Postilla per Renzo Ferrari, in Renzo Ferrari. Rabisch. Opere 2003-2019, Galleria La Colomba, Lugano, 16 marzo – 23 aprile 2019

Questa serie di dipinti di Renzo Ferrari, una sorta di cavalcata rimuginante negli ultimi quindici anni del suo lavoro, dice molto del suo pensare, e fare, pittura.

Renzo Ferrari, Stilleben neige, 2007

Renzo Ferrari, Stilleben neige, 2007

Sino a che punto, egli si chiede, ha senso ormai praticare la Falsche Sprache rituale della pittura quando, come scrive Chuck Palahniuk, “nessuno di noi ha più una lingua madre”, quando, avverte un altro scrittore, Don DeLillo, non c’è vera differenza tra “le tue idee, o un grafico al computer delle tue idee”, ed è in dubbio la verità stessa dei significati a prescindere dalla loro falsificabilità per trasformarli in senso?

Ferrari viene da lontano, si è liberato delle estetiche e vive lo spazio del dipingere come, ha scritto egli stesso, “luogo di precarietà e di squilibrio esistenziale”. Dunque coagula figure di contraddizione, di conflitto, corrodendo e smembrando brandelli di rappresentazione, parificando figure e inserti verbali (del resto, sin dal Medioevo in Francia “escrire” significa comunque, come negli strepitosi fitti ossessivi taccuini di Ferrari, tracciare, disegnare, dipingere) in una sorta di dismisura compositiva che segue il tempo dell’urgenza digrignante dell’interrogazione, della sovversione dell’enunciare.

Un tempo le forme sapevano un’identità, ora dubitano esse stesse di un’esistenza possibile, di un sussistere che non sia quello pericolante in cui si vedono qui costrette: ma qui sono, comunque, impure e radianti come segni primitivi, rayonnants della propria rabbiosa determinazione a scardinare.

Renzo Ferrari, Per Hodler, la notte, 2018

Renzo Ferrari, Per Hodler, la notte, 2018

Ferrari agisce in pittura picchi di concentrazione esistenziale, senza blague e senza cinismi, lavora continuamente dicendosi, con l’Eliot della Waste Land, “Son of man, / You cannot say, or guess, for you know only / A heap of broken images”, continuando però a sapersi “son of man”, e a rivendicare una responsabilità d’artista anche assistendo all’apocalisse della modernità.

Il suo percorso in questi anni non è, beninteso, né ideologico né si ammanta di intenti predicatori. Il suo estremo e feroce interrogare l’immagine sino a renderla in un’espressività retta dalla pura movenza energetica e dissolutoria dei gesti, che si danno per materie aspre e brillanti, combuste ma non domate, non è che un modo altro di testimoniarne la specifica deriva, assorta in una nerità irrevocabile ma tesa su una non vinta capacità vitale.

Il cambio di registro che egli affronta riguarda il non chiedersi più come debba e possa porsi la pittura di fronte al mondo, ma quale sostanza e verità del mondo la pittura sia in grado ancora di intuire e pronunciare. E pratica una sovversione che non è del far vedere, ma una mimesi discrepante delle fattezze stesse del mondo, come decifrandone le faglie, i punti di frattura intrinseci.