Arturo Vermi
Arturo Vermi. Figure in uno spazio-tempo, Fondazione Berardelli, Brescia (già Frittelli, Firenze, 1 luglio- 9 ottobre 2016), 7 ottobre – 24 novembre 2017, Carlo Cambi, Poggibonsi
Stagione prima. Il 12 dicembre 1962 si tiene al Cenobio di via San Carpoforo a Milano la prima mostra di un gruppo d’artisti comprendente Arturo Vermi, Angelo Verga, Ettore Sordini, Ugo La Pietra, Agostino Ferrari, Raffaele Menster, con il supporto intellettuale e poetico di Alberto Lùcia. La vicenda del raggruppamento dura assai poco – la terza mostra, alla Saletta del Fiorino di Firenze, a fine maggio 1963, è anche effettivamente l’ultima – ma è importante perché è il vero punto d’avvio dell’operare di Arturo Vermi.
Egli è pittore, e pienamente pittore rimarrà, nel senso del “penser la peinture”, in una stagione in cui l’orizzonte dei riferimenti è sottoposto a disamine radicali e in cui è all’ordine del giorno, scrive Emilio Villa, il passaggio “di grado in grado, dal colore alla luce, dalla luce allo spazio, e dallo spazio ad un probabile umore dell’idea”.
Vermi nasce, come molti, in seno al disagio ultimo dell’art autre, all’insofferenza verso le retoriche postromantiche dell’esprimere. Occorre ricostruire a partire da un “saut dans le vide”, che è quello che Klein, Azimut, Zero e compagni vanno variamente delineando.
Vermi prende a ragionare del segno e dello spazio. Il suo riferimento prossimo è quello delle ricerche di La Pietra sul segnare come “minimo sperimentale simbolico”. Quello maggiore, autenticamente fondante, è il corso concettuale che ha condotto Lucio Fontana dai graffiti, sempre più avvertiti e intensivi in forma d’interrogazione, che trascorrono dagli “inchiostri” alle “carte”, sino ai “tagli”. Segni, sono, in concentrazione ultima: e gesti sospesi al limite zen della demateriazione definitiva, a ridosso dell’infinito.
Il segno ha possibilità di ritrovare la sua qualità di monema di senso, che scandisce lo spazio a schiuderlo verso condizioni infine orfane d’orientamento. È, Vermi intuisce presto, il fare essenziale, ciò che serve a misurare lo spazio e il tempo, a implicare quello che Hanne Darboven saggerà come Schreibzeit: e contemporaneamente a instaurare la superficie non come spazio teorico ma come campo fisico, perfetta trasposizione nel visivo della riduzione al silenzio della lessness beckettiana (per Emil Cioran “mescolanza inesauribile di privazione e d’infinito, vacuità sinonimo di apoteosi”), della sospensione del significare, dello scrutare il valore sorgivo di senso d’un segno che s’intende insieme, in ambiguità fastosa, pre- e postalfabetico.
Titolare Diario l’iterazione regolare, allineata e incolonnata, d’un segno tanto plasticamente schiarito quanto (e proprio perché) ridotto a cellula orfana di qualità convenzionale è per Vermi riportare alla misura esistenziale ciò che altrimenti sarebbe un teorizzare algido: è fare, appunto, concretamente scrutinando, in condizione perfettamente inemotiva, riportando la superficie alla misura mentale della pagina, luogo di possibilità di senso contaminate e radianti.
Non s’imprigiona tuttavia, Vermi, nell’equivalenza retorica della pagina, dal momento che il suo è un radicalmente diverso pensare l’immagine: “trovai la pagina bianca, lo spazio ma non per riempirlo, bensì per spogliarlo e lasciarvi un segno orizzontale argenteo in mezzo a un blu, oppure due segni in mezzo a tutto il quadro vuoto e così quella serie la chiamai Paesaggi”. L’emptiness cui perviene non è mentalizzazione di spazio, e piuttosto distillazione di luogo, ambito di accadimenti cui è intimamente connaturata la ragione dimensionale: ancora, esistenza possibile al mondo, ma d’un mondo in essenza altro.
Quanto conti per lui ancora una volta la lezione di Fontana è evidente. Le sue serie di Venezia e di New York, 1961 e 1962, con quel farsi spazio straniato per trascendimento poetico, e luce nell’assunzione dell’oro e dell’argento come sostanza simbolica del colore, lavorano in profondo nel corso riflessivo di Vermi.
Oro e argento dilatano in senso cosmico la proiezione spaziale dell’immagine, tanto quanto l’adozione di fogli colorati risolve alla radice la questione della neutralizzazione del far di pittura e della monocromia, qui fisiologia dell’oggetto artistico e non esito, ragione comunque di colore e non arrocco nell’anestetismo del bianco e del nero: anche il nero, in lui, è concezione estrema di colore.
In seno a questa condizione espansa, qualitativamente connotata e teoricamente illimite, dello spazio, il segno decide per sé di costituirsi come fattore insieme architettante e di tònos, nell’etimo doppio di tensione e di metro: il segno si assume, quantitativamente definito come shape, la responsabilità di essere Presenza, come titola una serie problematicamente viva che s’avvia a ridosso di Diario. Sono, questo il titolo programmatico d’una delle opere più intense, 1964, Figure in un tempo-spazio, eventi qualificativi che non si pongono in un luogo, ma che tutto il luogo decidono, frutto d’un’azione che non si misura cronologicamente ma per il doppio movimento della densificazione concettuale e della decantazione formale.
Vermi giunge così, alla metà degli anni ’70, a costeggiare le ragioni dello spazio d’esperienza, con le sequenze Piattaforma e soprattutto Frammento che sono vere e proprie presenze – ancora – che si vogliono in grado d’attivare l’ambito d’esistenza facendone un ulteriore nowhere, perfettamente reale perfettamente altro.
Stagione seconda. Altri capitoli, in seguito, Vermi aggiunge al proprio corso rimuginante e vivo, ansioso di saggezza.
Scrive il 19 novembre 1976: “Dichiaro iniziata l’era del disimpegno; poiché oggi sono diverso da ieri, devo modificare o negare ciò che ho affermato ieri. Senza questa libertà non c’è evoluzione, progresso, scienza, felicità. Quindi basta impegni con: il padre, la madre, i figli, la patria, il dogma gli ideali, la parola data. Facciamo soltanto ciò che ci fa felici”.
“L’Azzurro”, rivista che esce in due numeri secondo la miglior tradizione della neoavaguardia – si pubblica quando si ha qualcosa da dire davvero, e quando si può – e il Manifesto del disimpegno sono le tappe maggiori di questa fase.
L’annoso percorso engagé non è rinnegato, beninteso. Tuttavia egli si trova in una posizione che il suo spirito libero e libertario non è in grado d’accettare. Potrebbe proseguire secondo la cifra già esplorata, editando in prosecuzioni senza necessità un lavoro che, già ampiamente esplorato, è nato e ha avuto ragion d’essere in un tempo e in un clima totalmente diverso.
Vermi preferisce prendersi il coraggio di una totale remise en question, di farsi, da professionista della visione, fomentatore di pensieri, divagazioni, fantasie in nome dell’“humani nihil” che da sempre lo spinge.
“Plutôt qu’artiste, je préfère dire ‘anartiste’, c’est-à-dire pas artiste du tout”, proclamava nel 1959 Duchamp rivendicando all’artista l’estraneità a ruoli professionali obbligatori, a un fare necessariamente produttivo, orientato, ortodosso a qualcosa.
Vermi sempre s’è sentito un uomo che attraverso l’arte primariamente si trova e dice, che vi trova identità ed espressione, non un chierico della forma: la stessa radicalizzazione che egli ha attuato, il graphein originario su cui molto ha lavorato, era a sua volta un fondativo disertare dal rigorismo dell’arte che “deve”.
L’anartisticità può essere per lui, allora, suscitare visioni, atteggiamenti, grumi di pensiero che non necessariamente siano ortodossi a qualcosa. Vivere, la ricerca della felicità, scavare nell’azzurro la simbolica dell’umano totale, valgon più che pronunciare parole che si vogliano definitive intorno all’arte e alle sue beghe nominalistiche.
Straniate azioni d’umore debordiano, operazioni fuori dai codici statuiti, situazioni che annunciano un’anomalia estetica – dunque di pensiero – non solo rispetto all’artistico ordinario, sono il suo dipanare en artiste/anartiste questa stagione seconda: che l’istituzionalità dell’arte fatichi a riconoscerne il profilo e il ruolo, è titolo di merito.
Il clima, d’altronde, è quello d’un generale definitivamente diverso rapportarsi all’identità d’artista, per chi abbia compreso: anche Vermi potrebbe, con piccola parafrasi, dire con il Boccalone di Enrico Palandri, che non a caso esce nel 1979, “non sono uno scrittore, che di stronzi è già pieno il mondo”.
È uomo libero, che pensa e innesca circostanze le quali producono pensieri, forse consapevolezze.
Il suo talento non è in vendita, perché egli ne fa, prima di tutto, un dono. Così vive, sino alla fine.