Kristina Riska
Kristina Riska, in “La Ceramica”, 32, Milano, primavera 2017
Kristina Riska lavora dalla metà degli anni ’80, formatasi in seno alla grande scuola finnica: che è primariamente scuola di design, certo, di pensiero essenziale della forma, ma che nel secolo ha radicato più di molte altre la tradizione dell’auscultazione del materiale, di un rapporto di disponibilità lucida e di complicità nell’intenderne le vocazioni formali.
Le opere degli ultimi anni ne dicono la piena, consapevole maturità, e confermano i tratti essenziali d’una personalità che all’esibizione e all’estroversione preferisce il lavoro silenzioso, concentrato, decantato nel luogo autenticamente altro che è l’atelier. L’artista non fa per esibire, dimostrare, convincere. Fa per ricerca paziente, dipanando una concentrazione meditativa che si specchia negli atti e nei processi tutti del fare, che in un primo tempo a lei, e solo a lei, appartengono, e in cui si riconosce appieno: così come suo è il tempo allentato, distillato, tempo di vita d’altissima qualità, che è della nascita dell’opera, del complice formare e formarsi.
Le scelte sono fondanti. Ha deciso di lavorare sull’idea di vaso, ma a partire dall’accettazione critica dei suoi archetipi visivi, dunque facendosene erede senza che ciò comporti retaggi tradizionali avvertiti come cogenti. Il vaso è, l’estetica ha ben insegnato, il punto di raccordo tra funzione pratica e trascendimento artistico. Esso è soprattutto, e su questo ha scelto di concentrarsi Riska, il vero “doppio” del corporeo, umano e comunque biomorfo, così come l’originaria scultura antropomorfa l’ha determinato e come certe esperienze novecentesche – penso al primo lavoro di Barbara Hepworth, le Eikon del 1937-1938 soprattutto, sino alle deduzioni ultime di Two figures (Menhir), 1964, alla Bourgeois degli anni ’40 e ai suoi Personnages – l’hanno rideclinato: ed è dunque pienamente scultura, perché il visibile e il tattile ne stabiliscono l’unità di apparenza e certezza.
I suoi vasi sono grandi, equivalgono l’umano, e sono insieme kolossoi secondo l’accezione che ne hanno stabilito Benveniste e Vernant, forme verticali, e soprattutto forme fisse, stabili, che dicono identità – e il fatto che nelle titolazioni ricorra spesso il termine Urn ne dice il valore memoriale, il fondamento di corpo di sostituzione rispetto all’individuo, in un meccanismo atavico di specchiamenti che è anche quello tra sostanza vitale e apparenza – e luogo. Riska ne distilla tratti essenziali, certi elementi curvilinei, una tendenza spiccata alla biconicità, quantomeno alla bipartizione fisiologica. Serie come Bodypart Urn e Winter Urn la filigrana antropomorfa e il valore di doppio sono fondanti, quasi fossero gli anelli di congiunzione concettuali che conducono dalle forme prime al più esplicitato far immagine arcaico.
Sono grandi, ma non s’impongono per dimensione e peso, non s’identificano con l’implicazione quantitativa. Nel punto d’incrocio fra tattilità e visione, tra corporeità e apparenza, l’artista colloca un essenziale ma meticoloso lavorio sulla superficie, come una trama fitta e a-decorativa in cui non per caso dominanti sono gli andamenti verticali, che addomestica la luce e rende il volume non assertivo e straniato ma complice, per presenza addolcita: e anche in questo caso la memoria rimonta all’atavico ornare, all’iterazione regolare che assevera l’andamento verticale ma lo rende complice, attraverso lo sguardo, dello spazio e del luogo.
Sono, dal punto di vista tecnico, imprese autenticamente colossali, che richiedono una padronanza che sarebbe facile far scivolare nel titanismo del fare, ma che la mano sempre pensante di Risko deretorizza sino a sottrarre ogni senso di travaso corporeo, di agonismo fabrile. Anzi. È evidente che un altro degli snodi problematici sui quali maggiormente l’artista riflette è proprio la questione dell’indipendenza possibile della forma concreta che passa attraverso il processo di elusione della gravità. Non si tratta di fingere, ma di mettere in scacco l’aspettativa di peso che inevitabilmente materia e dimensione tenderebbero ad affermare, attraverso una sottrazione che è soprattutto percettiva ma che dell’immagine rafforza un altro tipo, ben più complesso e profondo, di fissità e, sia detto con le dovute cautele, ieraticità.
Il filone operativo in cui Riska sceglie il traforo, l’iterazione regolare e fitta di pieni/vuoti, appartiene allo stesso ordine di questioni, a un far grande che è questione di proporzioni e non di dimensioni, di pensiero operante e non di intenzioni arroganti. Sono, in altri termini, monumenti a pieno titolo, che trasferiscono all’esterno e allo spazio, cioè allo sguardo, ciò ch’è frutto di pensiero tutto introverso, esperienza singolare e, per molti versi, intima.
Che Risko sia anche una grande designer è questione che appartiene solo alla disciplina, ma che in queste opere trascolora completamente in un’altra idea del fare, della forma, dell’immagine fondamentale.