Nanni Valentini
Nanni Valentini, Sulla materia, in Materia come realtà, catalogo della mostra, Pinacoteca e Musei Comunali, Macerata, dicembre 1979
[…] Ho scelto la materia come poetica e, soprattutto identificandola con la terra; non certo come potrebbe farlo uno scultore o come un pittore e tanto meno come la mia materia, ma come un partner che mi risponda con segni suoi propri. Comunque, in ceramica, non cerco il mito dell’orfano, né le tragedie del tellurico. Amo profondamente il dramma nascosto del seme-aria e ne cerco dei riflessi e delle corrispondenze.
Il mio lavoro è sempre stato un rimbalzo continuo fra la pittura e la ceramica. Si potrebbe dire tra l’apparenza e la certezza o tra il visibile ed il tattile. Ma è proprio questa dicotomia che mi interessa percorrere: l’aspetto in cui l’immagine diventa la rappresentazione di uno iato, di una tangenza. Il neonato, posato sulla terra, negli Abruzzi, non è solo un rito della Terra-Madre, ma il punto di questa tangenza, l’irrisolto, l’indefinito e, in quanto tale, può diventare il mito dell’inafferrabile, il luogo dove l’incongruenza, cercando la sua possibile omologia, crea dei feticci.
Mi sembra che questo sia uno specifico, un luogo di lavoro sulla materia, una riflessione sulla terra con un suo centro e con le sue contiguità. Vivo la terra non più invischiata nelle triadi, ma con una sua possibile polarità ed una sua possibile trasparenza. La penso, infatti, attraversata da una diagonale, percorsa da una doppia eco senza ridondanze, disidratata e bagnata simultaneamente, senza i rimandi degli strati, con tutti i tempi, quindi senza archeologia.
Penso alla terra che va nelle tenebre di Isaia, a quella che genera con rossore di Geremia, alla Terra Madre che partorisce figli-antenati, alla terra sfiorata dal soffio di Mercurio ed a quella che imprigiona l’ombra delle farfalle.
Sono i suoi segni che fermano la mia attenzione. Però una cosa devo chiarire: che queste cose non sono delle risposte in positivo ad un qualche nichilismo in quanto materia-corpo-manualità e tanto meno come un pieno rispetto ad un vuoto (perciò non come polo di qualsiasi simmetria) . Non credo alla poesia-comunicazione. Mi piace considerare la terra solo come luogo di una poesia, un luogo vuoto e perciò aperto al possibile, dove l’unico rischio è quello dell’impronta. Il diamante che imprigiona la “luce”, quindi tutto l’esterno; la parete-calce che riflettendo diffonde invece tutta la “luce” rinunciando quindi alla propria forma; il cratere che accettandosi come spettacolo in-forma e il seme che nasconde ogni possibile rumore, sono i poli-tipo delle immagini che ho sulla materia. L’unica comunicazione che posso pensare è l’atto incestuoso della mano che accarezza la zolla e lo sguardo che ne percorre il solco.
Una cosa credo di sentire con certezza: che, soggettivamente, concepisco la materia come luogo di tutte le trasformazioni, di tutte le similitudini. Le forme sono le tracce, i segni tangibili di queste trasformazioni. E anche il luogo dove l’insonnia fa sì che non si creino simulacri e le impronte sono sicuramente delle necessità.
In un altro ambito la “padrona del luogo” ha anche generato, come nella vecchia Teogonia; mostri che con strumenti più sottili delle monadi di Leibniz hanno creato delle Seveso, ecc. ecc. Forse hanno ragione gli scienziati che parlandoci del “buco nero”, ci dicono che ciò che ci è riflesso sono le scorie, le imperfezioni della materia ancora abitata dall’uovo d’argento nato nel grembo dell’oscurità. […]