Mappa di un cacciatore di segni. Pirro Cuniberti, in Pirro Cuniberti. Sognatore di segni, catalogo, Art Warehouse Zattere, Venezia, 11 maggio – 30 settembre 2017

Una volta compiuta l’opera, “Servire in mano senza cornice”. È la chiusa d’un testo rivelatore che Pirro Cuniberti concepisce nel 1979 annunciando, con l’understatement che gli è tipico, l’avvio dell’ultima, straordinaria stagione del suo lavoro.

Nato du côté de chez Arcangeli, passato attraverso il bagno del figurare altro degli anni ’60, è nella seconda metà del decennio ’70 che l’artista finisce di saldare i conti con un pittorico che si vuole a qualche titolo normativo e si arrocca felice nel territorio che è, nell’intimo, il suo luogo buono, il disegno e il repertorio illimite di “segni inutili” che possono abitare il foglio.

Cuniberti, Racconto del cielo della terra e dei segni, 26.4.2001

Cuniberti, Racconto del cielo della terra e dei segni, 26.4.2001

Dagli anni trascorsi ha maturato alcune salde certezze, e una consapevolezza del sé creante che non intende più contrattare. Sul piano etico, gli è ben chiaro il rifiuto di dover essere pittore alle condizioni che il mondo gli offre e per certi versi vorrebbe imporre. La sua partecipazione alla vita dell’arte è deliberatamente laterale. Conta, in parte, la sua ritrosia caratteriale, la totale assenza della spudoratezza necessaria per proclamare, in quanto artista, “io”. Conta, più, la lettura lucida della condizione corrente del compound artistico che, quando ancora non sia ammaliato da ideologie, prevede comunque un apparato retorico ipertrofico – recitare una parte in commedia, obbligarsi a un mestiere e a un cursus honorum, definire un brand asseverabile dalla critica, vivere l’arte, comunque, come competizione o almeno affermazione, eccetera – comportante grandi elaboranti fatiche a fonte di conseguimenti quanto meno dubbi: e sicuramente, avrebbe postillato l’artista, non divertenti.

Cuniberti vive, pretende di vivere, così com’è. Calato pienamente nell’esistenza, capace di trasporla in parole con la souplesse asciutta e la saporosa deroga divagante da gran narratore delle pianure (come ben sa chi, quorum ego, l’abbia frequentato tra portici e colline, discorrendo di polli alla cacciatora e Marco Ferreri, Giri d’Italia e virtù del Refosco: mai “seriamente” d’arte, ché quella si fa e basta), geloso della propria limpida e coltissima ingenuitas capace di tenere insieme l’affabulazione svagata e Klee, la sprezzatura più feroce e una cultura cinematografica di prim’ordine: insomma cultura vera fatta vita, né alta né bassa, non nobilitante non respingente non gratificante di per sé, una cosa che alimenta ciò che è e non abbiglia ciò che solo crede d’essere.

Cuniberti, Quel giardino ricusato dalle viole, 12.4.2004

Cuniberti, Quel giardino ricusato dalle viole, 12.4.2004

Di questo vivere il fare è parte centrale. Esso è, naturalmente, non ritualizzato, non prevede liturgie e traffici disciplinari: stante che il tempo di Cuniberti è tutto quality time, il fare è il momento in cui si fa protagonista il suo intensivo, ondoso affabulare visivamente, in cui lo stream fantasmagorico che continuamente lo abita lo trova davanti al tavolo tra “penne, pennini, pennelli (bisogna averne tanti, ma se ne usano tre); squadre, righe e compassi (fregarsene del parere, anche se autorevole, di Jean-Auguste-Dominique Ingres, nettamente contrario all’impiego di questi mezzi diabolici)”, con “inchiostro di china (nero); grafite (durezze H e HB); colori (sotto forma di: matite colorate, pastelli di cera, acquerelli, tempere); colle (servono per ottenere misteriose trasparenze e tonalità singolari), vernici (servono per incollare)”: e soprattutto fogli, il luogo appropriato dell’accadere dei segni (“Abbiamo detto segni, non sogni”, per citare Licini). Nel suo esemplare testo del 1979, da cui si cita, Cuniberti fa affacciare i nomi di Ingres, Nicholson, Turner – anche di Amanda Lear, vabbè – e altrove di Licini, e Klee, e Wols: ma non pensa mai a classicismi e astrattismi e informalismi, o al sublime, l’arte non è quello.

Il fare è il disegno. Dopo anni di pittura, d’esercizi che son stati, per una tranche d’esperienza, anche di far grande, in quel finale dei ’70 Cuniberti sa in modo non più contrattabile che la sua via è quella del foglio, della dimensione di leggerezza che presiede una condizione d’acuminatezza dolce, della minuzia che azzera la corporeità del gesto e non chiede il pascolo dell’occhio perché è tutto lì, in palmo di mano, nella misura ravvicinata e felicemente perplessa dello sguardo. Del disegno, dell’idea di disegno egli assume – sulla carta e sulle tavolette che l’affiancano, in pari intendimento e responsabilità – il senso di non autorevolezza preventiva, il valore degli esiti come di momenti-pause: ovvero, con Gadda “dei momenti-pause: (dei pianerottoli di sosta) d’una fluenza (o d’una ascensione) conoscitiva-espressiva”, ma senza presumere d’ascendere a nulla, perché il suo esprimere non va mai da A a B tracciando una direzione intenzionata, ma solo perché A e B esistono e lo spazio, come voleva il sodale Novelli, sono “piccole strade per passare”; perché quello spazio astrattissimo e privato è, lì, concreto luogo d’esperienza, misura significativa delle movenze dell’intelletto e della sensibilità mentale, del loro farsi eccitazione nervosa della mano.

Sistema di frammenti, è l’immagine, e a sua volta si dà come frammento, capace di un universo visivo ma in quanto infiniti sono gli universi visivi e linguistici possibili. La lettura, per coglierla, deve abolire ogni distanza convenzionale, immettervisi e sintonizzarsi ai ritmi, ai moti, ai rapporti, alle frequenze, agli andamenti che le sono caratteristici. Da qui l’insussistenza effettiva di un problema dimensionale, e la ragion d’essere delle misure ridotte in quanto lo spettacolo e l’ostensione fungerebbero da abbreviazione del tempo di lettura, ch’è invece un continuo, ravvicinato, confidenzialmente allentato assaporamento.

Relatis referendis, vien da chiedersi quale sotterranea connessione abbia messo in sintonia Cuniberti con un artista con cui nulla ha mai avuto a che spartire, Campigli, teorico d’un “essere altrove, essere altrimenti” che parrebbe scritto per Pirro. Nessuna, a stare a opere e documenti. Nessuna, dal momento che Cuniberti tutto è salvo che uomo di nostalgie e vagheggiamenti. Molto se, per citare ancora Campigli, si considera che anch’egli coltiva “i giuochi, i sogni, i travestimenti”. Molto, se si pensi che egli ha il coraggio quotidiano, esistenziale, d’essere altrimenti: e dunque il suo altrove non è solo situarsi in un “a parte” notevole ma incontaminabile rispetto al dibattito corrente, ma anche e soprattutto rispetto alla ragion d’essere stessa dell’esprimere.

Il disegno è, per Cuniberti, riportare la pittura tutta al pensare disegno. A cominciare dal raggiungimento essenziale dal quale si dipana la sua stagione felice. Assume, convenzionalmente, il rettangolo della superficie, ma la lascia spazio in sé concreto e qualificato e a un tempo teoricissimo, in statuto di proiezione fisica delle mente. Gli accadimenti vi si depositano per autonoma ragione, consapevoli del supporto ma anche della propria capacità di deciderlo in luogo: per addensamenti centripeti – quasi finestra nella finestra: ma qui la visione è tutto fuorché ancorata alla referenza – oppure giocando con codici e convenzioni, da un segnarsi d’orizzonte al fingersi di proiezioni artatamente tridimensionali, all’affollarsi e collidere di aspettative diverse di luogo, al galleggiare di segni sparsi nello spazio “immédiat, total. A gauche, aussi, à droite, en profondeur, à volonté… Dans un instant tout est là. Tout, mais rien n’est connu encore. C’est ici qu’il faut commencer à LIRE”, come vuole Michaux, comprese le tracce referenziali inghiottite e restituite in questa asistematica dei segni.

Non si tratta d’espedienti tecnici. Nella dimensione raccolta del foglio, della tavoletta, in questi segni che marcano differenziali in assenza di statica, come fluttuando e serrando storiette ellittiche che narrano i segni stessi, a un altro livello Cuniberti convoca e fa collidere trame diverse.

Mettendo in mora il proprio stesso ruolo di artefice, abbassando, arguto e sornione, il proprio approccio alla parvenza d’un puro divertissement affettivo, egli garantisce al proprio fare un atteggiamento di assoluta non emotività nei confronti dei materiali visivi posti in gioco, frangenti d’una poesia che non si cerca, sottraendosi a ogni sospetto e a ogni problematicità di metodo. La sua complessione è quella di un goloso annotatore di pensieri en marges, che sa e ripensa i meccanismi del significato solo per poterli fastosamente destrutturare e deidentificare sottoponendoli a ulteriori possibilità di stato, di evidenza, di accadimento. Rimette in gioco, per contaminazione maliziosa di codici, schemi retorici che vanno dal catalogo alla mappa, dal diagramma all’iterazione con varianti, dall’aleatorietà a una scrostata e straniata appropriatezza figurale.

E i titoli assecondano, anzi si fanno essi stessi cartigli d’un narrare – comunque – o meglio d’un affabulare in cui l’enunziato testuale non è ancillare rispetto agli altri segni, ma uno strato ulteriore di codice e un grado aggiuntivo di devianza fantasticante: “Mi affascinano i titoli, che sono già un luogo dell’invenzione”, dice. Valga giusto qualche citazione: Museo dei segni, 1975, Natura morta con tre piani e sette segni inutili, 1979, Museo di segni inutili, 1979, la serietta Raccolta di segni e di pennellate, 1991, e anche Mappa di un cacciatore di segni, 1982, Mappa della terra di T.T. con i suoi undici abitanti, 1983, Una fiaba dall’autobiografia, 1985, Racconto affollato, 1988, Rapporto ostico, 1989. Modi, tutti, di una narrazione felicemente ellittica, di qualità diversa dall’ordinaria, poggiata in toto sulle proprie cadenze, sulle proprie movenze, sui propri comportamenti.

Cuniberti vive dunque antieroicamente il proprio lavoro: “dipingere è sempre di più una lotta con me stesso per mettere dei segni sulla carta, stando attento a non fare delle stupidaggini”. Renitente alla propria evidente qualità d’artista, sottilmente impertinente, egli sottrae la pratica all’ideologia e all’affermazione perché si chiede solo stupefazioni, frammenti disseminati d’intensità che vivano franchi dalla dissipazione mediocre della ragione, dell’immaginazione, dell’intelligenza. Non vuole épater nessuno: forse qualche volta se stesso. Non vuole convincere nessuno perché afferma di non sapere nulla di cui valga la pena convincerci.

Poi, se vogliamo, se stiamo al gioco, assaporiamo anche l’implicazione corrosiva della sua ironia dolce e divagante, e la sua affermata alterità si ribalta, di fatto, in ragionamento incalzante sull’arte, sulle sue miserabili seriosità. Proprio perché Cuniberti non ha alcuna spiegazione da offrirci del mondo è uno che ci aiuta davvero a starci, al mondo.