Giuseppe Spagnulo. Fare, scultura, in Giuseppe Spagnulo. Solchi e lacerazioni, catalogo, Heart, Vimercate, 7 maggio – 17 giugno 2017

Sin dai suoi inizi Spagnulo intende il proprio fare scultura secondo due chiavi d’approccio non contrattabili. La prima è l’idea che la forma non è un esito preventivabile ma l’accadimento decisivo di un processo totale che implica l’autore su un piano unitariamente fisico e intellettuale: atteggiamento tipico di chi sia maturato in climi d’informale e stia ragionando antiretoricamente a elaborarne un superamento in chiave di brusca ma fondante ultimatività esperienziale. La seconda è che Spagnulo costituisce il proprio fare su un rapporto agonistico con il materiale, come avvertendone e penetrandone l’opaca resistenza alla trasformazione artificiosa e da ciò muovendo per violarne l’intimità passiva, sino a farne l’ambito appropriato del dramma del senso, dell’umore probabile d’immagine.

Spagnulo, Volto, 2010

Spagnulo, Volto, 2010

Il suo è un approccio vitalistico al fare, come una purificata combustione energetica. Che non selezione e non ausculta per via di scrutinio le materie ma le incontra e le provoca a dirsi, in un corpo a corpo tutto fisico, irriducibile a metodo, deliberatamente anti-intellettualistico: Spagnulo sfida il materiale a suscitare da se stesso, e far affiorare in carattere determinante, la propria fisiologia più intima, la propria capacità primaria d’evidenza, la propria resistenza a trascendersi in altro che non si avverta, comunque, materia. Risente, della materia, l’energia riposta e barbaricamente indomita e la affronta come facendosene specchio, in uno scambio complesso e per certi versi accecato, ovvero deliberatamente esente da precognizioni e intenzioni, in cui un’erotica sorgiva e, nelle sue inquietudini, potente, sempre risuona dell’ultimatività d’un’eco ineluttabile di morte.

Conta molto, in ciò, il suo nascere dall’esperienza della terra. “Lavorare con l’argilla e il legno mi ha fatto capire che dovevo cercare un rapporto essenziale con la materia: non manipolarla con l’abilità, non trasformarla, ma farne uscire tutta l’autonoma energia e la potenza formale. La materia è in sé la scultura”, mi ha detto un giorno.

La cultura della materia conserva intatta in lui la potenza arcaica dei gesti primari, la possibilità di filtrarne l’energetismo in spessori che partecipano di una ritualità potente, atavica, che era quella di cui era stato subito consapevole vedendo, bambino, nascere i grandi orci nelle fornaci di Grottaglie. Ed è una cultura in cui s’è sedimentata una memoria non individuale, esente da intimismi e frissons romantici perché è memoria necessariamente collettiva in cui convivono mito e quotidianità, magia e attaccamento elementare alle cose, alle forme.

Spagnulo, Paesaggio, 1997

Spagnulo, Paesaggio, 1997

La terra, e in diverso grado e modo il ferro, sono amorfi. Ma complemento e prosecuzione anche simbolica della mano è il fuoco, fisico e simbolicissimo tramite. Ancora Spagnulo: “Il blocco di ferro o la vasca di argilla cruda non sono nient’altro, prima che tu instauri quel rapporto tra complicità e agonismo che fa nascere l’opera. Non devi valorizzarli né devi trasfigurarli: il loro è un prender forma primario, in cui, se vuoi, è impossibile la retorica. Ed è un prender forma in cui ha gran parte il fuoco, un processo che ti mantiene vicino all’origine del formarsi, che fa diventare forma una materia amorfa”.

Dunque non forma ma evento formale, dunque non il trasognamento demiurgico della metamorfosi ma la trasformazione, concretissimo, fisicissimo processo il cui esito è una sorta di condizione stremata, forse ancora dubitante e impura, ma piena, di senso, in cui l’artista si riconosce perché nel processo s’è conosciuto.

Non si è poi, a ben vedere, troppo lontani da una condizione poetica, se si pensa alla rage de l’expression di un Francis Ponge, per il quale “si tratta di sapere se si vuol fare un poema o render conto d’una cosa (nella speranza che lo spirito ci guadagni, e faccia qualche passo nuovo). È il secondo termine dell’alternativa che il mio gusto (un gusto violento delle cose, e dei progressi dello spirito) mi fa scegliere senza esitazione”.

Dunque, per dir meglio, non una forma figlia d’una ricetta di forma, d’una memoria di forma, d’un desiderio di forma, ma un fare concreto che si dà per ciò che è, necessità fisica e non estetica, che è traccia, concrezione, impronta, lacerazione, ferita (“Il fuoco era nelle mie mani diventato fulmine; l’ho arroventata nel punto non tagliato e ripiegata su se stessa nel senso contrario alla sua ‘dolce curva’. Ero molto stanco alla fine e anche lei si è adagiata sul terreno come un Eracle dopo una inutile lotta”, ha scritto Spagnulo a proposito de La grande curva, 1974, forse il più straordinario dei suoi ferri): e geometria non pacificata, e biologia senza cosmetica: scultura, mai oggetto d’un discorso intorno alla scultura, dunque soggetto mai stilisticamente precisato, ma grumo radiante.

Dice ancora: “Non sono mai io che, arbitro assoluto e arrogante, decido la forma. Nel processo accadono molte cose, anche l’accidente è essenziale e può far succedere qualcosa che genera senso. E poi proprio la difficoltà, quel senso vagamente titanico che il lavoro con il metallo ti impone, impedisce che ti lasci andare agli estetismi: o arrivi subito al punto, o niente”.

A ben vedere a Spagnulo non importa neppure esser moderno. Usa le parole del suo tempo, ragionando di postinformale e di Primary Structures, nasce nell’Uomo nero di Fontana e nei Volti-Boltons di David Smith, ma commercia con il primario, il mito, un sacro straniato, anche. Usa parole ma non per far discorso ordinato, con le materie e le sue pronunce fa luogo, scava senso, ritrova un’origine.

Ritrova, soprattutto, un valore del corpo, da scultore sa che la partita non si gioca tra le figure della mentre ma nello spazio vero, con presenze arcigne ma ancor più vere che lo modifichino e lo rendano qualcosa d’altro che non ordinario. Questa è la scultura. La sua scultura.