Marcel Duchamp, Discorso. Conversazione raccolta da James Johnson Sweeney in “The Bulletin of the Museum of Modern Art”, vol. XIII, n. 4-5, New York 1946

Quel che non funziona nell’arte contemporanea in questo paese, e apparentemente anche in Francia, è l’assenza di spirito di rivolta – nessuna idea nuova che nasca nei giovani artisti. Essi camminano sulle orme dei predecessori cercando di far meglio di loro. In arte la perfezione non esiste. E si verifica sempre una pausa artistica quando gli artisti di un certo periodo si limitano a riprendere il lavoro di un predecessore nel punto in cui l’abbandonò e di cercare di continuare ciò che egli faceva.

D’altra parte, scegliendo qualcosa che appartiene a un periodo precedente e adattandola al proprio lavoro, tale condotta può esser creatrice. Il risultato non è nuovo: ma è nuovo nella misura in cui scaturisce da una prassi originale.

Duchamp, Nu descendant un escalier no 2, 1912

Duchamp, Nu descendant un escalier no 2, 1912

L’arte è prodotta da una serie di individui che si esprimono in maniera personale; non è una questione di progresso. Il progresso è una pretesa esorbitante da parte nostra. Per esempio, non c’è stato alcun progresso di Corot su Fidia. E astratto o naturalista non sono che parole alla moda – oggi. Non esiste problema: un quadro astratto potrà benissimo non sembrarlo affatto tra cinquant’anni.

Durante la Prima guerra mondiale, la vita degli artisti newyorchesi era diversissima – molto più cordiale di ora. Esisteva molta più coesione – una solidarietà molto più stretta, molto meno opportunismo. Era lo spirito a esser molto diverso. Ci si dava molto da fare, ma all’interno di un gruppo relativamente ristretto, e tutto si faceva apertamente. Il gran vantaggio di quel primo periodo fu che l’arte di allora era un lavoro da laboratorio; oggi è diluita ai fini del grande consumo. E la pubblicità toglie sempre qualcosa.

La base del mio lavoro personale durante gli anni immediatamente precedenti al mio arrivo in America nel 1915 era il desiderio di distruggere le forme – di “scomporle”, un po’ alla maniera cubista. Ma in realtà io volevo andare oltre – molto oltre – e in una direzione del tutto diversa. Questo si risolse nel Nu descendant un escalier e più tardi nel mio Grande vetro, La Mariée mise à nu par ses célibataires, même.

L’idea del Nu mi venne da un disegno che avevo fatto nel 1911 per illustrare la poesia di Jules Laforgue Encore à cet astre. Avevo progettato una serie d’illustrazioni di poesie di Laforgue, ma ne portai a termine solo tre. A quell’epoca Rimbaud e Lautréamont mi sembravano troppo vecchi. Volevo qualcosa di più giovane. Mallarmé e Laforgue erano più vicini al mio gusto – specialmente Hamlet, di Laforgue. Ma probabilmente ero attratto meno dalla poesia di Laforgue che dai suoi titoli – Comice agricole, quando è scritto da Laforgue, si trasforma in poesia. Le Soir, le piano – nessun altro avrebbe potuto scrivere così a quell’epoca.

Nel disegno Encore à cet astre il personaggio sale le scale. Ma mentre ci lavoravo, nacque in me l’idea del Nu, o soltanto il titolo – non ricordo esattamente. Poi diedi il disegno a F.C. Torrey di San Francisco che aveva comprato il Nu descendant un escalier all’Armory Show di New York nel 1913.

Non ritengo che esista un qualche rapporto tra il Nu descendant un escalier e il futurismo. I futuristi avevano organizzato la loro mostra alla galleria Bernheim-Jeune nel gennaio 1912. In quello stesso periodo io stavo dipingendo il Nu. Ne avevo già fatto lo schizzo a olio nel 1911. Conoscevo Severini, certo. Ma a quell’epoca lavoravo da solo – o piuttosto con i miei fratelli. E non ero un frequentatore di caffè. Andava di moda la cronofotografia. Gli studi di cavalli in movimento e di schermidori in posizioni successive come negli album di Muybridge mi erano familiari. Ma la mia preoccupazione nell’esecuzione del Nu era più vicina a quella dei cubisti (scomposizione delle forme) che a quella dei futuristi (suggestione del movimento) o anche a quella di Delaunay (interpretazione simultaneista del movimento).

Il mio scopo era la rappresentazione statica del movimento – una composizione statica di indicazioni statiche delle varie posizioni assunte da una forma in movimento – senza cercar di creare con la pittura effetti cinematici.

La riduzione di una testa in movimento in nuda linea mi sembrava difendibile. Una forma che passa attraverso lo spazio attraverserebbe una linea; e man mano che la forma si sposta, la linea attraversata sarebbe sostituita da un’altra linea – poi da un’altra e da un’altra ancora. Di conseguenza, mi sentivo autorizzato a ridurre una figura in movimento a una linea piuttosto che a uno scheletro. Ridurre, ridurre, ridurre era la mia ossessione; ma al tempo stesso il mio scopo era di volgermi all’interno, piuttosto che all’esterno. E poi, in questa prospettiva, giunsi a pensare che un artista poteva servirsi di qualsiasi cosa – un punto, una linea, un simbolo più o meno banale – per esprimere quel che voleva dire. Così il Nu era un passo nella direzione del Grande Vetro, La Mariée mise à nu par ses célibataires, même.

E, nel Re e Regina, dipinto poco dopo il Nu, non ci sono forme umane né indicazioni anatomiche. Ma è possibile vedere dove sono poste le forme, e nonostante questa riduzione, non la chiamerei mai una tela “astratta”.

Il futurismo era un impressionismo del mondo meccanico. Era la diretta prosecuzione del movimento impressionista. Non m’interessava. Volevo allontanarmi dall’atto fisico della pittura. Inoltre per me il titolo era molto importante. Volli porre la pittura al servizio dei miei obiettivi, allontanandomi dalla “fisicità”. A mio avviso era stato Courbet, nel XIX secolo, a porre l’accento sul lato fisico. Io mi interessavo alle idee – e non semplicemente ai prodotti visivi. Volevo rimettere la pittura al servizio della mente. E la mia pittura fu, beninteso, immediatamente considerata “intellettuale”, “letteraria”.

Cercavo, è vero, di situarmi il più lontano possibile dai quadri fisici “piacevoli” e “seducenti”. Questa posizione radicale venne considerata letteraria. Il mio Re e Regina rappresentava i rispettivi pezzi del gioco degli scacchi.

In effetti, fino agli ultimi cento anni tutta la pittura è stata letteraria o religiosa, posta al servizio dello spirito. Questa caratteristica si è a poco a poco persa nel corso dell’ultimo secolo. Più un quadro faceva appello ai sensi – più diventava animale –, più era apprezzato. Fu una buona cosa aver avuto Matisse, per la bellezza che sprigionava. E tuttavia Matisse ha creato una nuova forma di pittura fisica in questo secolo, o almeno ha mantenuto la tradizione che abbiamo ereditata dai maestri del XIX secolo.

Dada fu la punta estrema della protesta contro la fisicità della pittura. Un’attitudine metafisica, la sua. Dada era intimamente e coscientemente frammisto alla “letteratura”. Una sorta di nichilismo per cui provo ancora una profonda simpatia. Era un modo di uscire da uno stato d’animo – di evitare di essere influenzati dal proprio ambiente immediato, o dal passato: di allontanarsi dai cliché – di affrancarsi. La forza di vacuità di questo movimento fu molto salutare. Dada vi dice: “Non dimenticate che non siete così vuoti come pensate!”.

Solitamente un pittore confessa che ha i suoi stadi. Passa da uno stadio all’altro. In effetti, è schiavo dei suoi stadi – anche se sono contemporanei.

Dada fu molto utile come purgante. E credo di esserne stato profondamente cosciente, a quell’epoca, e di aver provato il desiderio di purgarmi io stesso. Ricordo certe conversazioni con Picabia a tal proposito. Era più intelligente della maggior parte dei miei contemporanei. Gli altri erano pro o contro Cézanne. Nessuno pensava che ci potesse essere qualcosa al di là dell’atto fisico della pittura. Non si insegnava nessuna nozione di libertà, nessuna prospettiva filosofica. Naturalmente i cubisti erano fertili d’invenzioni in quel momento. Avevano già abbastanza gatte da pelare per preoccuparsi di prospettiva filosofica; e il cubismo mi ha dato molte idee relative alla scomposizione delle forme. Ma io pensavo all’arte su un’altra scala. All’epoca si discuteva accanitamente della quarta dimensione e della geometria non-euclidea. Ma la maggior parte della gente considerava questi problemi come un fatto dilettantistico. Metzinger, invece, vi si interessava particolarmente. E, a dispetto di tutti i nostri malintesi, queste nuove idee ci aiutarono a prender le distanze dalle banali abitudini di pensiero – bassezze da caffè e da studio.

Brisset e Roussel erano i due scrittori che ammiravo di più in quegli anni per la loro immaginazione delirante. Jean-Pierre Brisset era stato scoperto da Jules Romains grazie a un libro che aveva trovato sul Lungosenna. L’opera di Brisset era un’analisi filologica del linguaggio – analisi condotta attraverso un intreccio incredibile di calembour. Era una modalità da Doganiere Rousseau della filologia. Romains lo presentò ai suoi amici. E costoro, come Apollinaire e compagni, organizzarono una manifestazione in suo onore ai piedi del Pensatore di Rodin davanti al Pantheon, dove egli fu proclamato Principe dei Pensatori.

Ma Brisset fu una creatura vera che visse per essere poi dimenticata. Anche Roussel suscitò allora il mio entusiasmo. Lo ammiravo perché arrecava qualcosa che non avevo mai visto. Solo questo può suscitare dal più profondo del mio essere un sentimento d’ammirazione – qualcosa che basta a se stessa – niente a che vedere con i grandi nomi o le influenze. Apollinaire fu il primo a mostrarmi le opere di Roussel. Era poesia. Roussel si credeva filologo, filosofo e metafisico. Ma resta un gran poeta.

È Roussel che, sostanzialmente, fu responsabile del mio Vetro, La Mariée mise à nu par ses célibataires, même. Furono le sue Impressions d’Afrique che m’indicarono a grandi linee la prassi da adottare. Questa pièce che vidi in compagnia di Apollinaire mi aiutò enormemente in uno degli aspetti del mio modo di esprimermi. Capii immediatamente che stavo subendo l’influenza di Roussel. Ma ritenevo che, in quanto pittore, era meglio che fossi influenzato da uno scrittore piuttosto che da un altro pittore. E Roussel mi mostrò la strada.

La mia biblioteca ideale avrebbe compreso tutti gli scritti di Roussel e di Brisset, forse Lautréamont e Mallarmé. Mallarmé era un grande personaggio. Indicò la direzione che l’arte deve prendere: l’espressione intellettuale, più che l’espressione animale. Ne ho abbastanza dell’espressione “stupido come un pittore”.