Other Lights
Other Lights, in “Fragile”, 3, Milano, 2018
Quando Georges Claude presenta a Parigi nel dicembre 1910 i suoi primi tubi al neon, Pablo Picasso sta tenendo una grande e ancora scandalosa mostra personale da Ambroise Vollard. E quando nel 1913 sui Champs-Élysées viene collocata la prima scritta pubblicitaria luminosa, “Cinzano”, tutto si può immaginare ma non certo che questo sia l’annuncio di una modalità che l’avanguardia artistica futura utilizzerà a fondo.
Il tubo al neon è solo una innovazione tecnica, diventa un elemento decisivo del panorama urbano – ne fa un largo e precoce uso “ideologico” Fritz Lang in Metropolis, 1927 – e sostanzialmente si identifica con la comunicazione pubblicitaria a scala ambientale. Solo gli anni cinquanta, nel tempo delle prime incursioni offmediali da parte della ricerca più avvertita, portano a un intendimento diverso: il neon è un segno luminoso che galleggia nello spazio fisico, e la sua flessibilità operativa consente di piegarlo a concezioni radicalmente differenti. Il pioniere, è ben noto, è Lucio Fontana, il quale nel secondo dopoguerra riflette sulla luce come possibilità di reificazione del segno mantenendolo perfettamente immateriale: è così la struttura al neon per lo scalone d’onore della IX Triennale di Milano, 1951, e sono così ambientazioni successive come il Soffitto spaziale per il cinema del padiglione Sidercomit alla XXXI Fiera di Milano, 1953, il lampadario del 1959-1960 per il cinema Duse di Pesaro, il vasto soffitto Fonti di energia per “Italia 61” a Torino.
Di poco successivi sono gli esperimenti, che ben possono definirsi pre-pop, dell’Electric Dress di Atsuko Tanaka, 1956, e della Chair di Robert Watts, 1962. In seguito, solo Dan Flavin, Keith Sonnier e per altri versi François Morellet concepiscono il neon in senso propriamente plastico, come elemento in grado di disegnare e strutturare lo spazio qualificandolo dal punto di vista luminoso, mentre altre pur nobili esperienze, da Bruce Nauman a Mario Merz, da Joseph Kosuth a Martial Raysse a Maurizio Nannucci, ne assumono piuttosto l’originaria chiave comunicativa, assumendone e straniandone l’aspetto grafico, scritturale, o di sintesi iconica elementare d’istinto pubblicitario.
Tra le generazioni della postmodernità il fenomeno si riproduce senza soverchie variazioni. Tracey Emin, Martin Creed, Robert Montgomery non si avventurano oltre i confini dell’utilizzo scritturale, di cui possono esplorare reinterpretazioni più complesse in un orizzonte ora ben diverso dal punto di vista delle tecniche di luce e ben più ampio da quello delle possibilità di contaminazione. La coreana Jung Lee opta per ambientazioni naturali in cui le scritte, spesso schegge di testi famosi, assumano una forma di straniamento poetico, di cui dà conto in immagini fotografiche di forte carica suggestiva. Glenn Ligon agisce, da perfetto postconcettuale, assumendo come ormai assodata la presenza di scritte al neon ambientate in territorio artistico, dunque cita non lo spazio urbano ma il codice artistico stesso e i suoi rituali piegandoli a una comunicazione brusca, nutrita di una identità insieme afro-americana e gay sentita e, da par suo, risentita: esemplare era A small Band, all’ingresso del Padiglione centrale della Biennale di Venezia 2015, con la scritta Blues Blood Bruise. Ligon è un caso raro di impegno civile che non suona, come troppo spesso oggi accade, alibi o abito pubblico, e che diventa cifra stilistica appropriata quando anche il neon è dipinto di nero come accade in America, che nel 2011 ha dato il titolo alla personale dell’artista al Whitney.
Su un piano strettamente plastico operano, tra i più giovani, lo statunitense James Clar e il cileno Iván Navarro, rispettivamente classe 1979 e 1972. Clar agisce da tempo nell’ambito di un compiuto utilizzo delle nuove tecnologie in installazioni complesse, in cui sempre più spesso al neon si sostituiscono, com’è storicamente naturale, i più duttili leds. Le antiche riflessioni sulla fisicità dei segni si fanno, ora, operazioni sempre più in bilico tra realtà fisica e vitualità, tra sostanza e apparenza: la mostra “False Awakenings” da Jane Lombard a New York, 2016, ne ha offerto un repertorio cospicuo.
Navarro, assumendo taluni aspetti delle esperienze d’arte cinetica, a cominciare dalla mise en abîme ottica nei lightboxes (esemplare è stato Death row, che ha esposto alla Biennale veneziana del 2009), riparte direttamente da Flavin per stabilire algide situazioni spaziali di qualità tutta luminosa.
Non era questione di neon, in se stesso, per Fontana, e men che meno lo è per questi artisti. L’unica misura necessaria è quella dello spazio, e della luce che autonomamente lo qualifica.