Piero Manzoni. “Fugitive from Painting”, in Piero Manzoni. Lines, catalogo della mostra, a cura di R. Pasqualino di Marineo, Hauser & Wirth, New York, 25 aprile – 26 luglio 2019 

Occorre partire da una stroncatura. Il 16 dicembre 1959 il “Corriere della Sera”, il più autorevole quotidiano italiano, pubblica un articolo di Leonardo Borgese sulla mostra di Piero Manzoni alla Galleria Azimut di Milano (1).

Borgese è un critico fortemente tradizionalista, ma contrasta le neoavanguardie non affermando un partito preso bensì dipanando il filo di ragionamenti non banali. Il debutto di una nuova galleria, Azimut in via Clerici 12, e le nuove opere di un giovane che si è già segnalato per intraprendenza (2), rappresentano un’oltranza della quale dar ampio conto critico, ben tre colonne di testo.

Manzoni, Linea lunga 19,11 m, 1959

Manzoni, Linea lunga 19,11 m, 1959

Il tono è fondamentalmente ironico, ma presenta alcune intuizioni interessanti. Manzoni è presentato come “pittore, o qualcosa di più, o di meno, o di estraneo insomma alla pittura, o di evaso dalla pittura, dall’arte stessa”, che annuncia una posizione estrema: “Si passa, allora, nel campo della pura idea e, anzi, forse, solo del lampeggiamento cerebrale?”

Manzoni si applica a “dipingere a mano libera, col pennello intinto di nero, certe linee abbastanza diritte, lunghe, lunghe, lunghe, su altrettanto lunghi rotoli di carta bianca, larghi circa venti centimetri”: in mostra però “una striscia appena hanno esposto. Le altre rimangono arrotolate strette entro scatole cilindriche poste sopra varie mensoline; non ve le mostrano sciolte perché le scatole sono sigillate. Volete proprio? Comperatele al buio. Il sigillo che cosa garantisce? La lunghezza? segnata in metri e in due lingue su ognuno dei mitici fantatecnici tubi”. Dunque si può solo “Comperare al buio. Anche questa, forse, tecnica del lampeggiamento cerebrale. Ma dopotutto, voi stessi, senza ricorrere alla radioscopia, senza nemmeno vederli, i tubi, potete lampeggiare un poco col cervello e vedere con la mente tutte le altre undici sublimi linee, sublimi simboli, anzi, forse, dello spazio a una, a due, a tre, a quattro dimensioni eccetera, dell’orizzonte, dell’azimut, forse, del viaggio interplanetario, del satellite artificiale, del tempo, forse, dell’infinito” (e poco sopra ha scritto: “A meno che non si possa usare, per la mostra, un arco d’orizzonte addirittura”: in una lettera a Heinz Mack dell’aprile 1960 Manzoni, dal canto suo, vagheggerà l’idea di “una linea che fa il giro di tutta la terra” (3)).

La modalità espositiva scelta da Manzoni non è dettata da ragioni contingenti. Già qualche mese prima, il 18 agosto, ha presentato alla galleria Pozzetto Chiuso di Albisola Marina le sue prime Linee. Una di queste, lunga 19,43 metri, viene estratta a titolo dimostrativo dal cilindro nero che la racchiude ed è srotolata intorno alla galleria: è immediatamente danneggiata da uno spettatore indignato, il che induce Manzoni a tagliare la parte rovinata modificandone, con sovrana indifferenza, la lunghezza da 19,93 a 18,07 metri.

Manzoni, Linea lunga 9,95 m, 1959

Manzoni, Linea lunga 9,95 m, 1959

La Linea è un estremo concettuale straordinario, affidato a un’economia esecutiva ridotta all’essenziale. È un segno teoricamente illimitato, quindi tendente all’infinito dello spazio e del tempo (e di lì a poco Manzoni darà la Linea di lunghezza infinita, dismisura del pensiero) che nasce da un processo massimamente elementare ma è in grado di farsi, a tutti gli effetti, il segno, il differenziale plastico primo a ridosso del mentale, secondo un’intuizione cui rimandano già le prove precoci di Achromes in gesso, 1957-1958, ora al Kröller-Müller Museum di Otterlo, e, tra le altre, le consimili dei musei milanesi (Casa-Museo Boschi-Di Stefano) e dello Städtisches Museum Abteiberg di Mönchengladbach (4).

Se con le superfici acrome Manzoni è largamente in sintonia con il dibattito internazionale sulla monocromia, della quale è considerato uno dei massimi esponenti, le Linee indicano che la sua partita intellettuale è ancor più radiante e radicale.

Ben lo nota Vincenzo Agnetti, storico compagno di strada, che nel catalogo scrive: “Di fronte a queste opere scompaiono tutti i discorsi riguardanti la pittura, le transizioni e i cari ritorni: scontati sono il fascino mnemonico delle cose celebrate  e la didascalia storica tanto cara agli imbalsamatori” (5). Non si tratta più, ormai, di “non fare l’opera”, con tutto quanto ciò comporta, secondo uno slogan allora radicato, ma di conferire uno snudato statuto di esistenza e di presenza a un pensiero, perché, scrive ancora Agnetti, “Il tempo finalmente si è fatto visibile e contribuente anche nell’arte”.

Lipsanoteca da Santa Maria de Lillet, X sec.

Lipsanoteca da Santa Maria de Lillet, X sec.

È qui che Manzoni afferma un grado inaudito di indifferenza estetica, oltre che operativa, comportante anche che sia messo in mora lo stesso fondamento storico del “far vedere”, ovvero dell’instaurare un rapporto con il fruitore che transiti attraverso lo sguardo. Ciò si rende manifesto attraverso un approccio del quale l’autore non fa mai dichiarazione esplicita, ma che, subito intuito dal non benevolo recensore, è ben individuabile come costante nell’arco di tutto il suo percorso. Egli è sin da questo momento ben consapevole che il trasferimento simbolico di carisma dall’opera al suo autore si è definitivamente compiuto, e che dunque la sacralità che la società attribuisce all’artistico si identifica compiutamente con la figura dell’artista stesso. Legge, cioè, la mania collezionistica novecentesca, e la proliferazione di musei e raccolte private, in una chiave che la sua solida e cólta formazione cattolica – per tradizione familiare e per studi – gli consente di proiettare nell’ambito in cui la stessa storia del collezionismo ha avuto origine, il culto medievale delle reliquie.

La venerazione nei confronti dei resti fisici di martiri e santi è essenziale, in un’esperienza religiosa come la cristiana in cui sono cruciali il valore del corpo e quello del luogo. Il corpo santo, o l’oggetto sacrato dal contatto con il santo, assume un potere tale, compreso quello di compiere miracoli, da esercitare effetti benefici su chi entri in relazione con esso.

Ha scritto Werner Muenstenberger: “Texts by churchmen starting around the fourth century A.D. stressed that the remnants of saints and martyrs had dynamis (from the Greek force), and thus the ownership of relics as a reservoir of divine patronage was introduced (or more correctly reintroduced from pre-Christian religious faith) into the creed of the faithful. A pagan custom was adapted to the needs of the young Christian church, and the passions of preliterate peoples were tailored and built into the current religious credo. […] Dismemberment had almost always occurred, but now the division of corpses and the dispersal of the various parts to churches in many different places and to individual collectors became an accepted practice that grew into “an unruly passion”” (6).

Lipsanoteca dell'Ermita de Juanipablo, XI sec.

Lipsanoteca dell’Ermita de Juanipablo, XI sec.

La vicinanza fisica del fedele e l’omaggio reso alle reliquie si riverberano su di lui come effetti di tipo magico, con non banali implicazioni identitarie, il che comporta una vera e propria corsa all’accaparramento delle reliquie stesse: d’altronde ciò ha anche cospicue conseguenze economiche, sia collettive (ad esempio, a Compostela il ritrovamento delle spoglie ritenute dell’apostolo Giacomo Maggiore innesca sin dal IX secolo la tradizione della Peregrinatio ad limina Sancti Jacobi, tuttora ben viva; quando, nel 1194, un incendio distrugge la cattedrale di Chartres, la questione più urgente è accertare che non sia andata distrutta la camicia della Vergine che era stata tra i possessi di Carlo il Calvo e che rappresenta la fonte maggiore di introiti economici della chiesa), sia individuali, dal momento che la dynamis delle reliquie si riverbera sul suo possessore, asseverandone l’eminenza politica e sociale: nel 1520  Federico III di Sassonia giunge a possedere, a Wittenberg, ben 19.013 ossa di santi, cui si aggiungono tra altri mirabilia quattro capelli della Vergine e alcuni brani del suo velo su cui era schizzato il sangue di Cristo, un chiodo della croce, un pezzo delle fasce di Gesù infante e un ciuffo della sua barba da adulto, una manciata di paglia della mangiatoia di Betlemme, un frammento del pane dell’ultima cena (7).

Ora, vien da aggiungere, il meccanismo si è pienamente laicizzato, e la “unruly passion” che aveva caratterizzato il mercato medievale delle reliquie – fatto di spese e guadagni ingenti, furti, falsificazioni, furbizie e credulonerie, al punto che i collezionisti giungono “ad accogliere con gran devozione qualsiasi osso d’asino o di cane che il primo imbroglione abbia fatto passare per osso di martire” (8) e che tipico del collezionista stesso è che per lui “every new addition, whether found, given, bought, discovered, or even stolen, bears the stamp of promise and magical compensation” (9) – pare essersi rinnovata, ponendo l’artista, cui dal Rinascimento una tradizione tenace attribuisce una “divina forza” e un “divino ingegno” (10), nel ruolo di “santo” paganizzato.

Manzoni, Linea lunga 7200 m, 1960

Manzoni, Linea lunga 7200 m, 1960

Manzoni lavora sottilmente su questo punto, a partire da un fenomeno strettamente correlato al culto delle reliquie, che riguarda il costituirsi della vera e propria tipologia del reliquiario (11). Dalle ben trenta casse reliquiarie decorate in oro, argento o avorio, che nell’831 l’abbazia carolingia di Saint-Riquier vanta nel proprio inventario, alla coeva morigerata decretale De cura pastorali di papa Leone IV, che prescrive: “Non si ponga sopra l’altare nient’altro oltre la capsa con le reliquie dei santi”, l’elemento essenziale che l’autore intuisce è che la capsa è in se stessa oggetto d’esperienza devota, facendosi doppio autorevole del suo stesso contenuto. Non, naturalmente, l’aspetto di ricchezza visiva conta per Manzoni, ma il suo farsi contenitore prezioso per ciò che essa contiene, oggetto in se stessa di un atto di fede (che in questo caso è un purificato scambio concettuale) da parte del fruitore.

Il cilindro/capsa concepito da Manzoni si pone all’inizio di una genealogia non banale, che subito passa per Fiato d’artista, 1960, semplice palloncino gonfiabile riempito dall’autore stesso con il proprio respiro (12). Che si tratti, in entrambi i casi, di realizzazioni esplicitamente seriali e teoricamente illimitate – anzi, nel caso delle Linee, programmaticamente illimitate – ma non moltiplicate, secondo l’accezione che va diffondendosi giusto in quegli anni, in quanto tutte diverse tra loro, è un fattore pienamente nuovo, il quale solo in seguito verrà accolto con consapevolezza critica: in realtà sono manifestazioni di un’unica opera, perché frutto d’un’unica concezione che si replica in più attuazioni intimamente uguali, trascendendo i canoni interpretativi allora correnti.

Nel caso, poi, della Linea lunga 7200 m di Herning, 1960, Manzoni s’inoltra sulla via della monumentalizzazione, collocando l’enorme rotolo in un cilindro di zinco ricoperto da fogli di piombo recante la dichiarazione del contenuto in lettere lapidarie a rilievo. È evidente che l’autore implica qui un senso di incorruttibilità e di durata che amplifica la misura temporale connaturata all’idea stessa di linea. Inoltre Manzoni immagina a partire da ciò, e ne scriverà, di realizzare una serie di linee di lunghezza notevole da conservare sotto vuoto in contenitori d’acciaio inossidabile e da collocare in diversi punti del mondo, la cui somma equivalga quella della circonferenza terrestre (13).

Proprio la Linea lunga 7200 m incrocia l’esperienza delle Linee con un’altra pratica che ribadisce l’esercizio deliberato del potere di consacrazione dell’artista. Infatti, alla conclusione dell’operazione il rotolo massiccio, duecentodue chilogrammi, prima di essere calato nella sua capsa metallica viene contrassegnato da titolo, luogo, data, firma e da un’impronta digitale.

Manzoni esegue la Linea lunga 7200 m, 1960, foto Eva Sorensen

Manzoni esegue la Linea lunga 7200 m, 1960, foto Eva Sorensen

L’impronta digitale è, per antonomasia, il segno corporeo dell’identità e ha valore di firma. Quando il 10 giugno 1960 Manzoni presenta nella personale da Arthur Køpcke a Copenhagen le prime uova firmate dalla propria impronta (la realizzazione della Linea di Herning è del 4 luglio, dunque cade a pochi giorni di distanza), annuncia molto chiaramente che i due momenti concettuali sono strettamente intrecciati. Il 21 luglio 1960, l’evento Consumazione dell’arte dinamica del pubblico divorare l’arte, ultima iniziativa della breve vita di Azimut, chiude il cerchio. Esso consiste in centocinquanta uova sode marcate dall’impronta digitale dell’autore, dunque divenute insieme “sculture commestibili” e corpi che egli annette a se stesso (e quanto l’uovo sia la sorgente ancestrale dell’idea di corpo è fatto ben noto almeno dai tempi del filosofo greco Porfirio, secondo cui “l’uovo viene interpretato come il mondo” (14)), messe a disposizione del pubblico, il quale in settanta minuti le consuma tutte. I riverberi religiosi di questo ingerire un corpo altro (di “uova consacrate colla mia impronta”, scrive esplicitamente l’autore (15)),  sono, anche a una considerazione superficiale, evidentissime. Il meccanismo concettuale e simbolico prevede, nel caso dell’ingestione dell’uovo, divenuto con l’impronta un corpo equivalente a quello di Manzoni, che il fruitore assuma nel proprio corpo stesso una quantità fisica di artistico, partecipando compiutamente dell’esperienza dell’autore e della sacralità che gli viene riconosciuta.

La sequenza Uova scultura, ancora evocanti la suggestione della reliquia, Basi magiche, Sculture viventi, fa sì che Manzoni si inoltri lungo la via del trasferimento di carisma, artistico beninteso, ad altri corpi organici. Poi, “Nel mese di maggio del ’61 ho prodotto e inscatolato 90 scatole di “merda d’artista” (gr. 30 ciascuna) conservata al naturale (made in Italy)” (16).

Molto chiara è la strategia concettuale e operativa che Manzoni sintetizza a proposito dei due temi cruciali, l’identità e il corporeo, che qui s’unificano.

Reliquiario del Preziosissimo Sangue, Bruges, XIII sec.

Reliquiario del Preziosissimo Sangue, Bruges, XIII sec.

Nella parodia della conserva alimentare e nella decisione di offrire un aspetto della fisiologia dell’artista, debitamente dotato di certificazione come opera d’arte a pieno titolo, su cui poggia l’evidenza di Merda d’artista, 1961, tutti i filoni di riflessione e di invenzione su cui Manzoni sta operando si ritrovano dunque in sintesi estrema, e per certi versi inappellabile.

Merda d’artista è sorella perfetta delle Sculture viventi. Se le seconde toccano le sfere alte dell’identità, a cominciare dall’idea di corpo vivente come perfezione in se stessa, la prima scava all’estremo basso, quello del rifiuto, dell’innominabile, del disvalore, ma rendendo centrale il corpo stesso dell’artista.

I novanta esemplari hanno l’aspetto del prodotto confezionato, merceologicamente configurato. Alle Linee, che pure sono proposte nei loro contenitori sigillati, le associa il primato esclusivo dell’enunciato dell’artista, la garanzia della firma e della certificazione, un patto di fede con il fruitore. Il contenuto delle scatolette può essere tuttavia verificato solo danneggiando irreparabilmente l’opera, dunque distruggendone il valore (17): l’artista francese Bernard Bazile nel 1989 ha dato pubblica apertura, con un gesto a metà tra la performance e il rituale alla galerie  Roger Pailhas di Marsiglia, di uno degli esemplari di Merda d’artista, prestato dall’ignaro (e successivamente risarcito) Ben Vautier (18). È una sorta di scacco perpetuo, di situazione incontrovertibile di stallo mentale. E questa volta la capsa, il contenitore, si fa a pieno titolo sostituto del contenuto stesso, la cui veridicità è non solo inverificabile, ma irrilevante. Conta solo, ormai, il meccanismo del pensiero, l’agire concettuale di Manzoni.

 

Note. 1. L. Borgese, Il pittore che “crea” linee a metratura, in “Corriere della Sera”, Milano, 16 dicembre 1959. 2. Già due anni prima Borgese firmava, con lo pseudonimo Polignoto, il pezzo L’assurda gara tra arte e scienza in “Corriere d’Informazione”, quotidiano del pomeriggio del “Corriere della Sera”, 14-15 agosto 1957, dedicato al manifesto Per una pittura organica diffuso da Manzoni con Guido Biasi, Mario Colucci, Ettore Sordini e Angelo Verga, censurando la proliferazione dei manifesti artistici inaugurata dal futurismo. 3. Cit. in F. Gualdoni, Piero Manzoni. Vita d’artista, Johan & Levi, Monza 2013, p. 133. 4. G. Celant, Piero Manzoni. Catalogo generale, tomo 2, Skira, Milano 2004, pp. 416-417. 5. V. Agnetti, Manzoni, catalogo della mostra, galleria Azimut, Milano, 4 – 24 dicembre 1959. 6. W. Muensterberger, Collecting. An unruly passion, Princeton University Press, Princeton 1994, pp. 63-64. L’espressione “unruly passion” (“Passion désordonnée”) si legge in H. Delehaye, Les origines du culte des martyrs, Société des Bollandistes, Bruxelles 1912, p. 60. 7. In generale, cfr. il capitolo “Membra di martiri, se pur si tratta di martiri”. Arte e reliquie, in F. Gualdoni, Storia dell’arte europea, vol. I, Utet, Torino 2018, pp. 169-189. La citazione del titolo è tratta da Sant’Agostino, De opere monachorum liber unus. 8. Jean Calvin, Traité des reliques, Labor et Fides, Genève 2000, p. 22. 9. W. Muensterberger, cit., p. 13. 10. F. d’Olanda [Francisco de Hollanda], Della pittura antica (1548), in I Trattati d’Arte, a cura di G. Modroni, Sillabe, Livorno 2003, VII, p. 33 e XII, p. 42. 11. J. Kollwitz, Reliquiari, ad vocem, Enciclopedia dell’Arte Antica. Classica e Orientale, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma 1965. Il termine capsa indicava originariamente, nel mondo romano, il contenitore cilindrico di volumina, libri, oppure di oggetti preziosi. 12. “In un progetto precedente intendevo produrre fiale di “sangue d’artista””, scrive inoltre Manzoni in Alcune realizzazioni – Alcuni esperimenti – Alcuni progetti (1962), pubblicato nella rivista “Evoluzione delle Lettere e delle Arti”, n. 1, Milano, gennaio 1963, ora in P. Manzoni, Scritti sull’arte, a cura di G.L. Marcone, Abscondita, Milano 2013, pp. 86-88. È ben nota la tradizione di utilizzare reliquiari a fiala per conservare sangue (l’ampolla con il sangue di San Gennaro, l’ampolla di Santa Patrizia a Napoli, tra le altre: G. B. Alfano, A. Amitrano, Notizie storiche e osservazioni sulle reliquie di sangue dei martiri e dei santi confessori e asceti che si conservano in Italia e particolarmente in Napoli, Arti grafiche Adriana, Napoli 1951, censisce nella sola Italia 190 reliquie di sangue) o balsami (Sainte Ampoule a Reims). 13. “Ho potuto eseguire quest’anno UNA LINEA LUNGA 7.200 METRI (nella prima serie di linee, iniziata nella primavera del ’59 la lunghezza massima che avevo raggiunto era di m. 33,63): è questa la prima di una serie di linee di grande lunghezza, di cui lascerò un esemplare in ognuna delle principali città del mondo (ogni linea dopo l’esecuzione verrà chiusa in una speciale cassa d’acciaio inossidabile, rigorosamente sigillata, nel cui interno verrà praticato il vuoto pneumatico) fino a che la somma totale delle lunghezze delle linee di questa serie non avrà raggiunto la lunghezza della circonferenza terrestre”: Progetti immediati (1960), pubblicato in “Zero”, n. 3, Düsseldorf, luglio 1961, ora in P. Manzoni, 2013, cit., pp. 46-47. In realtà realizzerà solo, nel 1961, Linea lunga 1000 m e Linea lunga 1140 m collocate in contenitori metallici. 14. Cit. in Eusebio di Cesarea, Preparazione evangelica, a cura di F. Migliore, 3 volumi, Città Nuova, Roma, 2012, 3.11.45 e sgg. 15. P. Manzoni, 1961, cit. Il corsivo è mio. 16. P. Manzoni, 1963, cit. 17. Non è così per le Linee, il cui sigillo si presenta quasi sempre violato, in genere da doganieri sospettosi: ma ciò non modifica irreparabilmente il senso dell’opera. 18. F. Gualdoni, Breve storia della “Merda d’artista”, Skira, Milano 2014, p. 45. Sulla natura effettiva del contenuto della scatoletta, cfr. pp. 46-47.