Antonio Violetta. Torsi e altre storie di scultura, Galleria Clivio, Milano, 30 novembre 2011 – 30 gennaio 2012

Quando nel 1982 Antonio Violetta presenta a Documenta 7 di Kassel Momenti di pietra e Cieli, già chiarito è il suo approccio alla scultura. Rispetto alle cronache dell’arte, egli dichiara una sua orgogliosa, inflessibile inattualità, il rifiuto di quello che il Guy Scarpetta de L’artificio indica come “un godimento che non rimanda a una natura, o a un’autenticità, ma a un deliberato gioco, un cerimoniale consapevolmente accettato, uno scatenamento delle forme esibite”, convinto com’è non solo che siamo alla “fine dell’‘epoca moderna’ e, con lei, dell’idea di ‘arte moderna’” (Octavio Paz), ma che ciò consente a un autore di concentrarsi fruttuosamente su un sistema di valori a tutti gli effetti essenziale.  Rispetto al tempo lungo della necessità della scultura, gli importa la primarietà atavica della forma, il ripensare i suoi meccanismi genetici interni, l’irrelatezza che non sia negazione – del figurare, dell’astrarre, del porsi in rapporto a – lungo la via impervia dell’enunciazione di una purificata raison d’être.

Violetta, Kölner Seite,1985

Violetta, Kölner Seite,1985

La sue Pagine, annunciate nel 1985, tra altre opere, dal Monumento alla Shoah per la Stazione di Bologna, ed esposte alla Biennale veneziana del 1986, sono i primi frutti altissimi della sua prima maturità. Esse mediano la divaricazione estrema tra l’idea di bidimensionalità e la consistenza della materia, i suoi comportamenti, le movenze che la animano, le crescenze capaci di risentire l’urgere e il fluire silenzioso della terra che si dice; proclamano un rapporto dell’autore con il fare che non è controllo ma atteggiamento meditativo, lentezza determinata, sottrazione retorica senz’appelli, auscultazione feroce e amorevole del sentirsi fare; esplorano una formatività impreventiva ma, all’esito, un compimento delucidato e indispensabile.

È un fare che non esiste per dichiararsi, ma un fare che s’interroga poeticamente sul fare, che elegge la terra e la scultura a “patria elettiva” nel senso che all’espressione attribuisce Ernesto De Martino, luogo appropriato di pratiche e di assunzioni simboliche non sempre scrutabili.

Poi viene il tempo secondo, quello in cui Violetta si pone definitivamente, a proposito di formatività, la questione del corpo e della sua intrinseca idea di naturalezza. Che è, ben ha insegnato Hans Arp, la ragione sorgiva del primitivismo scultoreo, l’identità fastosamente radiante di una cultura prealfabetica che vede e ripensa l’altro attraverso la sua consistenza fisica, e gli fa scrivere: “Non vogliamo riprodurre, vogliamo produrre. Vogliamo produrre come una pianta che produce un frutto e non riprodurre. Vogliamo produrre direttamente e non transitivamente”.

I Torsi di Violetta sono fratelli minori, nell’anima, di quelli del grande alsaziano, come, per intenderci, il Torso, 1931, il Torso preadamico, 1938, e l’Omaggio a Rodin, 1938, con cui questi traccia, insieme alla Concrezioni umane, la sua ultima straordinaria esperienza. E dire, giusto per cronaca, che a quel tempo ancora il mondo non conosceva la Venere di Hohle Fels paleolitica e il fasto ambiguo delle incisioni graffite che ne percorrono i volumi, di cui Violetta ha compreso ben in profondo la ragione.

Violetta, Torso, 2015

Violetta, Torso, 2015

Violetta ripensa un primitivo che non sia quello tribale celebrato dalle vulgate dell’avanguardia, bensì quello dei “nativi europei”, che tocca anche lo schema del volto/identità con tutto quanto ciò comporta sul piano del busto come doppio possibile del vivente, o della memoria del vivente, o dell’idea sola di vivente: e d’una bellezza straniata ma viva.

La questione della referenzialità è ridotta, qui, a risonanze formali meravigliate, inglobata nel passo di una crescita della forma che risponda solo a se stessa, al proprio fluente metamorfico esistere nello spazio, coagulandosi in un esemplare momento/pausa della propria sostanza materiale.

Scrive l’artista: “Segni grafici e fratture, solchi e tagli sono le impronte che emozione e pensiero lasciano nelle opere. In alcune le impronte diventano tracce simboliche e tendono alla ricerca della bellezza attraverso forma ed equilibrio”.

Il pensarsi fare e la memoria lunga della storia artistica – che è per lui non un patrimonio avvertito come normativo, ma un semplice repertorio di choses vues ripensate – contano molto, ma ancor più conta il momento decisivo del fare.

Conta la materia umile e potente, che è quella biblica del creare (“Come argilla nelle mani del vasaio / che la modella a suo piacimento / così gli uomini nelle mani di colui che li ha creati”: Siracide 33, 13). Conta il silenzio sospeso, assaporato, confidente dello studio, la condizione che Charles Baudelaire diceva di “méditation poétique”. Conta la concentrazione assoluta, che induce l’artista a smemorarsi, a farsi pienamente complice e paredro della terra.

E le mani sanno che l’arte è molto più semplice, ma insieme definitivamente più estrema, di un raziocinio. Per questo Violetta fa, letteralmente fa, scultura.