Algardi
Alessandro Algardi. Aufĕro, Galleria Clivio, Milano, 15 marzo – 10 maggio 2018
Il grande poema, Racconto evanescente, Novellare. La vasta trilogia recente con cui Alessandro Algardi si presenta riporta all’essenza sovranamente, lucidamente ambigua del suo lavoro.
È, primariamente, scrittura in atto, che assume esplicitamente i connotati retorici della forma enunciativa ma per tentarne ancora una volta il punto di contraddizione e dissoluzione. È una scrittura che dice solo il proprio stesso scriversi, che prosciuga ogni statuto significativo in un grado zero – la storia tutta dell’artista, compatta e inflessibile, è intonata dal fatto che egli esordisce alla metà degli anni sessanta a ridosso dell’esperienza radicale, in tutto radicale, di Manzoni, ed è figura maggiore del concettualismo del decennio settanta soprattutto nell’ambito delle riflessioni sulla sottrazione semantica, dunque sul punto in cui la deriva del codice si trasforma in vicenda altra del senso – riscattandosi pienamente come penser peinture, come pensiero ed esperienza radiante del vedere e far vedere.
Algardi assume la tela, il corpo pittorico, come pagina, e della pagina frequenta i codici – la ratio, l’allineamento, le giustezze, lo svolgimento temporalmente ordinato in flusso, gli orientamenti canonici, l’aspettativa di un assetto coerente: com’era stato, proprio e solo in forma tipografica, nell’incunabolo Yves Peintures di Yves Klein, 1954, e nel Coup de dés mallarmeiano declinato nel 1969 da Marcel Broodthaers – così come le eccezioni possibili, dalla cancellatura fisica all’evanescenza sino all’omissione operativa.
Dunque egli pone un blank concettuale, frequenta un segnare in continuo che ricorre a un codice ma da esso prescindendo, né si limita a un atteggiamento puramente destruens o ludico o dimostrativo come pure è stato per molti antichi frequentatori dell’area che fu detta “nuova scrittura”. Del vecchio repertorio teorizzato nel 1963 da Jackson MacLow e LaMonte Young in An anthology si tiene lontanissimo da suggestioni come chance operations, indeterminacy, improvisation, ma rimugina acutamente su constructions e compositions, perché non gl’importa limitarsi a meaningless works ma intende, nel lavoro, generare senso altro, e alto, e pienamente appropriato.
Blank è anche una tela e un corpo di pittura che chiede un’analisi mentale e operativa non meno agguerrita, cui l’artista si rivolge con pari lucidità. L’acromia e le sue espansioni monocrome elementari, dal nero colore ai rossi, spinte sino all’esperimento, qui ben documentato, del segnare su trasparenza, ovvero sottraendo una parte non meno essenziale dell’aspettativa di lettura in favore della flagranza minimale dei segni fisici, dei loro spessori, delle loro consistenze, sono condizioni assunte qui in qualità pienamente pittorica. Di tale ragione intimamente pittorica, che Algardi pone con schietta evidenza, ancora una volta egli non assume gli aspetti più climatici del concettualismo da cui ha preso le mosse, l’indeterminazione in testa, ma rivendica una fondazione complessa, scrutinante e non occasionale. Non potrebbe mai chiedere allo spettatore, come pure fece argutamente Shusaku Arakawa, “please do not begin to look at this painting until you determine its beginning”, perché il suo tracciare ha e vuole avere euritmia e simmetria, un ordine interno fatto di geometrie, dalla gabbia di base con un quadrato nel quadrato, o un rettangolo nel rettangolo, alla ritmica delle parallele, nella radianza delle plurime varianti possibili: è sempre un dove, con un perché.
Emerge nitida, in queste opere, una tensione non coercibile all’aristocrazia formale, a una precisione intellettuale e fabrile che edifica le proprie regole nel passo dopo passo dell’agire e del pensare agendo: che è tensione a perficere, anche, a un compiere non equivoco, e orgoglioso della propria interiore chiarezza.