Absolute Painting. Giorgio Griffa, Tomas Rajlich, Jerry Zeniuk, ABC-Arte, Genova, 4 maggio- 14 settembre 2019

“Bisogna ricordarsi che un quadro, prima di raffigurare un cavallo in battaglia, una donna nuda o un aneddoto qualsiasi, è in primo luogo una superficie piana ricoperta di colori assemblati con un certo ordine” (1), aveva scritto Maurice Denis già nel 1890. E poco prima Paul Sérusier aveva dipinto il leggendario Le Talisman, che proprio Denis possiederà per molti anni.

Giorgio Griffa, Segni verticali, 1971

Giorgio Griffa, Segni verticali, 1971

È, quello, il primo momento in cui la pittura intuisce che la questione non è nemmeno un astrarre possibile rispetto alla sua tradizione iconografica stratificatissima, ma molto più: è pensare la pittura in quanto pittura, il dipingere in quanto atto autofondato e autosufficiente. Si delucida qui, è stato scritto, ciò che mutatis mutandis apparve chiaro già ai tempi d’esordio dei Carracci, “una nuova coscienza, che è coscienza critica dell’operare. Nasce qui, insomma, una concezione eminentemente critica dell’atto creativo” (2).

In altri termini, la raison d’être della pittura non è il suo cosa (il rappresentato), e neppure il suo come (la presunzione di stile), ma il suo essere in se stessa un cheiropoieton assoluto (all’opposto del mito dell’acheiropoieton, la fissazione per misteriose vie metafisiche dell’immagine di Cristo “non fatta da mano umana”, quindi fondativamente autentica perché non artificiosa), una cosa fatta dalle mani dell’artista e nascente dal processo lucido di scrutinio intellettuale del suo stesso essere pittura.

Tomas Rajlich, Untitled, 1972

Tomas Rajlich, Untitled, 1972

Cioè qualcosa che trascende la teoria stessa, si fa posizione che scarta dalle genealogie certificate, per molti versi se ne sottrae ad altro mirando, a un’operazione pittorica che possa dirsi, in se stessa, assoluta.

Ciò vale per i pochi, tra gli esponenti della stagione straordinaria degli anni settanta, il cui percorso non si esauriva nella New Abstraction, nutrita di un “conceptual approach to painting”, già intuita nel 1963 da Ben Heller (3), peraltro fondata sul valorizzare l’aspetto di mentalizzazione dei processi (4), e non si poneva più il problema dell’astrazione non oggettiva e neppure quello, a sua volta per certi versi già ampiamente esplorato, della monocromia (5), ma ad altro puntava.

In questa occasione si presenta l’opera di tre pittori il cui percorso pluridecennale trascende, pur mantenendosi fedele alle scelte di fondo, le contingenze specifiche di quella che è stata variamente indicata come “Analytische Malerei”, “Geplante Malerei”, “Fundamental painting”, eccetera, che pure li ha visti protagonisti (6), in cerca d’un altro valore possibile di assoluto.

Jerry Zeniuk, Untitled n°65, 1977

Jerry Zeniuk, Untitled n°65, 1977

Essi sono Giorgio Griffa (1936), Tomas Rajlich (1940) e Jerry Zeniuk (1945). Generazionalmente, questi artisti maturano nella stagione in cui il non rappresentare non è più in questione, ma non ammettono nemmeno che l’oggetto pittorico possa ridursi ad algido esercizio dimostrativo di un pensiero altrimenti allogato, secondo la declinazione del concettualismo che tende inizialmente a prevalere. Il loro fare pittura si vuole esperienza effettiva, piena, coinvolgente la loro totalità fisica e intellettuale, priva ovviamente d’ogni tensione irrazionale di Nervenkunst ma intesa come momento effettivo di auscultazione profonda delle materie, dello spazio, del tempo specifico in cui si danno i fatti pittorici.

A proposito di Griffa, ben si avvede di tale consapevolezza Paolo Fossati sin dal 1968, in occasione della sua mostra di debutto: “Comunque lo si interpreti, dipingere è un atto gratuito: sia come assieme concettuale di atti, che come norma d’azione, che, infine, come presenza fisica […]. Una tela di Griffa è campita sino ad un certo punto, irregolarmente, poi torna a proseguire nuda: né la tela né il colore possono spiegare alcunché. Anzi, qui, incontrandosi, si combinano per rifiutare ogni significato: congiunti svuotano ogni lettura semantica, restituiscono il proprio gioco di reciproca attrazione all’astrazione della propria ideazione” (7). Lo stesso artista ribadisce pochi anni dopo: “In realtà invece la stessa differenza fra linea e colore è illusoria perché dipende soltanto dalla larghezza del pennello o dal modo di appoggiarlo sulla tela. E se ne deriva una forma, questa non è altro che il risultato del senso e della durata delle pennellate. Il mio lavoro dunque consiste soltanto nell’appoggiare il colore dentro alla tela” (8).

Giorgio Griffa, Verticale, 1978

Giorgio Griffa, Verticale, 1978

Nel 1982, poi, Griffa presenta “Matisseria” e altri lavori, ciclo in cui “la concentrazione del proprio orizzonte operativo nel punto-limite in cui l’immagine pittorica si dà nella sua genesi primaria, nell’interstizio significativo “in cui le relazioni non sono ancora rappresentazione”. E ancora, la scarnificazione estrema della componente di fattura, della possibilità di gesto (“appoggiare il colore dentro alla tela”), regolata da una neutralità che si erige a norma generale”, passa a tele in cui “la composizione per piani di colore, scandita da sensuosi ritmi lineari, di Matisse affiora sulla tela di Griffa come trama (tutta in superficie, proiettata virtualmente, come d’abitudine) di relazioni tra segni/colori caldi, che hanno acquisito addirittura spessori di trepida suggestione, assestati secondo organici andamenti orizzontali: l’arancio dei segmenti curvi, i verdi delle stesure piane, gli azzurri e i violetti delle chiazze con la portante rossa, ancora un azzurro e un motivo curvilineo” (9). I monemi del pittorico, proiettati nella loro essenza storica, sono il fondamento dell’idea stessa di pittura, che si declina ora in Griffa per corsi che si fanno anche apertamente, e non meno lucidamente, poetici, e che lo conducono alla sontuosa stagione presente in cui abita ancora il possibile della bellezza.

Nel 1975 si inaugura allo Stedelijk di Amsterdam la mostra “Fundamentele schilderkunst : Fundamental painting”, in cui figurano tra gli altri sia Rajlich sia Zeniuk (10).

Rajlich proviene da attenzioni non banali per l’acromia di Piero Manzoni, del quale evoca la strutturazione a griglia riquadrata, in sé priva di intenti significativi, della superficie, e già nel 1971 manifesta un radicalismo in chiave di interrogazione ultimativa al processo e al linguaggio pittorico (11). Anch’egli muove da un intendimento tutto fisico della materia pittorica, decantata in essenza, che riconosce naturalmente il suo spazio vocazionale nel supporto pittorico, che si fa luogo d’accadimenti precisi, distillati, a un alto e agguerrito grado di mentalizzazione e di interrogatività: è ragionamento critico sulla pittura nell’atto stesso del fare pittura. È anche, il suo, un atteggiamento a-disciplinare, nel senso che, liberata della pastoia storica di tutti i suoi “dover essere”, la pittura può pensarsi come esperienza perfettamente irrelata e altrettanto perfettamente sufficiente a sé.

Tomas Rajlich, Untitled, 2018

Tomas Rajlich, Untitled, 2018

Anche Rajlich ha alle viste, come i fratelli maggiori di Azimuth e del gruppo Zero, un grado zero. Ma il suo è un atteggiamento da subito fortemente construens, che non si arrocca entro il terrorismo ideologico dei teoricismi e mira a stillare, dei fondamenti del pittorico, i suoi succhi più puri. A prescindere dalle letture che allora se ne danno sulla scorta delle contestualizzazioni mondane, da subito i gesti pittorici dell’artista prendono a tessere una nuova trama esperienziale, “un mondo di sogni, pensieri e azioni che non si può facilmente spiegare in punta di logica” e che s’identifica nella castità perfetta del dipingere (12).

E vi riappare il colore, per tocchi avvertitissimi, sotto forma di tautocromia, affermazione di se stesso per se stesso, che già nel 1993 può far scrivere: “Il colore, colpeggiato in cadenze brevi e avvertitissime, occupando di sé la totalità dell’immagine è sottratto a ogni logica strumentale, compositiva, e a ogni gerarchia linguistica: è, e si dà, per sé, in quanto sostanza stessa del vedere, dell’immagine: in quanto luce” (13), sino a una plenitudine che coinvolge l’idea stessa di luce associata, nella nostra cultura, al sentimento del colore e alla vertigine soprannaturale.

Dall’idea di spazio/colore muove per altro verso Jerry Zeniuk, che dopo gli esordi newyorkesi di presenta in Europa con una personale da Peccolo a Livorno nel 1974. L’idea di monocromia da cui egli muove alla metà degli anni settanta prevede una stratificazione intensa di pigmenti e cera, poi di colori a olio, stesa con meticolosa ma non indifferente regolarità, di cui lasciare in vista gli aspetti di processualità e di interrogazione sistematica (memorabile fu Untitled Number 57, 1976, esposto l’anno dopo a “Documenta 6” (14)) ma mirando a definire un clima cromatico sospeso, un tono portato ai limiti del disagio sensibile. Da fine decennio, trascorso il tempo della stringente definizione d’area che lo inquadrava, ecco la modalità dei tocchi pittorici tramarsi in modo più sensibile rispetto all’evidenza uniformante delle pennellate, dapprima immettendo sottili declinazioni di un tono tendenzialmente unico, poi stratificando tonalità diverse e saturando comunque lo spazio della visione. Fondamentalmente, ciò che da allora gli importa veramente è rendere evidente la coincidenza tra il massimo di esecuzione pittorica e il massimo di riflessività, ma sempre tenendosi a distanza da suggestioni come l’oggettualità della “cosa pittorica” e ragionando sulla qualità fondativa della bidimensionalità: “In the last hundred years many painters have experimented with the limits of the plane that contains the image. In logic, something cannot be true and untrue at the same time. In painting, no matter how three-dimensional something is, it wants to be flat and planar – or it shifts into the realm of sculpture […] Painting is true to the plane” (15).

Jerry Zeniuk, Untitled, 2005

Jerry Zeniuk, Untitled, 2005

La questione alla base è quella del come vedere, della qualità e della ragione del vedere: “If you study painting, you see more. It is not that your eyes have gotten any better, rather it is because you have thought about and reflected on what you have seen. Seeing is a kind of visual thinking”.

Dunque, egli ha assunto la superficie del pittorico nella sua decantata accezione storica, come luogo in se stesso fisico di accadimenti, e rendendo la stesura delle taches una sorta di processo regolare stabilito in cerchi e punti di diversi colori, dimensioni, intensità, gradi di accuratezza, che instaurano una complessa dimensione spaziale sulla tela, in taluni casi di estensione smisurata (16).

Non c’è progettazione preventiva, semmai una sorta di concentrazione pittorica definitiva che si esprime senza mediazioni: “Color releases emotions, and the pictorial space is a non-judgmental place that frames and contains these emotions so they may give access to a universal understanding. A masterpiece never seems to have been painted, but rather to have always existed”. Ed è una presenza concreta e insieme mentale, fisica e insieme emozionale. Soprattutto, è un’esperienza definitiva, puramente sostantiva, “timeless and timely”.

In questi autori, Griffa, Rajlich, Zeniuk, dunque, l’esperienza critica della pittura nell’atto stesso del fare pittura, libera ormai da ogni zavorra teorica e disciplinare, mira a distillarne e ritrovarne l’identità sorgiva, il grado di autonoma, indefinita ma precisa, flagranza.

Essa è l’assoluto, o meglio un’idea di assolutezza (se non si voglia utilizzare, più pianamente, il termine pertinente ma più equivocabile di bellezza) che costeggia umori filosofici senza farsene portavoce, condizione snudata in una interrogatività che giunge far risuonare una sorta di diapason interno, totalmente irrelato, del dipinto.

Note 

1. “Se rappeler qu’un tableau – avant d’être un cheval de bataille, une femme nue ou une quelconque anecdote – est essentiellement une surface plane recouverte de couleurs en un certain ordre assemblées”: M. Denis, Théories 1890-1910, III ed., Bibliothèque de L’Occident, Paris 1913, p. 1. 2. A. Emiliani, La tecnica di Annibale e di Agostino nel periodo bolognese, in Les Carrache et les décors profanes, Actes du colloque de Rome (2-4 octobre 1986), École Française de Rome, Roma 1988, p. 6. 3. Toward a New Abstr10action, catalogo della mostra, a cura di B. Heller, The Jewish Museum, New York, 1963. 4. Già Ad Reinhardt, Twelve Rules for a New Academy, in “Art News”, vol. 56, n. 3, maggio 1957, pp. 37-38, 56, scrive: “Everything, where to begin and where to end, should be worked out in the mind beforehand”. 5. Per un discorso complessivo cfr. D. Riout, La peinture monochrome, édition revue et augmentée, Gallimard, Paris 2006. 6. Un eccellente repertorio di quella stagione è I colori della pittura, catalogo della mostra, a cura di I. Mussa, Istituto Italo – Latino Americano, Roma 1976. 7. P. Fossati, Griffa tra empiria e funzionalità, in Giorgio Griffa, catalogo della mostra, galleria Martano, Torino 1968. 8. Giorgio Griffa, catalogo della mostra, testo dell’autore, galleria Claudio Bottello, Torino, aprile 1975. 9. Giorgio Griffa. “Matisseria” e altri lavori, catalogo della mostra, testo di F. Gualdoni, galleria Martano, Torino, 1982. 10. Fundamentele schilderkunst : Fundamental painting, catalogo della mostra, a cura di E. De Wilde, testo di R. Dippel, Stedelijk Museum, Amsterdam, 1975. 11. Tomas Rajlich, catalogo della mostra, a cura di H. Paalman, Schiedams Museum, Schiedam, 1971; Tomas Rajlich, catalogo della mostra, a cura di H. Locher, Haags Gemeentemuseum, Den Haag, 1971. 12. P. Peters, Struktura nebo poesie?, in Tomas Rajlich : Kesby / Drawings : 1965-1976, catalogo della mostra,  Galerie Zámek Klenová, Klatovy, 1997. 13. F. Gualdoni, Pitture di Rajlich, in Tomas Rajlich. Opere 1969-1993, catalogo della mostra, a cura di F. Gualdoni, P. Peters, Nuovi Strumenti, Brescia 1993. 14. Testi fondamentali sulle opere di quel periodo sono A. Pohlen, Jerry Zeniuk: Malerei, in “Kunstforum International”, 35, mai 1979, e Jerry Zeniuk. Bilder. Paintings. 1971-1989, catalogo della mostra, a cura di S. Salzmann, Kunsthalle Bremen, Kunstmuseum Winterthur, 1990. 15. Questa, e le citazioni successive, si leggono in J. Zeniuk, How to Paint, a cura di H. Liesbrock, Sieveking, München 2017. 16. Jerry Zeniuk Paintings: Not for your living room, testi di A. Klar, J. Daur, L. Romain, E. Bergner, P. Forster, Kehrer, Heidelberg 2014. Nel 2001 a Mainz l’artista ha realizzato un dipinto di quattro metri per otto, ad esempio.