Anime della carta, in “Fragile”, 2, Milano, 2018

Centrare il lavoro sulla carta è qualcosa più che una contraddizione disciplinare. Ragionare della sua alterità, nello spettro che tocca corde come la privatezza dello studio, la non ufficialità e la provvisorietà rispetto alla presenza dell’oggetto artistico, il collocarsi a ridosso del teorico e del processo inventivo all’atto del suo definirsi, è stato un fattore cruciale della stagione concettuale. Ne sono stati maestri diversi Alighiero Boetti, il più lucido e poetico nello straniarla da se stessa pur concependone un uso appropriato sino al punto di rottura e di contraddizione, e Hidetoshi Nagasawa, sistematico nel rivendicarla come luogo della levità in seno a un progetto complessivo fondato sullo scacco all’aspettativa della fisicità dei materiali, del loro peso, della loro stabilità formale; e per altri versi, al trascolorare del concettualismo, il più giovane Stefano Arienti.

Amorales

Amorales

Poi, allo schiudersi delle praterie postconcettuali, ecco la carta rivendicata infine come materia in se stessa, dotata di caratteri e vocazioni, che senza snaturarsi si fa materia complessa, creativamente radiante.

Angela Glajcar (Mainz 1970) opera in una dimensione essenziale, poeticamente postminimal, che comporta una dose altissima di complicità con il materiale, fisica e intellettuale: “A sheet is two-dimensional, but with many sheets, I can work with the whole room and achieve an entirely new meaning and effect”. Sono opere individuate in cui i codici convenzionalmente più sedimentati dell’idea che abbiamo del foglio, la regolarità geometrica della forma e la tensione superficiale, nel processo si fanno secondari rispetto alla solidità apparente dei volumi, rispetto alla precisione pericolante delle sagome. Oppure sono installazioni in situ, che sfidano i connotati caratteristici del luogo come escludendoli in favore di un involvimento profondo dello sguardo nell’intimità dell’opera: non ostensione nello spazio fisico, ma operazione che rende protagoniste le dinamiche solo qualitative della forma estetizzata: “It is always a matter of lightness and heaviness – interior and exterior space – bright and dark”.

Pippa Bacca (Giuseppina Pasqualino di Marineo, Milano 1974-2008), scomparsa prematuramente, muove invece in modo deliberato da atti tecnicamente elementarissimi. Opera su visioni lievi e su un immaginario femminile non ideologico e invece umanissimo, profondo ben al di là della delicatezza ludica del suo agire, che funge come velo arguto.

Il suo cutout deliba una voglia di grazia infantile, ma scava in profondità su strati densi della psiche e dell’anima. Le opere della serie Mater Matuta, dea dell’alba e del generare, richiamano strati atavici e una Grande Madre che si fa Madonna, così come Eva, 2004, Eden, 2004, Sirene, 2005, sono varianti d’un pensiero acuminato, nella sua svagatezza apparente, e inflessibile.

Li Hongbo

Li Hongbo

Di un uso domestico e antiretorico della carta si appropria diversamente Carlos Amorales (Mexico City 1970), che adotta una tecnica a sua volta elementare ma per realizzare trentamila falene e farfalle di carta nera di trentasei tipi diversi che invadono, letteralmente, lo spazio espositivo – Black Cloud è il titolo dell’installazione – facendo slittare la lettura dall’apparente fragilità e dall’umore poetico a una sorta di claustrofobia allarmata e allarmante. Amorales non è interessato alla carta in quanto tale – c’è chi ne ha fatto invece una vera e propria specializzazione, tra la decorazione funzionale e l’esibizione tecnica, come Jeff Nishinaka o Emmanuelle Moureaux, tra altri – ma ne sfrutta l’equivalenza profonda con il nostro figurarci la farfalla (e la Danaus plexippus, la monarca, che egli cita, nell’America settentrionale e in Messico è “la” farfalla per antonomasia) immediatamente contraddicendolo per farne una portatrice di nerità, condizione anomala sia della farfalla sia della carta.

Li Hongbo, infine (Jilin 1974), riparte dalla tecnica secolare a nido d’ape impiegata nella fabbricazione di ghirlande di carta popolari in Cina: ancora una volta, come per il cutout, si tratta di un patrimonio sorgivo e comune. L’artista realizza in questa tecnica degli equivalenti di brani plastici celebri, dei quali simula la riconoscibilità immediata  come marmi o ceramiche, e in ogni caso la forma serrata e stabile. In stato di riposo la scultura cela il proprio trucco, che è la facoltà di metamorfizzarsi rivelando la propria vera mobile, paradossale, sorprendente anima, la disposizione ad assumere un numero variabile e impreveduto di ulteriori instabili forme possibili.

Per tutti questi artisti anima profonda del lavoro non è snaturare la carta spingendola a essere altro da sé, ma intenderne la ragione identitaria più profonda oltre il limite del rettangolo bidimensionale e della superficie candida in odore di teoria, i connotati essenziali con cui la nostra cultura se l’è sempre figurata.