Piero Manzoni: The Idea of the Achrome
Piero Manzoni: The Idea of the Achrome, in Piero Manzoni. The Twin Paintings, Hauser & Wirth Publications – Fondazione Piero Manzoni, Zürich 2017 (versione italiana)
“Non possiamo ammettere alcuna manifestazione di colore inteso come mezzo”, annuncia Piero Manzoni nel testo teorico Una nuova zona di immagini. È il 1957 e Manzoni affronta il primo tempo della sua acromia, per cui subito Luciano Anceschi, studioso di estetica e critico, scrive all’inizio dell’anno successivo di “allibite superfici di bianco assoluto, affidate alla sensibilità nel trattare la materia e rotte da rilievi plastici e dalle loro ombre”. È l’“indifférence visuelle” di Duchamp riportata all’interno dell’idea di pittorico, azzerando la nozione di qualità e la dimensione dell’artificio. La stesura della materia è un atto fisico mantenuto semplicemente fisico, privo d’ogni corteggiamento estetico, in cui l’assenza di colore – in un’accezione sostanzialmente diversa quindi dall’idea di monocromia che Klein va diffondendo – determina Superfici acrome: questa specificazione che l’artista ne dà inizialmente, indicando da subito il primato della fisicità e dell’oggettività della superficie stessa, gli fa presto maturare la definizione di Achrome per tutto il complesso dei suoi lavori.
Il quadro è una struttura fisica elemental assunta in tutta la sua concretezza, abitata da accadimenti visivi che dichiarano solo la propria presenza indeterminata: apposizioni, sovrapposizioni, mutamenti d’andamento della materia, partizioni di basica insignificanza – la linea orizzontale, la griglia a quadri – prodotte in seno alla materia stessa e non ad essa sovrapposte artificiosamente.
La superficie teorica si riassorbe nell’apposizione di brani concreti di supporto intrisi di materia che si solidificano in
andamenti plastici forti e aleatori, le cui pieghe fungono da segni fisiologicamente consistenti e dagli orientamenti non rispondenti ad alcuna ragione formativa, che ne enuncia la sostanziale objecthood ma senza implicare componenti di visibilismo com’è per la quasi totalità delle ricerche coeve, in Europa come negli Stati Uniti.
Per Manzoni l’opera è un corpo ad alto grado di autonoma oggettività, nascente da un processo operativo che non prevede un trasferimento – per specchiamento o per impronta non importa – tra il corpo dell’artista che agisce e quello del lavoro: il gesto è, qui, solo l’essenza dell’operare, non il tramite funzionale tra un intento e un esito. Segno oggettivo è la grinza, segno oggettivo è la griglia geometrica che compartisce in quadri la superficie. Tali segni istituiscono una presenza, un vedere nutrito soprattutto di tattilità, fisicamente determinatissimo tanto quanto, in potenza, infinito per via d’indeterminazione. Che tale indeterminazione abbia lo stigma dell’iterazione, della moltiplicazione neutralizzata del medesimo atto, ne assevera il fattore fondante di non intenzionalità, il valore di progetto senza destino e senza esito possibile.
Anche il riverbero geometrico del segno va letto in tal senso. All’opposto degli umori razionali, metafisici o sapienziali che il secolo ha largamente distillato, per Manzoni la geometria è una sorta di grado sorgivo, laicamente a-metafisico, dell’essere, una minimalizzazione del fare che lo concentra sul proprio stesso darsi senza implicazioni, senza premeditazioni, senza intenzioni. Negli Achrome variamente grinzati, così come in quelli a basso grado di matericità ma in cui la suddivisione è ottenuta sovrapponendo porzioni di tela all’incirca regolarmente quadrate sul supporto oppure intervenendo direttamente con precise cuciture a macchina, Manzoni va mettendo a fuoco una materiologia snudata dell’opera (la quale molto ha a che fare con quelle che Michael Fried indicherà come “the minimal conditions for something’s being seen as a painting”), la configurazione di una presenza che si oggettiva come cosa tra le cose ma rivendicando nitidamente la propria alterità.
La forma generale del lavoro corrisponde ancora, nella ricezione dello spettatore, allo schema retorico del quadro, ma la sua sostanza è di una pura non qualificata presenza fisica, ridotta alla sua essenza prima e indifferente. L’opera, così, può essere un oggetto in senso proprio e allo stesso tempo una manifestazione astrattissima del pensiero: una sequenza di foto del 1959 nel suo studio di via Fiori Oscuri, a Milano, indica inoltre come egli vada in quel tempo lavorando a una serie omogenea dal punto di vista dimensionale le cui misure amplifichino la ragione della presenza concreta dell’Achrome.
Scrive nel 1959 Leo Paolazzi, poeta e compagno di strada dell’artista, che “il quadro di Manzoni, abolito persino il gusto del dipingere, tende a farsi oggetto, desolata presenza a sé, con quella sua materia allucinante (tela e gesso), porzione di un gran vuoto bianco”, e presentando gli Achrome con la definizione ormai stabilita nel gennaio 1960 in “La nuova concezione artistica” alla galleria Azimut di Milano, l’artista stesso scrive: “La questione per me è dare una superficie integralmente bianca (anzi integralmente incolore, neutra) al di fuori di ogni fenomeno pittorico, di ogni intervento estraneo al valore di superficie; un bianco che non è un paesaggio polare, una materia evocatrice o una bella materia, una sensazione o un simbolo od altro ancora; una superficie bianca che è una superficie bianca e basta (una superficie incolore che è una superficie incolore) anzi, meglio ancora, che è e basta: essere (e essere totale è puro divenire)”.
Che il bianco sia un fatto sempre più mentale e sempre meno legato al codice pittorico, mentre la questione del corporeo passa in Manzoni per altre pratiche, dalle Impronte digitali alle Sculture viventi alla Merda d’artista, diventa evidente dalla scelta successiva di mutare radicalmente l’approccio agli Achrome. L’adozione di materie non qualificate dalla disciplina dell’arte, dal cotone idrofilo al panno, dal polistirolo espanso ai ciottoli, gli consentirà di mantenere alto il livello di flagranza della superficie senza alcuna trasformazione materiale di ragione pittorica.