un ambito che restituisca loro ragione e necessità, che faccia di esse non il fine di un’esibizione ma il tramite per ripensare una sostanza autentica dell’esprimere.
Il 1960 è l’anno della pubblicazione di La scultura lingua morta di Arturo Martini da parte della galleria Spotorno, Milano, che mette finalmente in circolo il suo testo finale e fondamentale. Tra i comandamenti che vi si leggono, alcuni sono folgoranti: la scultura come “arco dello spirito”, che non “sia rupe, ma acqua e cielo”, non “un oggetto, ma un’estensione”, non “una vistosa virtù, ma un oscuro grembo”, è quella che può e deve essere, Valentini intuisce. È questo, inoltre, il tempo in cui assiste direttamente Fontana nell’opera cospicua della tomba Melandri a Faenza, un’esperienza che gli dà la misura del rimuginio del genio su un fare avveduto dei limiti stessi del ragionare in termini di pittura e di scultura: e della prima esposizione delle Nature fontaniane in “Dalla natura all’arte” al Palazzo Grassi di Venezia.
Sino a quel momento la produzione ceramica è la sua vita ordinaria, e il disegnare ossessivo che lo accompagna – la pratica della carta è e sarà sempre il filo conduttore dei suoi giorni, il luogo d’ogni identificazione – la sua tensione che da passion privée mira a trasformarsi in conoscenza attuata, in quella che potrebbe ritrovare il punto di congeneità tra un possibile fare scultura e la pittura, e farsi arte.
Proprio l’alloro da ceramista di vaglia, che nel 1961 lo vede doppiare il primo premio al concorso di Faenza, diventa il suo disagio, il primo limite da infrangere. Egli vede, in ciò, il rischio dell’abilità, la confidenza retorica della mano, il binario inderogabile che conduce a esiti finiti e apprezzabili, certo, ma privi di fondante necessità. Abbandonare la pratica quotidiana di bottega, far germinare il proprio nucleo profondo d’identità d’artista, comporta scelte radicali. Di vita, perché significa anche mettere in discussione le proprie fonti primarie di sostentamento, e di strategia su se stesso. Valentini è consapevole del fatto che, se a un artista delle generazioni precedenti era consentita un relativa ignoranza delle cose della cultura, addirittura della storia stessa dell’arte e delle sue forme, ora ciò non è più possibile: non a lui, comunque, che in termini di autorappresentazione non ha da porre sul piatto della bilancia, in alternativa, alcuna vocazione alla brillantezza mondana, all’edificazione di relazioni utili, alla decifrazione dei meccanismi convenienti del sistema dell’arte.
I suoi anni di “studio matto e disperatissimo” sono fatti di un disegnare senza sosta e di uno studio dalle aperture vastissime: storia dell’arte e filosofia, antropologia e poesia, cinema e musica, issandosi a vette di complessità che lo portano anche all’abitudine di scrivere non atteggiandosi a teorico ma davvero per capire, per trovare e dunque trovarsi. Si assetta, anche, un comportamento mondano adeguato al suo carattere e alle sue scelte, facendosi solitario, coltivando la propria marginalità (che tuttavia non è mai il se poser en marginal da altri praticatissimo), arroccandosi in una allure di timidezza che è roccaforte di effettive sapienze condivisibili solo con pochissimi. È un’autodifesa e la coltivazione d’una alterità feroce, vissuta con tale inflessibile fermezza intellettuale, con tale non mediabile rigore etico, da fargli scrivere nel 1983 che il suo cursus honorum nel mondo dell’arte “non ha avuto in me, per quello che riguarda ordine, continuità e promozione, un amico ma anzi un tenace avversario”.
Non è, comunque, un saut dans le vide. Valentini è immune tanto dai traffici del gusto quanto dall’arte che si vuole solo discorso intorno all’arte. Ha toccato la terra, ha conosciuto quella complicità oscura, sa che essa è davvero madre, se si ha l’umiltà e la volontà di farsene davvero figli: per esempio, cessando di ragionare in termini di materiale, e colore, e forma, e di ripararsi entro i termini di un confine disciplinare.
Lascia ad altri l’esperienza e la consuetudine con l’oggetto. Nel 1968 fa sì che nasca il laboratorio Ceramica Arcore, retto dalla moglie Tina e dal cognato Marco Terenzi, geniaccio del tornio, imbevuti delle sue sapienze e talmente solidali con lui che ancor oggi sono tenaci gli equivoci sulle produzioni straordinarie del laboratorio, spesso ascritte dal mercato alla sua personalità d’artista: ma conoscere e capire, è ben noto, non è preoccupazione primaria del mercato.
Valentini si concentra su se stesso, si ausculta, accumula esperienze e pensieri in modo non lineare: “– Per andare dove, amico? – Non lo so, ma dobbiamo andare”, se si vuole citare Jack Kerouac. Lascia che il pensiero si ponga domande grandi, proponga dei perché non mediabili, e lascia che la mano segua e tenti il modo e gli strumenti, provando e riprovando. Ha scritto il suo amico Novelli: “C’è chi riesce a fare e agire senza sciupare nulla di sé e chi si deve consumare tutto per fare una cosa piccolissima. È come voler piantare un seme ben profondo in un terreno duro”. Ma il seme va piantato, comunque.
Poi, dal 1973, la svolta: “privilegiai il disegno e la terracotta con la quale feci una serie di piastre con impronte di alberi, foglie. Quello fu il mio primo lavoro”. La lezione di Fontana riguarda la rilettura delle ragioni della formatività autonoma della terra, che non è più medium ma sostanza d’infiniti possibili: nel 1973-1974 nascono i Paesaggi d’argilla e insieme Nascita del seme. L’ostensione della terra come terra, che tautologicamente passa dall’indistinto a essere, nel processo, oggetto di ripensamento e soggetto di generazione, dunque qualificazione essenziale di sguardo – e la sostanza, l’ambito dello sguardo è uno dei temi che egli intuisce fondativi, come la geometria interna del corpo e la sua identità possibile, il volto, a vari gradi di penetrazione profonda e radiante –, configura l’ambito primario, sorgivo dell’azione plastica.
Il dove dello sguardo alimenta l’intuizione della serie coeva della delle Garze, plessi colorati monocromi la cui superficie l’occhio può traversare ma cui elementi opachi apposti conferiscono una geometrizzazione elementare che sa di struttura, di spazio in sé reale, senza clausole di finzione.
“Mi piace manipolare la terra, vedere attraverso una tela, bagnare di colore le cose. Cerco di capire cosa c’è nell’interspazio tra il visibile e il tattile”, scrive nel 1975. È, questo, il tempo in cui Valentini, praticando la terra come terra, la assume in toto equivalente all’idea di materia, che è ma non è altro che se stessa e i propri stigmi insieme fisici e mentali, il corpo e la pelle, l’asse d’una rotazione che si fa omphalos, l’orizzonte, il verificarsi dello sguardo e nello sguardo, l’apparire e subito farsi, anche, possibile memoria e parola, discorso: vera, perché non è altro da se stessa.
È anche il tempo in cui Carla Pellegrini, gallerista che non ama l’ovvio, incontra le sue opere fondativamente autres decidendo di presentarle alla sua galleria Milano il 20 maggio 1976: un’altra mostra, memorabile, Ceramiche e luoghi, gli dedicherà nel 1980. Nel 1976 “Erano delle tele trasparenti appese e staccate dal muro. In una altra stanza c’erano dei pavimenti di terra”, scrive l’autore. Nella lettura di Tommaso Trini l’operazione di Valentini è “ricreare l’equivalente minimo e mentale della percezione del paesaggio, dunque della realtà”, è la “visibilità schermata di un Lo Savio che per incanto si apra sui paesaggi lievi di Melotti”: con quel blu a evocare non linearmente che nella Teogonia esiodea Gaia “dall’ampio seno, per sempre sicura dimora”, genera da se stessa anche Urano: terra e cielo, dunque, orizzonte e paesaggio: visibile e tattile, e l’interspazio in cui un senso autonomo si produce.
Dalle Garze e dalle piastre nasce, schiudendo una stagione di straordinario fervore, una sequenza intensa di zolle, e mattoni, di qualificazioni silenziose del luogo, la sequenza, la spirale e il cratere (un vasto Cratere,1981, entra nelle collezioni del CIMAC, poi Museo del Novecento, Milano, una Colonna bianca con cratere, 1985, va ai Musei di Varese), il muro, il portale e la finestra, dunque l’idea di soglia: e il focolare, quindi la casa: e il volto. Sono lavori che progressivamente carpiscono il variare dei comportamenti formativi della terra, com’è nella Rotazione, pienamente scultura e determinazione del suo luogo non solo per convenzione, con cui l’artista ottiene per la terza volta, 1977, il Premio Faenza, e si aprono a inneschi e suggestioni e umori tra filosofico, poetico, antropologico (se è concesso un ricordo personale, quello più vivido riguarda le nostre conversazioni intense su Vernant e Caillois), in cui la mano dell’artista agisce filialmente sulla terra, come per incesto amorevole e, a modo suo, puro: Un ombelico per Empedocle, 1978, Una materia per Pitagora, 1979, Endimione e i 28 volti di Selene, 1980, L’ombra di Peter Schlemihl,1982: sino alla gnosi de L’inno della perla, 1984.
Filo corrente è quello del volto, della possibilità stessa di sguardo e delle alee, anche, del vedere: sono volti ossosi, pieni, corporali come spoglie, come un capitello romanico – e capitelli sono quelli di Dialogo, esposta nella personale della sua consacrazione pubblica al Padiglione d’arte contemporanea, Milano, il 19 gennaio 1984, che segue alla sala personale alla Biennale veneziana del 1982 – e insieme hanno fattezze svuotate da Totenmasken, da manichini metafisici, come impronte nel vuoto. A lato nascono piastre con volti anch’essi accecati, e Scudo di Perseo, 1981, e la Gorgone Medusa, 1982, in una riflessione che transita in un ampio arco di opere.
Altro tema oggetto di elaborazioni plurime è Il vaso e il polipo, 1982, sorta di ekpurosis in cui lo schema della brocchetta cretese di Gurnià deflagra nel separarsi dell’immagine dal corpo plastico, e il polipo, esso sì, ha occhi, mentre nulla più che un’impronta è il volto dell’opera sorella, Il vaso cretese, 1983, oggi alla Fondazione Arnaldo Pomodoro, Milano.
Il passaggio è cruciale, per Valentini, perché incarna plasticamente il suo dichiararsi alla fruizione non più ceramista secondo convenzione, perché l’idea stessa di vaso, di cratere, di ciotola, di ansa, a ben altro può portare. E di lì a poco sarà Deriva, avviata nel 1982, in cui il moto centrifugo è attivato dall’ampia cavità spiraliforme intorno alla quale si depositano movenze e comportamenti e vocazioni della materia: guscio, spirale, onda, ansa, centri, antro, sole, bocca… Ogni elemento è se stesso e insieme parte organica d’una fluenza, e il senso del processo, l’implicazione anche temporale di questo coagularsi di forme è detto dagli studi plurimi, dalle ipotesi continue di variante, dall’impurità materiale ed esecutiva convocata a negare sospetti di ben fatto, e a valorizzare piuttosto il valore di unfinishing, dell’agitarsi di tensioni intime che il fare registra, non placa.
Ma già il decennio nuovo ha portato altri temi sorgivi. È, dapprima, la centralità dell’idea di casa come dimora, resa protagonista in Das Haus in der Kunst alla Babel di Heilbronn nel 1981, e rideclinata nel tempo sino alla personale al Museu de Ceràmica di Barcellona nel 1984. Le case sono archetipi che si fanno luoghi, e memoria, e racconto, interstizio poetico, risimbolizzazione perfetta dello spazio in quanto femminile: casa che genera interno ed esterno, che chiude lo spazio dicendolo, casa utero e calore, oscurità e intimità: materia del vivere.
Il punto estremo di Valentini – estremo non per esaurimento problematico, ma a causa della sua morte improvvisa – è la riflessione intorno alla figura stante, l’antica fascinazione che l’ha fatto guardare a Martini e Sironi e Carrà, e che un’Annunciazione plastica d’aroma mantegnesco al Palazzo Ducale di Mantova, che scopre e molto studia, gli fa concepire come un doppio in between: tra corpi strutturanti, cavità che molto pronunciano, e pelli come panneggi che fremono, restituendo il fruscio del passaggio dell’angelo. Alla personale al Pac del 1984 anche l’Annunciazione è presente, a comporre una triade problematica dai molti annunci e dalle molte suggestioni.
L’uomo è la terra, l’angelo è l’altro dalla terra, l’altro dall’uomo, complice, in un lucente impadroneggiabile riverbero di raddoppi mentali e poetici.
Poetici, soprattutto, in una ridda di suggestioni non dipanabili. L’angelo di Rilke e quello di Keats e quello di Benjamin. Soprattutto, credo, “the necessary angel of earth / since, in my sight, you see the earth again”, l’angelo necessario di Wallace Stevens, “perché la terra nel mio sguardo rivedete”. L’angelo annunziante di Antonello, anche, che non vedi se non nello sguardo (nello sguardo) dell’Annunziata, e quello che fruscia nella sorpresa domestica di Lorenzo Lotto. Ma anche l’angelo di Licini che tenta Amalassunta, l’impura Selene marchigiana: e il suo volto e il fremito di linee frananti e frementi, a dissolvere l’estraneità del cielo, e che nutre l’Angelo Dioniso, 1984-1985, ora al Museo Diocesano di Milano, fratello d’animo di quello liciniano del Miracolo di San Marco.
La nascita dell’angelo, 1985, titolano le sculture predisposte per una personale allo Hetjens Museum, Düsseldorf, che si apre postuma pochi mesi dopo la morte di Valentini. È un’altra vasta opera è pronta in studio, una Casa (ora GAM, Torino) sorella in concezione di Dialogo esposta al P.a.c., che sarà protagonista nella retrospettiva del 1987 alla Galleria Civica di Modena con Angelo Dioniso.
È l’angelo che lascia una traccia azzurra nella casa di Modena. Azzurra perché sostanza del cielo che diventa un dentro, un passaggio, un possibile. Azzurra come la metafisica delle ceramiche giapponesi. Un’altra metafisica. E sempre la terra.