Cuniberti
Pagina per Cuniberti, catalogo, Gallerie Il Segno, L’Arco, L’Oca, Roma, giugno-settembre 1987
Concentrate fluenze, ha il disegno di Cuniberti. Orientale, nel ripensarsi all’estremo, nel decantarsi fino a essere nuda tensione del fantastico, segno che marca un differenziale in assenza di statica, fluttuando. Occidentale, nel ridarsi come brandello conciso di narrazione, storietta, ad sensum temporale: come un crampo stilistico, di diario liciniano.
- Pirro Cuniberti, Paesaggio con la piramide V., anni ’80
Pagina è, prima di tutto, sequenza che presuppone uno sfogliare, un inseguirsi interno d’umori, minimi fremiti d’idea, germinazioni straniate. Pagina spazio, quello spazio fatto di “piccole strade per passare” che anche Novelli praticava, quello spazio astrattissimo e privato che è però concreto luogo d’esperienza, misura significativa delle movenze dell’intelletto e della sensibilità mentale, del loro farsi eccitazione nervosa della mano.
Più che ai fogli impaginati nel meretricio d’una cornice (“Servire in mano senza cornice”, prescrive lapidariamente l’artista), penso al loro cumularsi mormorante sul tavolo assorto di via Saragozza, dopo la lunga pigrizia geniale dell’invenzione, del lavorio interno, della concentrazione fatta di piccoli rituali domestici.
Penso, soprattutto, agli album – almeno otto, più qualcun altro iniziato – che si scalano lungo l’arco della vicenda di Cuniberti: quello del 1962-63, un altro iniziato nel 1966 e ripreso nel 1974, il nucleo della metà anni Settanta e primi Ottanta.
La struttura di libro è precisa, minuziosa fino all’ossessione la registrazione delle date, rimuginante l’insistenza, per decine e decine di fogli, sullo stesso tema: la testa, la figura, il paesaggio… Pause lunghe, poi folate di fantasmi, anche più e più in un sol giorno, varianti fulminee intorno a un apparire che già in seme ha l’innaturalità – e la dolcezza – del segno con memoria d’altre pagine, del fantasticare in filigrana cartacea.
È segno, doppio, che consegna, e insieme evoca artifizi, specchiamenti sottili e difformi: come in un piccolo museo dal catalogo esploso, che si ostina in un ordine che è la pantomima di se stesso; come lo scenario di un racconto di cui si sia persa la storia, e i cui materiali improvvisino trepide e metafisiche recite a soggetto; come un paesaggio che creda d’aver orizzonte, mentre il centro della terra non c’è più. Non figure, avvenimenti.
Fatti di sapori brulichii avvertimenti. Mappe d’un tesoro che non c’è ma fa lo stesso. Metriche dissolute e dissolte. Astuzie e grazie formali che si estenuano nel minimizzarsi, nel continuo spostarsi fuor di funzione.
Quanto c’è della sismografia introversa di Wols, in questi libri, in questi gruppi di fogli compaginati da una legatura di pensiero? Quanto del segnare fondamentale di Klee?
Molto, in termini d’amore. Nulla, in termini d’una pratica d’arte che si voglia alta. Cuniberti è un antieroe che nulla vuole testimoniare, che non vuole neppure militare nell’arte. Renitente, impertinente, sottrae la pratica all’ideologia e all’affermazione, si chiede solo stupefazioni, frammenti disseminati d’intensità che vivano franchi dalla dissipazione mediocre della ragione, della fantasia, dell’intelligenza.
Così, soprattutto, la sua ironia si applica alla corrosione, e la sua affermata alterità si ribalta, di fatto, in ragionamento incalzante sull’arte, sulle sue miserabili seriosità.
E in indicazione d’una possibile, incontaminata capacità di poesia.