Luca Lanzi. Malìa, in Luca Lanzi. Malìa. Sculptures and Drawings, a cura di Gudrun Schmidt-Esters, Keramion, Frechen, 27 maggio – 19 agosto 2018

“Après avoir été le moyen de création d’un univers sacré, l’art plastique fut principalement, pendant des siècles, celui de la création d’un univers imaginaire ou transfiguré”. Si può ripartire da qui, dalle meditazioni di André Malraux in Le musée imaginaire, per inquadrare la posizione intellettualmente lucida ed espressivamente viva che Luca Lanzi ha assunto nel proprio operare.

Luca Lanzi

Luca Lanzi

Ha assunto alcuni luoghi comuni retorici dell’arte – in primis l’equivalenza sostanziale tra immaginario infantile e immaginario magico in quanto entrambi frutti di un’età innocente, e la non meno stereotipata idea d’un primitivo che si pone in alternativa ai saputi formali occidentali – esplorandoli criticamente sino a ritrovarne una sorta di sorgività incontaminata, senza esotismi d’accatto e senza captazioni emotive furbesche. Ha lavorato sull’onda lunga della divaricazione tra cose, immagini delle cose e discorsi sulle cose sino a sintetizzare una trasfigurazione che su tali differenze fondi la propria stessa ragion d’essere, il proprio progetto di qualità.

Lanzi ha distillato, dell’universo infantile, non tanto un repertorio iconografico – che è pur enunciato chiaramente, di elementare primaria evidenza – quanto l’atteggiamento di credenza confidente nell’anima identitaria di quelle figure, nella loro sostanza autenticamente iconica – che è fondazione di realtà, non riferimento ad altro che la fondi – e il loro non esser solo segni, ma realtà in se stesse.

È questa la ragione di malìa che gli importa, non certo lo strato elementare di semplice seduzione. Sono gli “our unfurnished eyes”, di Emily Dickinson, occhi spogli perché, come quelli infantili, sono capaci davvero di credere a una condizione magica in cui le cose si attivano e ti trasformano immettendoti in una condizione d’esistenza extra-naturale: e questo è anche il punto originario in cui il soprannaturale e il gioco saldano le proprie radici, in cui il fingimento non è mimicry ma condizione unica possibile di credenza.

Luca Lanzi

Luca Lanzi

Lo spessore, la densità di tale approccio avrebbe potuto spingere Lanzi a ricorrere a un meccanismo didascalico di citazioni e suggestioni: ogni latitudine conserva abbastanza xoana e agalmata, per dire come i Greci antichi, e l’antropologia elenca teorie infinite di feticci e totem, per dire con Tristan Tzara, situati al “point où les forces se sont accumulées, d’où jaillit le sens formulé, le rayonnement invisible de la substance, la relation naturelle mais cachée et juste, naïvement, sans explication”. Avrebbe anche potuto bamboleggiare intellettualmente, Lanzi, simulare stupori di circostanza contando sull’attrazione primaria delle sue figure e mettere in gioco rozzezze artificiose in odore di primitivo.

Ma il suo fare non è un als ob, è proprio un conoscersi nella generazione del corpo plastico auscultandone le plurime radiazioni interne, a un livello in cui non contino né intenzione né fattura, né emozione né poesia. Lanzi stesso è bambino e stregone che fa, e la malìa prima è il suo calarsi senza riserve nell’incantamento sino ad affiorarne come mano che tocca la terra – la materia matrice, ché l’uomo è sempre, nelle genesi, “uomo di fango” – e ne trae icone, corpi sacrati ancorché, o proprio perché, non ieratici. Sono “ein Gegenstand von Menschenhand”, ma non “vor dem der Mensch niederkniet”, per evocare Erich Fromm. Opere dell’arte, infine, e suggestioni di molto altro.