La Pietra
Ugo La Pietra. Una forza interiore, Officine Saffi, Milano, 14 novembre – 22 dicembre 2017
Ugo La Pietra non poteva non incontrare, nel suo percorso proliferante e curioso – curioso per energia intellettuale, per tensione critica – legato alle radici stesse del fare ad arte e della forma, il bucchero.
Quanto sia stato e sia decisivo il suo apporto nel preservare e riattivare le linee genetiche delle tradizioni fabrili e nel delucidare la nobiltà intrinseca dell’arte applicata, è fatto ben noto e oggi, infine, giustamente valorizzato: e solo un autore come lui, che mai ha vissuto come definitiva la separazione burocratica tra quanto è dell’arte e quanto dell’architettura e del design, poteva farsi promotore di contaminazioni fervide, di remises en question, con lo sguardo rivolto non all’indietro ma a un progetto di modernità pensosa, autocritica, ma perciò vitale.
Ora è giunto alla tecnica delle arti della terra più congelata in un bozzolo di saputi inverificati e di luoghi comuni più catafratti. Il bucchero è antico, è solo antico. Ed è raro, e misterioso, perché praticato solo dagli abitanti dall’identità a sua volta sfuggente delle terre d’Etruria che ne han dato prova. È limitato, perché intimamente anestetico, per quel suo inghiottire la forma, le sue tettoniche e le sue misure spaziali, in una nerità lucida che tutto assorbe, a cominciare dal possibile di bellezza. Ed è noioso, perché la tecnica è quella lì e non altra, non sottoponibile a choc linguistici d’umore avanguardista: “Oggi non esiste più la possibilità di scioccare” lo affermava Duchamp nel 1966, un tempo in cui il giovane La Pietra aveva già capito che la questione era giocare a ragionare, non all’oltranza per l’oltranza, che fare andare le cose da qualche parte non era teatralizzare sabotaggi simulati, ma come un hacker vero – allora neanche si sapeva che avremmo coniato quel termine, men che meno che l’avremmo subito mal risemantizzato – doveva cercare il punto limite del codice e spostarlo, forzarlo per via amore e d’ironia, dimostrare che poteva essere altro da ciò che si credeva.
Dunque, ha ancora una volta interloquito con sapienze artigianali radicate – l’Italia tutta, e l’Italia della ceramica in particolare, pullula di realtà produttive formidabili in rapida o lenta estinzione: e non son tanto posti di lavoro che si perdono, sono saperi che scompaiono, il che è irreversibile – e ha smontato e rimontato, nella sua testa e in una fornace perugina, quella di Giovanni Mengoni, l’idea e il possibile del bucchero. L’ha fatto come sempre non en artiste, che è la falsificazione più paradossale dell’oggi artistico, per cui uno già battezzato artista si brandizza qua e là, orologi e divani, giardini e ogni altra cosa, facendo i suoi schizzetti di pipì come il barboncino Gilberto che si annette territori. Il genio di La Pietra è umile (e quindi feroce, inflessibile, anche senza tirarsela) e funziona in un altro modo.
Non s’ingegna a trovare qualcosa che qualifichi la realizzazione come “un La Pietra”, ma qualcosa che il bucchero poteva, e forse voleva, essere. Il che è meno épatant ma, orgogliosamente, necessario: un vero ktema, un possesso irrevocabile e condivisibile, non un’epifania d’occasione e di circostanza. Soprattutto, un picco di consapevolezza che lascia all’artefice che ha lavorato con lui, e agli altri che vogliano sapere, un plus di consapevolezza, quanto meno un glimpse su uno spettro di possibili ulteriori, che chissà come chissà quando – non è importante – germineranno in modi altri di pensare e produrre forme.
Detto tutto questo, non è lavoro en artiste perché quello di La Pietra è il lavoro di un artista. Del bucchero assume con schiettezza le evidenze principali. La tecnica ceramica, il nero che insieme riflette e introverte la luce e si fa evidenza in se stesso, non epitelio capiente di decori, e il senso atavico di equivalenza corporea che ne fa dalle origini una delle vie maestre del doppio antropomorfo.
Che la forma ceramica rispecchi, per la mano che fa, l’idea fisica che del proprio essere ha l’autore, è condizione primaria: è, nella storia dell’agire, il primo formare “in porre”, variamente sensibile al travaso corporeo dell’artefice. Senza metterla giù troppo complicata con l’antropologico, è sempre la questione dell’’adamah biblico e del Butade sicionio di Plinio, con tutto ciò che ne consegue.
È un tema, quello della fisiologia della forma ceramica e della sua vocazione antropomorfa implicita ed esplicita, un tema ben presente a La Pietra sin dai suoi primi assaggi di queste pratiche: ormai ha quasi quarant’anni la sua Brocca culona, che con giusto grado di speziatura ironica proponeva un’alternativa storicamente fondata all’imperialismo nuovo del good design.
Ponendosi in rapporto con il bucchero La Pietra ha individuato nel suo biomorfismo intrinseco il fattore più fruttuoso di sviluppo, e subito ne ha fatto lievitare gli aspetti sculturali: anche in questo caso muovendo da dati di partenza di fervida contaminazione, barbagli dell’astrazione biomorfa di Arp (che le fotografie di Aurelia Raffo leggono con sapienza lucida), suggestioni dei valori di superficie delle sperimentazioni brancusiane, certe deviazioni argute di pondus per scelta e accettata complicità con la gravità; ancora, un’anticlassica idea di muscolarità, di energia che conferisce al corpo plastico una tensione espansiva “accentuata – annota l’autore – anche dalle superfici nere, compatte, lucide come la pelle sudata di un lottatore arcaico”.
Altri elementi vengono dalla rilettura – che è in lui sempre reinvenzione – delle forme storiche. Non solo nel ragionare del recipere dei vasi fuor di convenzioni scontate, ma anche di altri territori inventivi che, da storici, si fanno possibili nuovi: aromi non impropri di zoomorfismo, e i Souvenir fallici che continuano un mondo che ci ha dato amuleti e talismani ed ex-voto tra mondo italico ed etrusco-romano – e i cui contorni concettuali si ritrovano in lucidi testi recenti come Ex-voto di Didi-Huberman, e le memorie iconografiche nel vecchio, 1869, Aphrodisiacs and Antiaphrodisiacs di Davenport: ma sono solo spunti.
Un pezzo illuminante è il Grande vaso virile. Lo schema di base è quello del canopo, contenitore sovrastato dalla figura di sostituzione, dunque vaso pienamente antropomorfizzato. Ma è solo schema, che La Pietra fa crescere sino a disgiungerne e ricongiungerne i marcatori fisiologici in un’anatomia saporosamente straniata: che è ironica, ma porta un pensiero, mai solo un calembour visivo.
Anche in questo ciclo di buccheri, tappa ulteriore del suo Grand Tour tra Nove e Caltagirone, tra Montelupo e Albissola, La Pietra parla ceramica, gioca ceramica, inventa ceramica, recupera ceramica: soprattutto, il che è tutt’altro che comune, pensa ceramica.