Michele Zaza
Michele Zaza, Angelico pensiero, 1996
“Eines zu sein mit Allem – Essere uno con tutti” (Hölderlin). La trama del lavoro, fondamentalmente mistico ed insieme razionale, non compenetra l’immediatezza del dato empirico, sollevandosi invece al di sopra dell’esperienza come se fosse un sottile velo di concetti in grado di lievitare in un’atmosfera quanto mai rarefatta.
Sicché i due estremi del psichico e del fisico, dell’infinito e del finito, dell’eternità e dell’istante, del divino e dell’umano finiscono per richiamarsi con ciclica reciprocità, ora influenzandosi tra di loro, ora muovendosi su camminamenti antitetici senza mai fondersi per davvero.
Pertanto, nel solco di una tensione mentale, la cui sostanza indugia sulla teoria degli opposti, l’energia creatrice si traduce nel trapasso obbligato da estremo ad estremo mentre aspira a dare concretezza ad una identità che si desidera nel complesso armonica e unitaria.
In generale, per quanto poi attiene alla mediazione degli opposti, appare inevitabile che l’artista vi si ribellerà in eterno e che in eterno ripeterà il suo dilemma della sintesi.
Lungo il percorso della creatività che da sempre si estende dalla condizione umana alla condizione dell’assolutezza, l’INCARNAZIONE e la PARTECIPAZIONE, imprescindibili elementi del FARE, si trasformano man mano in una sorta di vocazione allo stato che definirei trascendentale dal momento che il desiderio, anche in termini chiaramente impellenti, mira a conquistare soprattutto il valore ascetico-sostanziale.
Così la libertà e la necessità si incontrano nel mondo ideale dell’assoluto; perché la libertà, sciogliendo i vincoli che la legano alla necessità, non potrà che produrre immagini dell’anima, pur riproducibili di volta in volta a formulazioni plastiche e cromatiche caricate dalla soggettività.
Di conseguenza, le apparizioni del divino avvengono nel rispetto di una legge fondata sulla personalità che si configura in un processo di espansione e di concentrazione dall’orizzontale al verticale.
L’arte riguadagna il suo ruolo di verità: una verità in grado di comunicare e di offrire se stessa attraverso il medium, definibile e non definito, dalla raffigurazione.
Perciò, quel che scompare apparendo e appare scomparendo non è altro che la ripetizione genealogica della differenza. Ancora una volta dunque, il linguaggio dell’arte possiede la qualità di trascendere il reale fino a sostituirlo con un’ulteriore apparenza, più conforme semmai alla verità soggettiva; fino a poter asserire che se l’iterazione del quotidiano uccide l’arte, questa – a sua volta – risorge per uccidere la quotidianità.
Intanto la sensazione dimostra di essere sempre vera e, quindi, di cogliere sempre l’essere mediante il fondamento oggettivo del simulacro, ovvero per mezzo della rappresentazione fisica della propria realtà psichica.
Per questa ragione, indagando di pari passo vuoi la dimensione dello spirito, vuoi la centralità indicata dalla sensazione nel suo ribaltamento dallo stato psichico a quello fisico, non mi rimane che interpretare la stessa sensazione come un contratto vieppiù sublime con le molteplici parvenze della natura.
D’altro canto, l’essere, rivelandosi come corpo dell’assolutezza, viene esplicitato dalla tattilità; allo stesso modo, ma su banda opposta, il non essere, connotabile della intattilità del puro pensiero, finisce per configurarsi nel vuoto. Tuttavia, il vuoto può definire o almeno suggerire un’ imago del pensiero? Parrebbe di si. E si riscopre così che solo il vuoto è la forma perfetta, o meglio l’intelaiatura di una perfezione che non si descrive, che non si rappresenta, che non si analizza ma che si coglie in un insieme: “O Himmel über mir, du Reiner! Tiefer! Du Licht-Abgrund. (Oh cielo sopra di me, tu puro! Profondo! Tu abisso di luce)”. (Nietzsche).