“Più in disparte stava Davico”, in F. Gualdoni et al., Mario Davico, Allemandi, Torino 2019

1. Quando l’8 marzo 1950 Mario Davico si presenta con una mostra personale alla galleria La Bussola annuncia che il tempo della sua maturazione è compiuto.

Davico, Grande composizione (Meccanicità), 1949-50

Davico, Grande composizione (Meccanicità), 1949-50

L’esposizione giunge alla fine di un triennio in cui l’artista ha cercato se stesso e il proprio ubi consistam nella stagione forse più difficile dell’arte italiana del ‘900 e nella città in cui è più netta, per profilo e qualità dei protagonisti, la contrapposizione tra opzioni radicalmente diverse. La Composizione con cui si presenta nel 1948 al neonato “Gran Premio Saint-Vincent per le Arti figurative”, organizzato da Luigi Carluccio (le collezioni del Castello Gamba, Châtillon, possiedono ora una notevole Composizione dell’anno successivo) e quelle con cui partecipa nello stesso anno alla XXIV Biennale di Venezia, indicano già con sufficiente chiarezza l’orizzonte dei suoi riferimenti e delle scelte.

Si tratta di vere e proprie astrazioni, ovvero di prosciugamenti del sensibile in cui un ruolo primario svolge un costrutto lineare retto da fluenze curvilinee prevalenti, non prive d’accenti dinamici. Davico sembra, qui, agire per equivalenze plastiche precise attorno a un’idea di certezza spaziale alla quale, ora, non intende derogare, mentre ampiamente divaga dal somigliare: s’incrociano in questo momento echi lontani del fare meno compitante di Fillia e, soprattutto, l’intendimento allora non scontato del Picasso del “bone period” (1) – dunque non l’alibi dei postcubismi assortiti – e del rastremarsi d’un figurare altro nell’ambiguità fervida tra costruzione grafica d’autonoma tensione e planarità asseverate da echi d’ombra, traccia figurale e trascorrimento visionario, economie cromatiche imperniate su un medio dominante e brevi accensioni di tono.

Non si tratta che d’una indicazione, forse un po’ più che suggestiva, su cui impostare riflessioni non banali. Non per imbastire una filologia stucchevole ma per avvertire come, a prescindere dell’acerbità e da talune genericità degli esiti, Davico abbia un ben precisato parti pris.

Davico, Senza titolo, 1949

Davico, Senza titolo, 1949

Posto che le vicende tutte dell’immediato secondo dopoguerra indicano che l’ampiezza e il margine di equivoco insiti nell’accezione di astrattismo fan giusto il paio con lo spettro di valori attribuiti a quella di realismo, grande è la confusione sotto quel cielo, ma la situazione è, il nostro ben avverte, tutt’altro che eccellente. Che figure come Spazzapan e Moreni, pur grande riferimento amicale di Davico, possano far davvero da alternativa al magistero tardo e ispido di Casorati, è prospettiva non certo eccitante, comunque si scelga di propendere. Che la pressione ambientale e latamente intellettuale spinga a schieramenti in cui plurimi fattori d’eteronomia entrano in gioco (il “potere culturale”, gli antagonismi generazionali, affiliazioni più o meno espressamente politiche quando non ideologiche (2)) è evidente.

2. Davico, ben sapendo a cosa sta sottraendosi, decide di mantenere il proprio rovello, i propri dubbi, i propri ragionari su un piano del tutto diverso, appartato, introverso: distante, non assente.

La certezza è che il punto di non ritorno dell’arte nuova, ben oltre lo stratificarsi di volontarismi intellettuali, è la liberazione dei valori pittorici dal vincolo d’aspettativa dell’iconografia: i valori intimi, essenziali del pittorico, dunque non il semplice mutar d’abito del sensibile in virtù del teatro grammaticale della geometria, ma il tentare la via d’una visione altra fondata su un “disegno, commensuratio et colorare” che del mondo, d’un mondo siano pronuncia, non imitazione, dunque visione di cose effettivamente mentali e generatici in sé di senso, altre da ogni implicazione mondana.

Davico sa da subito che la “rappresentazione della realtà di pensieri astratti, invisibili” di cui scrive Max Bill in un testo chiave del dibattito pittorico italiano (3) ha un orizzonte d’intendimento ben più ampio del rigorismo geometrico di cui molti si fanno vessillo, e che lo spirito sotteso a un testo fondamentale, e certo ben meditato dal nostro, Kn di Carlo Belli, ha una portata ben più ampia del mero riformulare termini stilistici (4), volendosi in effetti porre come tensione a far “quadri che non rappresentano nulla, ma che, a guardarli, procurino un vero riposo per lo spirito” (5).

Davico, Composizione astratta 1, 1949

Davico, Composizione astratta 1, 1949

Ciò comporta, in Davico, assecondare la propria naturale disposizione. Vivere attivamente le cose del mondo, ma da un “a parte” che gli consenta un distacco critico ed emotivo inflessibile, che non lo invischi in questioni di engagement e di parenesi, che gli consenta i tempi vitali della riflessione, della maturazione delucidata e convinta di posizioni, silenziando le urgenze e le interferenze del mondo.

Porre, soprattutto, in campo la centralità potente, definitiva dell’immagine rispetto al suo stesso farsi tramite mondano della personalità dell’autore, dunque ben intuendo quanto del romanticismo deteriore si agiti ancora nelle pieghe dell’avanguardia – e l’art autre s’avvia a darne dimostrazioni ulteriori – e quanto invece di quel retaggio possa e forse debba rimettersi in circolo, soprattutto il senso dell’Unattainable (6), infinitezza e non dismisura, sublime non nominalistico ma fatto sostanza interrogativa di pittura.

Davico partecipa a manifestazioni e premi – è nel 1947 in “Arte Italiana d’oggi – Premio Torino” a Palazzo Madama, due anni dopo alla “1ª mostra internazionale degli Art Club” all’Unione Culturale, alla “3ª Mostra internazionale Arte d’oggi” alla Strozzina di Firenze, e in quello stesso 1949 è premiato alla “Mostra nazionale d’arte contemporanea” di Asti, ad esempio – ma da una posizione che non chiede e non vuole consentire apparentamenti di circostanza nel magmatico astratteggiare dei tempi, che rivendica il fondamento incoercibile del proprio precorso tessuto di premesse scrutinanti e aspettative orgogliose. Non gli mancano certo le attenzioni, a cominciare da quella tempestiva di Giusta Nicco Fasola nel catalogo della mostra fiorentina (7) ma, nota con perfetta e precoce sintesi Tristan Sauvage riassumendo la scena torinese, “più in disparte stava Davico”(8): che è, al di là delle contingenze, insieme scelta d’esistenza e determinazione d’opera.

3. La personale del 1950, dunque. Essa non è solo quella del debutto, ma di un presentarsi convinto dell’artista nella condizione ideale, un corso compatto d’opere in cui la sua posizione, la consistenza problematica del suo approccio, il suo fare concentratissimo e quasi monacale, si ritrovano pieni, fatti concretezza di pittura e clarté d’immagine: quadri nati per esser convincenti, non eloquenti.

Davico, Musicalismo, 1951

Davico, Musicalismo, 1951

Alla Bussola allinea dipinti come Meccanicità n. 2, 1949,  Composizione astratta n.1, 1949, Architettura meccanicistica n. 1, 1949-50, Architettura meccanicistica n. 2, 1949-50, che porta anche alla XXV Biennale di Venezia, Composizione astratta n. 2, 1950,  l’unica che deroghi dal predominio evidente d’un meccanismo costruttivo schiarito (8).

Con “temperamento cautissimo” e “avveduta responsabilità” – così Albino Galvano, figura autorevole e intellettualmente tra le più ricche del tempo, nel breve viatico alla mostra (9) – lavora edificando un congegno plastico precisatissimo sul piano della costruzione, nel dominare di ascendenti verticali (ribadite dalle dimensioni marcate del dipinto) e nel prosciugarsi di curve e orizzontali brevi a far da accenti: e se Galvano dice di “nostalgia di remote cadenze gotiche”, è piuttosto nell’architettare severo e asciutto della musica bachiana che paiono potersi trovare i riferimenti mentali più diretti.

Davico tutto riporta a una frontalità serrata e forte, ora. Non articola equivalenti oggettuali ma una spazialità fisiologicamente assertiva, che la suggestione della qualità meccanica e architettonica amplifica. Il suo non è “astratteggiare”, non un levare ma un porre, con ripensata certezza, coagulando un’immagine “controllata, contenuta, aliena da sensualità”, scrive Galvano, agente “attraverso quel riserbo, attraverso la scarnitezza di quelle stesure magre, di quegli accostamenti piuttosto gustati come suggestione cromatica che come suggerimento spaziale”.

Il calvinismo coloristico di cui Davico fa ora mostra indica chiaramente che egli ne affronta le responsabilità pittoriche con cautela estrema, con consapevole pudore intellettuale. Non ha, beninteso, l’ubbia del colore: in questa fase va piuttosto compiendo il guado complesso che lo sottragga al teatro della sensibilità e della seduzione e lo rivendichi a sua volta come distillata pietra da costruzione della visione.

Quanto conti il riconoscimento di Braque alla Biennale del 1948 come non secondario padre fondatore della tradizione moderna è ben evidente nell’intonazione mediana, rastremata, introversa della dominante: per Davico la questione è, subito, non sfruttare l’autonomia di senso del colore, quanto comprenderne le implicazioni profonde, la ragione sorgiva.

4. È questione, per Davico, soprattutto di etica. Che è, in lui, rispetto fondamentale per l’operare e per l’opera: essa non è mai intesa come prodotto della sua personalità, di una singolarità talmente irripetibile da volersi edificante e perciò exemplum pubblico, ma come esito fondamentale e inevitabile d’un processo la cui condivisione può essere solo intima e avvenire tra “intendenti”, per dire all’antica: non iniziatica non esclusiva, ma intellettualmente e affettivamente impegnativa. Il suo è un dire individuale che ammette all’esperienza altri individui (vien da citare Cézanne: “Non posso accettare il giudizio illegittimo di colleghi ai quali non ho dato io stesso il compito di valutarmi”) riconosciuti interlocutori effettivi.

Per questo il suo “luogo buono” è lo studio stesso, quello in cui l’artista esercita la gioia elaborante della riflessione e del fare, quello nella cui atmosfera concentrata e confidente l’opera nasce e in cui ha senso che esista.  […]

Note. 1. C. Zervos, Pablo Picasso, esce peraltro da Hoepli, Milano, nel fatidico 1937 di Guernica, pubblicandone alcuni esempi. 2. Sul clima torinese del tempo sono letture utili  il classico capitolo Astrattisti e concretisti a Torino in T. Sauvage (A. Schwarz), Pittura italiana del dopoguerra (1945-1957), Schwarz, Milano 1957; Pittori a Torino negli anni ’50, catalogo della mostra a cura di G. Mantovani, Museo Civico di Casa Cavassa, Saluzzo, marzo 1980; Arte a Torino 1946/1953, catalogo della mostra a cura di M. Bandini, G. Mantovani, F. Poli, Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, 30 maggio – 17 luglio 1983; P. Levi (a cura di), Le arti visive in Piemonte 1945-1952, Elede, Torino 1999. 3. M. Bill, Pittura concreta, in “Domus”, 206, Milano, febbraio 1946. 4. In modo assai pertinente Franco Fanelli imposta la propria lettura di Davico (Tra effusione e rigore. Una traccia internazionale per una pittura assoluta, in Mario Davico all’Accademia Albertina, catalogo della mostra a cura di G. Mantovani, Accademia Albertina di Belle Arti, Torino, 6 maggio – 19 giugno 1994, Franco Masoero, Torino 1994) a partire dalla frase di Kn “La forma deve scaturire dall’idea e non dal concetto” posta in esergo. 5. O. Licini, Lettera aperta al Milione, in “Il Milione”, 39, Milano, 19 aprile-1 maggio 1935. 6. Notevole in questo senso l’approccio di G. Mantovani, Per Mario Davico, in Mario Davico all’Accademia Albertina, cit. Qui si impiega deliberatamente, e per suggestione, il titolo dell’opera di Arshile Gorky The Unattainable, 1945, ora al Baltimore Museum of Art. 7. 3ª Mostra internazionale Arte d’oggi, catalogo della mostra, testo di G. Nicco Fasola, Palazzo Strozzi, Firenze, giugno 1949: e sono proprio i sottoscrittori fiorentini del manifesto Astrattismo classico diletti dalla studiosa, Berti Brunetti Monnini Nativi Nuti, a rivendicare “la pertinace mediatezza della nostra opera, la sua pensosità, ma soprattutto la nostra volontà di una completa espressione, la nostra classicità”: in T. Sauvage, cit. 8. Si indicano qui i titoli assunti come definitivi tra quelli utilizzati nel tempo da Davico, maturando dal più ordinario Composizione a Immagine e ad Architettura, concentrato in questo momento piuttosto sull’idea di Meccanicità. 9. Mario Davico, testo di A. Galvano, pieghevole della mostra alla galleria La Bussola, Torino, 8 – 20 marzo 1950: vi è riprodotta un’opera Senza titolo, 1949.