Ken Eastman
Ken Eastman. The shape of things, in “La Ceramica”, 33, Milano, estate 2017
Nel 1991, quando Ken Eastman è ancora nella fase iniziale della sua carriera, prende parte alla mostra “The Abstract Vessel” al Welsh Arts Council di Cardiff. È un dato di partenza decisivo, perché orienta definitivamente le scelte dell’artista nell’ambito per lui più appropriato, un riflessione sulla forma nello spazio e nella luce in cui la concretezza della cosa e la sua autonomia di corpo plastico perfettamente autonomo siano entrambe pienamente salvaguardate, e consentano un margine di espressione, di elaborazione linguistica e poetica, non condizionato.
Gli studi all’Edinburgh College of Art e poi al Royal College of Art di Londra, oltre che la sua inclinazione personale, gli hanno fornito da subito una certezza: usare l’argilla è lavorare in una sorta di territorio intermedio tra sculturale e pittorico, fortemente connotato e autonomo, rispondendo a interrogativi che non sono quelli della factura, dell’interferenza tecnicistica che troppo spesso indebolisce la ricerca contemporanea, ma a quelli ben più fondanti della ragione stessa della forma plastica.
L’eredità della scuola inglese di Hans Coper e Lucie Rie è la risposta nitida che la ricerca ceramica ha offerto al dibattito artistico, scavare nella forza dell’identità disciplinare della ceramica ma non facendone un elemento di separatezza, bensì un’interlocuzione con il più vasto dibattito plastico che il ‘900 ha orientato in modo chiaro sin dai suoi esordi.
L’idea di vaso che Eastman ha assunto a base del suo lavoro e ha contribuito in modo decisivo a rielaborare, imponendo la sua personalità e la sua sobria ma inflessibile autorevolezza, è quella stessa che ha portato l’avanguardia storica a porsi la questione dell’autonomia artistica rispetto alla questione del rappresentare.
È ben noto che la scelta della natura morta da parte dei cubisti ha significato assumere la realtà visibile di oggetti in se stessi a bassa frequenza significativa, ordinari e non eloquenti, per aver mano libera sulla qualità intellettuale e formale della resa pittorica. Ha affermato Georges Braque che “del colore non era che l’aspetto della luce a interessarci. La luce e lo spazio sono due cose che si toccano. La frammentazione mi serviva a stabilire lo spazio e il movimento dello spazio e non ho potuto introdurre l’oggetto che dopo aver creato lo spazio”, e ciò ha consentito di “creare un nuovo genere di bellezza, la bellezza che mi appare in termini di volume, di linea, di massa, di peso”, perché “lo scopo non è ricostituire un fatto aneddotico ma costituire un fatto pittorico” e “non si deve imitare ciò che si vuole creare”. Mutatis mutandis, è peraltro ben evidente che le scelte d’un autore affatto diverso come Giorgio Morandi sono state affini, spazio e luce/colore e architettura della forma in luogo dell’evidenza dimessa, una “metafisica degli oggetti più comuni” – così De Chirico – del tutto indifferente alla ragione ordinaria d’esistenza delle cose: e il fatto che di recente un autore parimenti problematico come Edmund De Waal proprio con Morandi abbia deciso di dialogare apertamente è quanto mai indicativo.
Eastman ha riflettuto su quelle ragioni, e ha assunto l’idea quintessenziale del vaso come la materia del proprio ragionare scultoreo. Il vaso è, per il ceramista, ciò che l’oggetto è per il pittore. Una cosa che appartiene al mondo dei saputi correnti, della cui funzionalità si fa a meno già dal momento in cui la si assume come soggetto. Ha mosso dal vaso, neppure più ponendone in discussione a qualche titolo il ruolo, la ragion d’essere, ma facendone la premessa tutta formale del suo corso di ragionamenti su forma spazio luce colore, sul decidersi d’una visione concreta affacciata oltre le soglie della mera apparenza.
Significativamente una delle sue mostre più importanti, a Londra nel 2012, s’intitolava “The shape of things”. Le geometrie semplici e deformanti rispetto all’aspettativa ordinaria, le tacche di materia pittorica ora brevi e intense ora fatte consistenza della superficie e del volume alla luce, la riduzione dello spettro cromatico a pochi toni severi, la compressione brusca della logica costruttiva, tutto indica che quello di Eastman è un intendimento profondo di concepire lo stare della forma al mondo: che è, a un tempo, fisico e nutrito continuamente di straniamenti metafisici, e soprattutto posto sul bilico difficile tra analisi ed emozione.
Un’affermazione, soprattutto, colpisce di Eastman. “Part of the reason for making (in fact a very large part) is to see things that I have never seen before – to build something that I cannot fully understand or explain”. Essa non può non far tornare alla mente l’affermazione lancinante di Barnett Newman secondo cui “An artist paints so that he will have something to look at”: il “qualcosa” da guardare non è la cosa, è l’evento che l’arte ha prodotto, e il guardare s’intende come visione ad altissimo grado di consapevolezza, pensiero che attiva e decide il senso e non ne è ricettore.
“At times – continua Newman – he must write so that he will also have something to read”. Su questo terreno Eastman ha dato, laconico e lucido, indicazioni proficue: “For a long time now I have realised that my overriding interest is making new coloured clay forms. This seems for me to be the essence of pottery – to make shapes which occupy and contain space and to decorate those shapes. By decorate, I mean to glaze, to paint, to draw, to make image or line across the skin of the clay. The pots here have no subject, they are not about anything in particular and they have no practical function; – they are made purely for looking at – for joy”.
Eastman scompone e ricompone la forma architettantola. Ne trova, in primo luogo, la monumentalità potente, quella sua intima adimensionalità che non poco contribuisce a collocarla, nello spazio fisico d’esperienza, come un corpo palesemente straniato, che dialoga con uno spazio che non è metrico e con una luce che non è solo quella incidenze, e che anzi il lavorio delle tonalità cromatiche rende come atmosfera colorata. Lavora facendone l’embodiment – amo molto il termine, così come lo formula Bernard Bosanquet in Three Lectures on Aesthetic – d’un processo di pensiero, non della specie dei “Processi di pensiero visualizzati” di cui scriveva Jean-Christophe Ammann, ma che nel processo meditativo e insieme impreventivo del fare – non esiste, in Eastman, una strategia formale preordinata, né un’indefettibile regola organizzativa – che combina equilibri statici e tensioni dinamiche come effondendo una tutta autonoma vitalità interna. Il colore entra in questo processo in modo decisivo, facendo della shape una combinazione di superfici sensibili – e dalle trattazioni fisiologicamente diverse, con differenti modi di coloritura – tra cui ulteriori rapporti s’instaurano, dinamiche altre, inducendo una lettura che, poste in scacco le aspettative di chi guardi, non può non coinvolgere una proiezione mentale impregnata di bidimensionalità apparenti, di volumetria virtuali sovrapposte alle fisiche (“The objects here are quite sharply defined, they have clear drawn ground plans, smooth walls and clear edges, but this resolution emerges slowly”, scrive), sino al punto di far affiorare suggestioni antropomorfe, una sorta di sottile trascorrimento visionario: del resto nella sua formatività il peso dell’organico, della crescenza secondo pulsioni interne, è indubitabile.
È evidente che l’artista, per il quale la pratica della terra non è in discussione come esperienza centrale del fare e del dar forma, si è dato una serie di riferimenti problematici pienamente e autorevolmente alti, dalla natura morta dell’avanguardia storica all’intendimento del colore della Color Field painting, dall’effetto di presenza modificante della scultura colorata medievale alle logiche intuitive ed emozionate dell’avanguardia storica agli albori della non oggettività.
Dunque non è impertinente citare anche per Eastman una celebre annotazione di Guillaume Apollinaire a proposito di Braque: “la madreperla delle sue opere rende iridescente il nostro intelletto”.