Mirror Mirror, in “Fragile”, 4, Milano, 2018

I due maestri sono indubitabili. “E saratti a ciò conoscere buono giudice lo specchio, né so come le cose ben dipinte molto abbino nello specchio grazia: cosa maravigliosa come ogni vizio della pittura si manifesti diforme nello specchio. Adunque le cose prese dalla natura si emendino collo specchio”, ammonisce Leon Battista Alberti. E Leonardo da Vinci: “Lo specchio di piana superficie contiene in sé la vera pittura in essa superficie; e la perfetta pittura, fatta nella superficie di qualunque materia piana, è simile alla superficie dello specchio; e voi, pittori, trovate nella superficie degli specchi piani il vostro maestro, il quale v’insegna il chiaro e l’oscuro e lo scorto di qualunque obietto”.

Jeppe Hein, Mirror Labytinth, NY, 2015

Jeppe Hein, Mirror Labytinth, NY, 2015

Lo specchio è illusione ma fedeltà alla visione, dunque è il doppio per eccellenza dell’arte stessa: doppio suadente ma, insegna il mito di Narciso, pericoloso, doppio che rappresentato pittoricamente genera a sua volta mises en abyme concettose.

Poi, nel ‘900, quando la ragione della visione d’arte non è più legata a presunzioni naturali, la sostanza del doppio rimane: doppio deviante, Magritte in testa, che determina radianti illusioni ulteriori: Michelangelo Pistoletto, Bob Morris, Robert Smithson, Dan Graham, Jeff Wall, Yayoi Kusama, Larry Bell, Anish Kapoor, Olafur Eliasson, eccetera. Il piano d’esperienza procede per slittamenti continui. Implica la luce, la moltiplicazione sino al collasso visivo, la deriva topica – tutte condizioni annunciate da Giovanni Anceschi e Davide Boriani nell’Ambiente multidimensionale a programmazione aperta 1966 nella pionieristica “Kunst-Licht-Kunst” al VanAbbemuseum di Eindhoven – ma soprattutto la proposizione di una nuova condizione percettiva, l’azzeramento della distanza tra riguardante e cosa guardata, l’implicazione necessaria e criticamente attiva del fruitore. Che è un avveramento del “metteremo lo spettatore al centro del quadro” boccioniano, ma implicante la dimensione esistenziale stessa, una sorta di appercezione totale che attiva ulteriori condizioni di pensiero.

Daniel Rozin, Angles Mirror, 2013

Daniel Rozin, Angles Mirror, 2013

Su questa linea di riflessioni, ma con la souplesse tipica del postminimalismo e senza farsi avvincere da tentazioni di spettacolarizzazione, si è posto il lavoro di Jeppe Hein (Copenhagen 1974, vive a Berlino): “In my view, the concept of sculpture is closely linked to communication. Rather than passive perception and theoretical reflection, the visitor’s direct and physical experiences are more important to me” afferma. E gli specchi “alter and question our perception of our surroundings and ourselves by increasing and multiplying the heterogeneity of a space for example. Mirrors make us reflect on our own presence by addressing our physical and mental experience of an environment and our position within it. Viewers become aware of the limitations as well as the possibilities inherent in the act of looking. So, my mirror installations always refer to the presence of the visitor and the artwork in the space asking the audience: Why are you here? What are you doing here? How do you observe artwork and space? How are you observed by artwork and space?”

Caso molto più complesso è quello di Daniel Rozin, (Gerusalemme 1961, vive a New York) che giunge allo specchio da un punto di vista puramente concettuale, che indaga la struttura stessa e la materialità delle immagini. Rozin definisce se stesso “a digital-interactive artist” e utilizza medium diversi, dal digitale alla scultura statica e cinetica, per esplorare la ragion d’essere fondamentale dell’idea stessa di specchio, e le modalità di restituzione della complessità di un fenomeno che, ormai conficcato nella coscienza collettiva, appare scontato: “Mirrors are one of man’s earliest technological inventions and they have been loaded with meaning and myth from the beginning. Mirrors have often been thought as objects of evil and many superstitions are linked to them. Sometimes overlooked in the search for important technological developments, I believe that no other invention has had a more profound impact on the way people perceive the world around them, and more importantly the way they perceive themselves. Mirrors have the ability to let us observe ourselves in the same manner we observe others; this is in complete contrast to the way we experience our being internally, which is a highly subjective process”.

Matteo Negri, Greetings from Mars, 2018

Matteo Negri, Greetings from Mars, 2018

Più giovane, Matteo Negri (San Donato Milanese 1982, vive a Milano), organizza situazioni costruite pienamente stranianti, in cui l’aspettativa visiva di una shape geometrica viene minata dall’elemento unificante e insieme straniante della luce diffusa – era rossa nell’installazione Greetings from Mars, 2018 – che non modifica solo la percezione degli oggetti ma la propria situazione esistenziale in rapporto a essi. Le sagome, a loro volta, manifestano proprietà diversamente illusorie, dal translucido/specchiante all’assorbenza del metallo polito.

Negri fa smarrire la visione, le sottrae gli assi intellettuali. Opera, come nel bridge, uno squeeze, perché chi si ponga in condizione di fruizione deve scartare ciò che gli sarebbe d’utilità adattandosi a un disagio che, se accolto, altro può far avvenire nella sua esperienza.  In realtà lo sguardo è, da subito, fisicamente inadeguato. Negri chiede, senza possibilità d’elusione, che chi guarda si pensi guardare, rimugini e assapori il proprio corpo posto nella situazione e la propria mente che, accettata la messa in mora dei suoi sistemi d’orientamento, si sottoponga alla fatica fastosa d’un altro, consapevole, guardare.