Forgioli
Forgioli. Il disagio del colore, Mazzotta, Milano 1986
È difficile il percorso per chi, come Forgioli, cerchi identità e intensità della propria fisionomia d’arte, sul volgere finale degli anni Cinquanta. Formalismo, segno, gesto, superficie, organico, esistenziale… la terminologia problematica degli anni è ricca e ambigua, avverte il punto del non ritorno in cui trascolora il modello storico d’avanguardia fondativa, propositiva – il salto è proprio il salto nel vuoto di Klein –, e soprattutto la grande figura di coscienza della corrispondenza con la storia, con il corpo della società, con il tessuto della cultura.
Per chi, generazionalmente, abbia in sospetto e uggia gli astratti furori di vicende e polemiche dell’immediato dopoguerra, altri sono i luoghi dove interrogarsi su ethos e responsabilità, sulla possibilità di ritrovare un’immagine consistente di senso, su un linguaggio riconosciuto ormai come mediatezza assoluta, e pura introversione soggettiva, esente dalle facilonerie retoriche e dagli alibi espressivistici che anche l’area onnivora dell’informale offre.
Picasso e Bacon, Gorky e De Staël, Wols e De Kooning: la scommessa è un approccio elusivo della storia e della cronaca che si vuol scrivere sulle loro esperienze, un approccio che miri al cuore della questione: cioè, all’ossessione di un formarsi, di un esistere in immagine, che sia nucleo materiato germinante in uno spazio altro, dotato di fisiologia forte, precisa; che non sia trascrizione stilistica, e neppure enfasi del grido, ma prender forma di una realtà specifica secondo modi autonomamente necessari, a partire da un’esperienza del mondo aggrumata in nucleo critico d’emozione.
Questo il giovane Forgioli intuisce, agendo fin d’allora da solitaria aspra, ostica figura in seno a una generazione milanese singolarmente fertile (Adami Colombo Dadamaino Fabro Olivieri Pardi Romagnoni Vago Valentini…) che dai primi anni Sessanta fornisce risposte assai diverse al grande dubbio del poter essere della pittura, dell’arte. Non si dà maestri in senso genealogico. D’altronde, è un valore testimoniale che cerca nell’arte, non l’esemplarità, non il modello. Guarda anche al passato con intento né ortopedico né polemico, con asciutto amore. Il barocco, ritrovato proprio in quegli anni, la lontananza dei cieli veneti, l’Ottocento francese umile e potente, la concrezione emotiva del segno di certe avanguardie novecentesche… Tutto fonde, lucido ed esente da intellettualismi, in un progetto di figura che si vuole fin dall’inizio notomia estrema della forma pittorica, sedimentazione sensoriale, e sensuosa anche, di spessori emotivi entro i fantasmi accertati del vedere/pensare l’immagine. (E quanto conta il suo ragionamento sulla fotografia, sull’iconografia bassa e stereotipa, sul processo del vedere moderno che si origina già in artificio, per filigrana di generi tecnici e mediali, e deve, in pittura, ritrovare altri gradi d’autenticità? Troppo spesso il codice generoso di “naturalismo” inganna, ove di naturalità intrinseca si tratta, a partire dalla perdita del mondo).
Il pastello è tecnica sovrana, per lui. Serra le figure in spessori, in grumi, in veli di luce e tensioni di linee, come impronte svuotate di fisicità e restituite per via di qualificazione forte, nel colore. Le prime prove compiute sono di chi cerca una qualità sintetica dello spazio, ridotta a nuclei aspri di visione, retta tutta da grafie che si determinano per intensificazioni continue e sovrapposte. È come il vuoto di Giacometti, lucido, analitico, espressivamente concentrato e iperdeterminato, metafisicamente elementare. Poi, tra Parigi e Berlino, 1962-1963, ecco gli affogati nella Senna, di cui scriverà con semplicità inquietante più tardi, e altre visioni dure, assordate, concrezioni d’orrore livide e senza luce.
S’affila già, in questi lavori, uno dei caratteri primari di Forgioli, la reticenza introversa, meglio, la renitenza all’apparato retorico del dire, agli abbigliamenti dell’angoscia. S’indigna per la storia, certo; il suo engagement è limpido e incoercibile: ma è tensione di coscienza, proiezione di visionarietà muta, che non contratta con la realtà, né ha speranze e proclami da lanciare: è, piuttosto, ironia digrignante, che alla notte della ragione (ragione storica, e pittorica) contrappone il proprio sguardo caustico da lontano, la propria separatezza consapevole e mormorante, la propria capacità, anche, di dolcezze stremate.
Cézanne, figura mitica di rigore scarnificato ma sensuale, e Van Gogh, attore principale del dràma dell’alterità colata in pittura, sono le radici lontane del suo agire, parametri d’autenticità e d’atteggiamento, di volontà di senso.
Paesaggi e paracadutisti, anno 1965, valgono da fase cruciale di crescita. Il condensarsi centripeto, quantitativo anche, dell’immagine, trova le movenze della tarsia fratta, del segno breve e ansimante, continuamente irritato. Potrebbe dispiegarsi, lasciar fluire il talento, il lievitare profondo del colore. Invece, ostinatamente si ritrae, si assetta in rapporti ossosi di bianco calcinato, di grigio imperlato e acidulo, entro le maglie del carboncino che s’appoggia con lenta, risolutiva determinazione. Anche il colore, capace di rosa e azzurri e verdi e violetti, è solo sussulto, accentuazione continuamente affiorante, ma in minore, senza sottigliezze d’eleganza e fastoso protagonismo: non l’epidermide abbagliante è in gioco, ma lo stremato ritrovarsi del senso dentro queste materie d’immagine. Altri paesaggi, poi le isole. Grigi, verdi, gialli inestetici rilevano da una sintesi spaziale che è tutta grafica, struttura rattratta entro una griglia artificiosa, che lascia al foglio la sua alterità, la sua qualità di luogo teorico della mediazione.
Il cerchio, figura ricorrente in seguito nel lavoro di Forgioli, oppure il riquadro, oppure ancora una semplice portante orizzontale: e pochi tratti topici a dar corpo a un paesaggio, a una visione che è, ancor più che in precedenza, sussulto di tensione analitica ed emotiva, concentrata più sul problema del figurare che su una qualsiasi possibilità stilistica della figura. Per lunghi filamenti fibrosi, oppure per tacche nate da crampi manuali brevi e potenti, il colore si dispone non a stendere i tegumenti sensibili dell’apparenza, ma a scavare una corporeità propria dell’immagine, la sua autentica qualità plastica, come smagrita, disseccata, per via di sedimentazioni stratificate di materia.
È un passaggio importante, che segna gli ultimi anni Sessanta. Non la stereotipizzazione estroversa della pop, che danna un’intera generazione, né le rarefatte astrazioni concettuali, ed extramediali, lo tentano. Anch’egli vive drammaticamente la fine della modernità, ma non pone mai in discussione la propria fedeltà alla “signora pittura”, con tutte le implicazioni di moralità, di ethos espressivo, che ciò comporta. Neppure, però, si richiude nei bamboleggiamenti dei sussulti tardoesistenziali, e nelle nostalgie equivoche di qualità antica, che paiono per molti una risposta. Radicalizza, anzi, il proprio laicismo, il proprio rigetto di ogni alibi ideologico e strumentale. Si mantiene legato ai termini di genere, paesaggio e natura morta soprattutto, ma rinunciando anche a quel tanto di castelletto significativo che il tema pur comporta.
Il visibile è tutto, in sé, banale, assenza di senso, la cui possibilità è d’innescare la visionarietà silenziosa dell’artista, le sottili capacità di sommovimento inventivo e poetico che stanno dentro il suo processo pittorico. Né preoccupa Forgioli la perdita di senso presunto della visione sensibile: non è questo il dramma: è, invece, il riemergere dell’immagine a un vedere che sia tutto qualità di pittura, trama fitta e ambigua d’intensità e stupefazioni, di coaguli non provvisori dell’unico senso, in arte, possibile. È il momento in cui egli maggiormente sconta il proprio non intellettualismo, la propria complessione renitente all’esemplarità, all’eloquenza, all’alto sentire. Il suo tragitto perde ogni aggancio con la lettura per teoriche in voga, si ritrae entro un alveo in cui si può penetrare correttamente solo rinunciando al bagaglio delle idee chiare e distinte, in cui le regole del gioco son solo il dubbio, l’autenticità, e quella cosa difficilissima chiamata disponibilità alla poesia.
Altre isole, come lontane mammelle, prendono a galleggiare nei suoi spazi assenti, poggiate su orizzonti atopici. Sono l’inizio di quel pensare sistematico per serie tematiche – tanto più insistite quanto più, di fatto, svalutative del soggetto – che caratterizzerà di poi tutto il lavoro di Forgioli. Il 1970 è l’anno in cui affiorano qualità meno ostiche del colore, in cui i viraggi disagiati s’intricano con episodi di sensualità struggente, come di un eros continuamente premente sotto lo scavo ancor più serrato delle forme, della loro nudità espressiva. Estranei organismi verticali (isole che saranno poi, dal 1973, bistecche, e poi frutti, scarpe, montagne, indifferentemente), i suoi motivi sempre più si dispongono a essere gangli ossessivamente fitti di colori filamentosi, in continua dissonanza grafica e tonale, in cui rosa e azzurri soprattutto offrono sussulti di splendore straniato alle cadute spossate degli ocra, dei violetti, dei grigi, dei verdastri svarianti.
Forgioli non ha il problema di dover progredire. La sua scelta linguistica non è di quelle che presuppongono sviluppi, concatenati mutamenti e affinamenti interni.
Consistenza e durata dell’immagine sono i suoi unici esiti, da attingere per via di filtro rigoroso, di ripensamento e avvertimento continuo di ogni momento dell’agire pittorico, che non consentono deroghe alla coscienza poetica.
Lavorando in uno stato di messa in scacco del visibile e delle sue simbolizzazioni, diffidando della bella maniera e della bella materia, egli opera nel differenziale tra il tempo lungo, minuzioso, del risentimento mentale ed emotivo della crescita dell’immagine, e la velocità risolutiva, senza astuzie, del fare, del vederla prender corpo fantasmatico di pittura, sul foglio: dove, pudicamente, la qualità artigianale si fa puro strumento, si pone al servizio di una purezza concettualmente e formalmente trasparente, senza ansie neppure di purismo.
C’è molto lavorio, ed evidente, in questo processo di coagulo. Ma non è questione di fattura. Gli atti del fare, del ritrovare evidenze sensibili, sono per Forgioli funzioni proprie di un pensiero che opera su un piano di autonoma concretezza, di esperienza indissolubilmente concepita e agita. Altri temi. Vedute di città, come il residence, o il Teatro Burri, o l’Arco della Pace, brani di una Milano vissuta ma mai veramente ammessa come paesaggio; oppure della Sicilia, e di Vieste, con quelle tacche di grigio affocato, con quell’orizzonte senza geografia. Soprattutto, montagne, anticipate fino a far saltare ogni schema di rappresentazione, fino a divenire puro accadimento delle materie reticenti del colore.
Tra la fine dei Settanta e gli ultimi anni, il lavoro di Forgioli è saporosamente tarlato da tensioni divergenti, in apparenza. Il verde imputridito, il giallo solo alitante di certe Londre, di certe montagne, di certi frutti; oppure lo sprigionarsi erotico e carnale dei carmini, dei viola, dei rosa, di certi melograni, di certi nudi sussultanti, di certi recentissimi interni.
Non c’è polarità. La sensibilità guadagnata da queste immagini, la consistenza di realtà pittorica meditata ormai raggiunta, sono patrimoni talmente acquisiti da non dover neppure render conto di sé, da non dover più chiedere il permesso di esistere. Forgioli, ormai, può concentrarsi esclusivamente sul clima dell’immagine, sull’auscultazione profonda dei suoi umori, restituendone il coagulo potente e le sottili, devianti alterazioni armoniche, nella naturalezza definitiva del proprio fare.