Il nuovo re di Francia, in “Il Giornale dell’Arte”, 385, Torino, aprile 2018

Dunque, le notizie fresche che provengono dalla Francia sono due, anzi tre. La prima è che il presidente Macron  invita a colazione alcuni direttori di museo – da noi, per inciso, quando mai s’è visto? – e si fa spiegare bene la questione del Met che ha messo online free download quattrocentomila immagini di opere ad alta definizione: una nuova gara per il primato artistico è cominciata, è il retropensiero, se io metto online più opere degli altri perché ne ho di più faccio un’operazione culturalmente commendevole, ho pochi costi per mancati introiti e in cambio faccio un gran bel figurone da mecenate digitale. La seconda, a corollario, è che la ministra Françoise Nyssen alla colazione manco l’hanno invitata, talmente impalpabile e ondivago è il suo pensiero (ma forse pensiero è una parola forte) intorno ai beni culturali. Dunque, dopo l’effetto Abu Dhabi il nuovo re di Francia è proprio uno che vuole capire bene come si possono utilizzare ancora le opere d’arte per farsi belli agli occhi del mondo. Senza giri di parole melliflui, ha lanciato il ballon d’essai del prestito dell’arazzo di Bayeux, e poi è subito partita la rumba delle rumbe: la Gioconda sia il nostro ambasciatore nel mondo.

La Gioconda a Washington, 1963

La Gioconda a Washington, 1963

Del resto, considera il nuovo napoleoncino, qualche viaggio la bella signora l’ha pur fatto, in passato. Nel 1963 John Kennedy fece a De Gaulle a un dipresso il seguente discorso: noi vi abbiamo liberato durante la guerra mondiale, ora ci restituite un po’ del favore dimostrando che l’Europa la possediamo noi alla faccia dell’Unione Sovietica (la crisi dei missili cubani si era appena verificata), e noi desideriamo, anzi felpatamente esigiamo, che ci prestiate la Gioconda, che per un francese è come dire che ti deve far uscire con la sua morosa e dimostrarsi pure contento. Il vecchio generale e il suo fido ministro Malraux, naturalmente, obbedirono. Fu un colpo mediatico assoluto.

Non per caso l’anno dopo il Vaticano faceva sbarcare all’Expo di New York la Pietà di Michelangelo: accidenti, si dissero tutti, gli U.S.A. sono proprio i padroni del mondo, ordinano al delivery capolavori à la carte, e ai Russi niente.

Nel 1974 la Gioconda riparte un’altra volta, ora per Tokyo. Pompidou è appena morto, Giscard d’Estaing non ancora presidente, ma les affaires sono les affaires e dietro la gita della tavoletta leonardesca si stanno tessendo accordi economici e politici d’altro genere di peso pazzesco. Stavolta ai Russi girano davvero e dicono che la vogliono vedere anche loro, altrimenti niente corridoio aereo per trasferirla. Sono i soliti cafoni arroganti, poi sono brutti sporchi e cattivi, ma un po’ d’affari con gente che ha materie prime a go go (e in ogni caso anche bombe atomiche a portata di tiro) val comunque la pena di farli. Dunque, tappa pure a Mosca.

Poi basta. Ma mica perché alla politica i capolavori non sono più serviti, bensì perché la cultura del restauro e della conservazione si è fissata su parametri meno elastici e meno interpretabili, e la Gioconda bella è bella, ma sana neanche un po’. Dunque stia ferma non un giro, diagnosticano, ma per sempre.

Ora arriva Macron e si dice: perché De Gaulle e Pompidou sì, e io no? E poi cos’è questa storia che io sono quello che comanda, ma devo subire un veto da parte di un funzionario qualsiasi? Che era, poi, la cosa che faceva imbufalire anche il bulletto toscano che comandava da noi, quello che voleva bucherellare gli affreschi di Vasari per inseguire il fantasma di Leonardo e non si capacitava che qualcuno potesse dirgli di no, e poi fece mettere il burka di cartone alle statue ignude dei Capitolini perché sennò Rohani arrossiva per il pudore, poverino.

Solo che Macron è un bel po’ più bravo e sottile. Da buon economista pensa che sia uno spreco che un capitale come la Gioconda, simbolico ma ben monetizzabile, non renda nulla, lancia il sasso di trasformarsi nell’agenzia-viaggi della medesima ma subito con i funzionari della cultura si mette a interloquire, si mostra sollecito, molto sopisce e poco tronca. Non può perdere questa occasione propizia. Con in giro arnesi come Trump, che al massimo la Gioconda se l’appenderebbe in salotto con attaccato il cartellino del prezzo, la May e la Merkel che, da come vestono, è chiaro che son tipi che manco si accorgono se alle pareti sono appesi dei quadri, Putin che con ogni evidenza  predilige le bellezze femminili giovani e che respirano a quelle in due dimensioni e troppo morte, accreditarsi come un gran protettore delle belle arti è un gioco da ragazzi. Un po’ di campagna mediatica non gestita da dilettanti, e mandare in giro la Gioconda, e l’arazzo di Bayeux, e chissà cos’altro come ambasciatori della grande cultura tra poco ci verrà spacciata come una sollecitudine e una benemerenza culturale.

Magari ha ragione lui. Le opere d’arte, diciamo da Pericle in poi?, sono sempre servite alla politica, e alla religione, diciamo da Niccolò V?, quando si è fatta politica. Oggi la politica è nuda economia e quindi, pensa il Macron, al quale dell’arte frega niente proprio come a tutti gli altri, è giusto che anche la Gioconda guadagni la pagnotta per sé e per i suoi proprietari senza che le sue balie, quei mangiapane a tradimento dei funzionari e dei restauratori, facciano troppo gli schifiltosi e si mettano di traverso. Basta offrire in giro qualche carota, e far intravvedere giusto un po’ che hai in mano un bastone.