Su alcune opere di Mattia Moreni, catalogo, Galleria Peccolo, Livorno, 3 giugno – 22 luglio 2017

Mattia Moreni è stato uno dei veri grandi pittori del secondo dopoguerra, reso anomalo e sorprendente dalla vena di ferocia nordica, sottilmente allucinata, che ne ha nutrito le visioni.

“Spiritato diabolico lunatico irrazionale capriccioso bizzarro”, lo definisce d’altronde già nel 1946 Italo Calvino al momento del debutto nella Torino di Paulucci e Spazzapan, da cui muove per attraversare le stagioni del neocubismo e poi aderire dal gruppo degli Otto teorizzato da Venturi, il quale avverte in Moreni – che già nel 1947 è tra i promotori dello sprovincializzante “Premio Torino” – che il dato naturalistico, ineludibile ancora in un contesto in cui pressoché sconosciuto è il surrealismo e ha vissuto dell’astrazione, se si eccettua l’eccentrico Fontana, solo le declinazioni geometriche d’anteguerra, vale davvero come mero innesco d’un dipingere urgente, visionario, senza mediazioni e cautele: una pittura che si dipinge con una forza che travalica anche la questione, allora avvertitissima in Italia, del “fare il quadro”.

Moreni, Nuvola su piccola baracca nelle larghe della Romagna, 1964

Moreni, Nuvola su piccola baracca nelle larghe della Romagna, 1964

Quella ultimonaturalistica di Arcangeli è, per lui, una lettura riduttiva. Egli non è in cerca della vertigine panica, della registrazione vitale del flusso naturale, ma tenta il baratro cieco della dismisura, il dramma portato alle massime temperature, l’espressivo spinto al parossismo della dissoluzione ossessiva del mondo. “In questo modo – scrive Moreni a Birolli – non è più mestiere, e qualche volta buttandoti a capofitto ti puoi anche fracassare”.

Dal 1956, poi, è Parigi, è il grande dibattito ove Moreni trova il palcoscenico necessario, e dieci anni dopo l’isolamento romagnolo, in cui prende a tramare quella che Restany ha definito “cosmogonia della catastrofe”.

Il naturale non è per lui assunzione ma interrogazione feroce, dubbio lancinante, è l’energia scatenante una pittura tutta svolta al punto più alto di espressività retta dalla pura movenza energetica e dissolutoria dei gesti, che si danno per materie aspre e brillanti, combuste ma non domate: Moreni insiste proprio sullo iato concettuale del rappresentare, del ridarsi d’un oggetto sensibile in soggetto e in organismo trasecolato di pittura: siano nuvole, o cieli, o soli, o campagne, o alberi, com’è qui in Nuvola su piccola baracca nelle larghe della Romagna, 1964. Immagini sono e vogliono essere, imbevute d’una nerità irrevocabile d’anima ma da una non vinta capacità vitale, queste sue pitture. Un’intuizione di Arcangeli è tuttavia straordinaria, quella che riconosce in lui “l’arduo tentativo di inserire in pittura un nuovo e riconoscibile ‘contenuto’, una nuova ‘responsabilità’ implicata nell’estrema, apocalittica situazione moderna”. Ovvero, il cambio di registro del livello dei pensieri: che non si chiedono più come debba e possa essere la pittura di fronte al mondo, ma quale sostanza e verità del mondo la pittura sia in grado di intuire e pronunciare: per dire con parole di Moreni, rimontare al “perché della favola”.

Moreni, Cosa c’entra Mondrian con il lombrico dal cuore sanguinante? Si, si, c’entra perché non c’entra, 1986

Moreni, Cosa c’entra Mondrian con il lombrico dal cuore sanguinante? Sì, sì, c’entra perché non c’entra, 1986

Egli interroga se stesso in pittura “per continuare ad esistere divertendomi”, e il mondo in una virulenta remise en question, in un’operazione di sovversione che non è del far vedere ma delle fattezze stesse del mondo, come leggendone per devianza i sintomi dell’ekpurosis i cui inneschi si leggono già nelle cose. Le sue scelte sono d’una ricercata, collidente antiesteticità, ora, ché non è più in gioco l’arte ma ben altro. “Faccio per andare avanti cercando di non affermare nulla per rotolarmi liberamente nello spazio infinito delle probabilità”, scrive nel 1975. Viene il tempo de Il principio della fine dell’umanesimo, 1981, e ancora de Il regressivo consapevole: e il proliferare del suo gioco ridondante di meccanomorfismi declinanti il postumano con parodie eredi di Picabia, e schegge dei “poèmes sur le mode hurlé” di memoria arpiana ma resi graffiti che insistono nello spazio definitivamente autre (ma autre per pensiero) che è ora il suo: e Il dipingere disprezzato. Asili patologici, 1991, che qui si espone – e gli è vicina un’altra opera cruciale, Cosa c’entra Mondrian con il lombrico dal cuore sanguinante?, 1986 – è fratello di una delle opere sue più acute di cui abbia memoria, Due quadrati indisciplinati svolazzano in libera uscita tubo-comunicandosi la tubo-regressione con rettangolo rosso tra i coglioni, 1984.

Moreni travolge nel delirio fantasticante il principio stesso di forma, gioca a mettere a repentaglio come mai prima il suo skill di pittore e colorista naturale. La sua imagerie non è la simulazione di reato del Post-painterly avanguardistico, così come le sue bruschezze visive nulla vogliono aver a che fare con quelle di Neue Wilden e graffitanti assortiti: non s’ingegna, Moreni, per citare i vecchi Goncourt, a “dare a se stesso l’eleganza di una follia apparente”. Le sue sono altre acidità, altri inceppi.

Moreni, Il dipingere che disprezza se stesso, 1991

Moreni, Il dipingere che disprezza se stesso, 1991

Il suo gioco dissolutorio, quel violare barbarico l’intimità della pittura e della forma, abbracciato all’eccesso, è tanto più radicale perché egli non sfida, come Capaneo, il dio della pittura scalando le mura della cittadella dell’arte, ma dall’interno punta dritto alla santabarbara, accendendo fuochi che davvero la infiammino.

È un gioco lucidamente disperato, autenticamente disperato. Quello d’un uomo che ha creduto all’umano e all’arte ma senza concedersi il palliativo delle appartenenze, delle retoriche, degli apparati che abbigliano i titillamenti dell’ego. E che ora s’ingaggia, constatando l’incombere d’una fine che non è solo la sua biologica, nella frana dello statuto stesso del far vedere, in una visionarietà slogata e acre, nella mimesi definitivamente, ultimativamente discrepante.