Una passione divorante per la pittura, in Felice Filippini, Pinacoteca Comunale Casa Rusca, Locarno, 27 settembre  2015 – 10 gennaio 2016

“Questa mia ‘polypragmosyne’, questa nonché felice ma necessaria versatilità che è poi il sol mezzo di colorire la vita, la quale altrimenti è afasica e grigia, gli imbecilli me la rinfacciano sia come una colpa, sia come un’ambizione troppo vasta, sovrumana” (Alberto Savinio) (1)

Filippini, Concerto di guerra, 1940

Filippini, Concerto di guerra, 1940

1. Felice Filippini rappresenta certamente un “caso” tra quanti il panorama dell’arte del secondo dopoguerra ha proposto. Le dimensioni e i caratteri del suo personaggio mondano, quel suo essere continuamente in scena, quel suo agire da intellettuale charmeur ed estroverso, quel suo non mascherarsi dietro modestie di circostanza e godere appieno dei propri talenti e dei loro frutti; soprattutto, quel vivere in plenitudine e con passione vorace: tutto ciò si è sedimentato in codice di lettura della sua opera pittorica, generando strabismi d’intendimento dei quali oggi, credo, si può far giustizia ponendoli in corretta prospettiva.

Il suo percorso espressivo è di tono radicalmente diverso, infatti, rispetto all’immagine pubblica di sé che l’autore vi ha proiettato. È caratterizzato da un fare continuo, vagamente ossessivo, come alimentato da una pulsione non coercibile. Un fare che non conosce calcolo e opportunità, e che soprattutto ha, in nuce, le caratteristiche del soliloquio, d’un cercarsi ansioso entro il teatro di rappresentazioni e autorappresentazioni in cui s’incanala il suo stream emotivo, di memorie, di ragionamenti.

Intellettuale pubblico, Filippini è tuttavia sempre creatore che erge una solida barriera tra le mura dello studio e il mondo, e che all’interno del proprio rivendicato e difeso bozzolo emozionale e fabrile scava con tensione feroce e perennemente inappagata. Non lavora per convincere, per piacere, per chiedere consenso. Semmai, frammettendo il proprio personaggio estroverso tra opera e pubblico in qualche modo si rende in grado d’imporla, di garantirne l’accettazione senza mediazioni al basso in termini di gusto.

Filippini, Concerto grosso, 1942

Filippini, Concerto grosso, 1942

A ciò concorre un altro aspetto fondante del Filippini autore, la duttilità, assecondata dalle inclinazioni naturali, che lo fa trascorrere dal disegno alla pittura alla scrittura con pari fastosa naturalezza, e che gli consente di corrispondere alle urgenze comunicative ed espressive ricorrendo allo strumento ogni volta avvertito come il più adeguato. Certo, Filippini ha ben presente il rischio di non offrire di se stesso un’immagine univoca, strategicamente efficace rispetto agli orizzonti standardizzati d’aspettativa del pubblico, che si tratti di quello che i Goncourt chiamavano il “pubblico d’atelier”, ovvero il milieu professionale a qualche titolo istituzionalizzato, o dello spettro più largo e variegato dei ricettori. Ma agisce in lui la consapevolezza profonda della propria  “biologia dell’atto di scrivere dipingere disegnare”, come la chiamava genialmente René de Solier (2), e dunque della congeneità fondativa delle diverse pratiche al livello che più gli interessa, quello della formazione dell’idea e della preservazione, nel processo verso la forma, delle sue frequenze più intime e autentiche.

Soccorre a tale suo atteggiamento un fattore che val la pena porre nella giusta evidenza, e che soprattutto nell’arte del ‘900 ha svolto un ruolo assai maggiore di quanto normalmente non si consideri. Filippini non affina le proprie vocazioni seguendo un cursus di formazione istituzionale, dunque non si carica di debiti d’appartenenza ad alcuna gilda, e soprattutto non si sente in dovere d’assettarsi entro statuti professionali che ne facciano un clerc della creazione, impegnato a farsi accettare soprattutto,  per riprendere l’espressione ironica di John Glassco, da “qualche dozzina di persone impegnate a fare la stessa cosa” (3).

Il suo sostanziale autodidattismo, poggiato al più sulla strumentazione altoartigianale che gli forniscono artefici come Ugo Zaccheo e il valente Carlo Cotti, unito a una formazione umanistica solida ancorché non sistematica, figlia delle curiosità avide che sempre lo accompagneranno, lo pone in una condizione da molti punti di vista eccezionale. Non ha sponde sicure cui ancorarsi, ma neppure da abbandonare con timore o sofferenza. Non ha pregiudizi, certezze, saputi, idee ricevute da cui liberarsi. Non ha complicità dirette o indirette cui corrispondere. È faticosamente, felicemente solo di fronte al proprio sentirsi artista, come una cellula isolata che porta dentro di sé l’intero suo destino e che la rete di relazioni con gli altri individui artisti serve a orientare soprattutto indicandogli dove non ha senso dirigersi.

2. “Disegnavo già in fasce, e disegnerò, anziché scriverlo, anche il mio testamento; così si può dire che disegnai quando scrissi dei libri, che so di dovere al disegno quanto v’è d’irritante nella mia pittura” (4). Enfasi retorica a parte, è certo che il disegno diventa per Filippini pratica stabile almeno dalla metà degli anni ’30, cioè nel cuore dell’adolescenza. È pratica fluente, che mette rapidamente a fuoco le proprie anse stilistiche, da subito venata di un senso di vaga compulsione rispetto al coagulo dei soggetti, largamente prevalente su ogni preoccupazione di stabilire un ubi consistam stilistico.

Filippini, Ragazzo con candeliere, 1942-1943

Filippini, Ragazzo con candeliere, 1942-1943

Alla seconda metà del decennio datano anche le prime prove pittoriche, quelle che ne segnano il rapido affermarsi come una delle figure maggiori della giovane generazione ticinese. Da subito emerge prepotente “la strana personalità in cui il sogno si innesta sull’incubo nordico”, per stare alle parole di Nesto Jacometti (5), il quale da subito constata la distanza sostanziale tra Filippini e quanto va emergendo nel complesso panorama artistico ticinese.

Instradato da Cotti all’affresco, da subito il giovane artista – che già nel 1940 lavora a La disputa di Gesù con i dottori per la V cappella della scalinata di Santa Maria del Sasso a Morcote incrociandosi professionalmente con il maturo e autorevole Pietro Chiesa (6), e nel 1941 alle Storie del Beato Nicolao della Flüe nella cappella detta la “chiesetta dei soldati” sul Monte Ceneri – anche nei dipinti sceglie per sé una materia asciutta e scabra, un fondo resistente d’intonaco che favorisce la magrezza delle materie.

Certo egli si dà dei riferimenti che paiono rimemorare i versi famosi di Non chiederci la parola degli Ossi di seppia, 1925, del futuro amico Eugenio Montale: “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” (7). Sa bene cosa non vuol essere, Filippini: aulico, azzimato, compositivamente corretto. E come la sua pittura non deve apparire: costumata, frigida, formalmente non eccepibile.

Conta, per lui, una condizione di nudità espressiva che non s’arresti neppure di fronte alla ferocia, una cadenza che forzi l’anacoluto sino a renderlo senso, proprio come l’inflessione triviale, la parlata dialettale, è capace d’umori e di retrogusti idiomatici che altrimenti si perderebbero, retta da una densità morale che nessuna ragione di mera estetica si senta in diritto di elidere.

Che negli anni in cui nascono queste pitture egli vada lavorando alla sua opera narrativa più famosa, il romanzo Signore dei poveri morti, uscito nel 1943 e subito oggetto di un vivo caso letterario, è indicazione essenziale del suo rovello interiore di quel tempo. Essenziale dal punto di vista della fissazione di alcuni temi che permarranno e, più, di climi drammaticamente lividi, alitanti inquietudine, retti, ha ben notato Flavio Catenazzi, da un “gusto per la pennellata forte, dalle tinte molto mosse” (8): soprattutto, sul piano della scelta d’un “linguaggio tra il gergo e il dialetto, robusto e addirittura puzzolente, ma sincero, crudele, potente”, così Filippini stesso (9), ch’è la stessa intonazione popolaresca, eticamente alta e partecipe, risonante nei dipinti: scelta non di provocazione o stravaganza, beninteso, ma d’anima.

Filippini, Coro, 1944

Filippini, Coro, 1944

Filippini intende il proprio lavoro primariamente come voyage, vittoriniano con inflessioni céliniane, come un calarsi senza requie nei recessi della propria memoria e della propria coscienza per cavarvi non stille d’egotismo, ma la dimensione viva e vissuta di un “humani nihil” integrale. Dal punto di vista del linguaggio pittorico è certa, in quegli anni, la contaminazione che Filippini attua tra i modi dell’antinovecentismo italiano migliore in cui, fu Raffaello Giolli a scrivere già nel 1930, “questa generazione dei vent’anni guarda più in là, anche a Parigi, in un problema della pittura che non sia ignaro della pittura d’oggi: e aggiunge, a Giotto, Modigliani” (10), e gli umori nordici – da James Ensor a Vincent van Gogh, da Käthe Kollwitz alla Nervenkunst tutta d’area tedesca – cui la stessa nuova arte italiana guarda, da Scipione a Renato Birolli, anch’essi entrambi peraltro non marginalmente coinvoli nella scrittura (“Birolli gli sarebbe diventato subito grande amico” testimonierà Giancarlo Vigorelli in un saggio cruciale (11)), da Giacomo Manzù a Tullio Garbari, da Mario Mafai ad Aligi Sassu, giusto per indicare un orizzonte climatico.

Non vanno scordate, inoltre, riflessioni che certo gli vengono indirettamente dall’esperienza romana di Cotti tra i marguttiani antiretorici e per altro verso, latamente, da un certo filone del lavoro di Guido Gonzato: e, su tutti, l’esempio di Aldo Carpi, maestro braidense di molti degli Jungen ticinesi, Alberto Salvioni  e Edmondo Dobrzanski su tutti, autore “che non ha vergogna di una pittura che si sporchi di contenuti” – così Carlo Bertelli (12) – e che sintomaticamente è il membro più autorevole della giuria che aggiudica a Filippini la commissione di Morcote. Né va sottovalutato il peso di un autore intimamente autre come Ottone Rosai, alla cui vena saporosamente popolaresca e patetica, a sua volta impregnata di vernacolo e nutrita di incursioni letterarie, Filippini verrà accomunato nel 1954 in una doppia mostra alla Strozzina di Firenze (13).

Si tratta non di modelli, di cui il procedere antierudito di Filippini non sente le necessità, ma di posizioni a confronto delle quali misurare il proprio individuato assillo, distillandone semmai il tasso di urgente schiettezza espressiva che gli occorre per convivere con le proprie ossessioni, dando loro forma e racconto. Non si perita, Filippini, di ricorrere anche a clausole più apertamente surreali, in questo forzare la magia distillata del suo figurare fluente e prosciugato in brusche movenze grafiche dominanti. Se è azzardato affermare che “il surrealismo è un poco la natura stessa di Filippini”, come voleva Giovanni Gaetano Tuor (14), è ben vero che l’accelerazione allucinatoria del suo fare immagine, e il suo far scena delle situazioni in metafisica straniata, indica che da subito il suo rapporto con il reale domanda e accetta un’oltranza tutta affettiva (in un’intervista dirà di “rapporti filtrati da un anelito metafisico, intesi a rivedere la realtà, a polemizzare con la realtà, a giocare e a flirtare con essa” (15)) senza la quale l’opera sarebbe solo rappresentazione desolata, insensata.

Filippini, Rocco, c. 1963

Filippini, Rocco, c. 1963

3. Filippini irrompe nel dibattito artistico ticinese con l’empito barbarico dell’autodidatta di vaglia, e soprattutto con quella coltivata non appartenenza che gli consente di riflettere appieno sull’idea della provincia come valore senza farsi imbrigliare nelle limitatezze del dibattito locale. Soprattutto, non si mostra particolarmente appassionato dell’affannosa divaricazione identitaria di cui molto si discorre, tra le suggestioni inquiete del Nord e le radici profonde che dicono Italia, e che fanno scrivere a Gualtiero Schönenberger che egli  si ispira evidentemente alla “vena della devozione drammatica del seicento lombardo”, perché “si inserisce, senza violenza, nella famiglia dei Serodine, dei Petrini, dei Morazzone e dei Crespi, è insomma ticinese e lombardo” (16).

La scelta di coltivare, quasi moderno Pitocchetto del Ceresio, un’iconografia bassa e popolaresca, fatta di giostre e bambini, fiere paesane e poveri amanti, situazioni domestiche e musicanti (va ricordato che tra i talenti coltivati da Filippini figura anche la musica, passione che condivide con la moglie Dafne Salati, pianista, e che passa sontuosamente ai figli Rocco e Saskia), folle anonime e scene sacre declinate sul passo della devozione popolare, e di farlo delibando con furioso rigore una lingua pittorica anaccademica, è il suo sentirsi vivere ben calato in una realtà che gli appartiene e cui appartiene, di cui farsi non il cantore ma certo, nel suo singolarissimo trasfigurare, testimone. Egli è ben conscio che, come voleva Viktor Šklovskij, “nell’arte è necessario un odore particolare e solo un francese emana odore francese. […] È utile introdurre il provincialismo, incrociarlo con l’arte tradizionale” (17). E se ne fa naturalmente carico.

Ciò comporta che anche dal punto di vista delle sintonie stilistiche la sua figura si avverta come anomala, di coltivata estraneità rispetto al milieu ticinese: un’estraneità che non traduce in ritrosa appartatezza ma che proclama con forza un’identità intellettuale che egli rivendica, ed è in grado di affermare, come militanza anche pubblica (18). In altri termini egli ha ben chiaro che la sua idea di provincia non è affetta dal provincialismo con il quale quotidianamente deve misurarsi nella sua terra, anche se è altrettanto consapevole che è un tratto che non può guadagnargli, concretamente e nell’immediato, complicità culturali.

Filippini, Il palco degli istrumenti a fiato, 1964

Filippini, Il palco degli istrumenti a fiato, 1964

Se nel 1951 scrive, in una lettera a Carlo Emilio Gadda, della fatica di vivere “in una provincia come la Svizzera Italiana, dove tutto nasce morto”, se altrove si dice “sbocciato in una terra che non è una terra ma una specie di crepa tra le montagne, spazzata dalle migrazioni ma, appunto perché crepa, carica dei veleni stagnanti di tutti” (19), è perché Filippini sa bene che il sistema artistico e il tono medio del dibattito culturale vivono di troppe ambigue strapaesanerie perché si possa avverare il grande sogno identitario regionale coltivato da un Pietro Chiesa, e da troppi altri vagheggiato solo a parole.

Eppure, s’è detto, egli non si sottrae alle occasioni di militanza. Tra esse figurano assai precocemente la partecipazione a Jeunes artistes du Tessin, 1942, di cui s’è detto, e nel 1945 l’ampio articolo Gibt es eine Tessiner Kunst der Gegenwart?, in cui l’artista offre una disamina articolata della situazione, illustrandola con opere di Ottorino Olgiati, Pietro Salati, Mario Ribola e Mario Marioni, oltre che con un suo mosaico, e toccando le figure di Carlo Cotti, Alberto Salvioni, Remo Rossi, Emilio Beretta, Aldo Patocchi. Grosso modo, si tratta dell’orizzonte indicato dalla mostra del 1942 e che verrà programmaticamente puntualizzato dal Gruppo della Barca, nato nel 1952 e attivo per un lustro, i cui esponenti, Beretta, Marioni, Salvioni, Salati e Giuseppe Bolzani, prospettano un regionalismo fatto d’aperture più che di chiusure.

Certo, la situazione ticinese è problematica soprattutto per le carenze istituzionali e di budget pubblico (e “dal resto della Svizzera ci divide non solo una montagna, ma anche una differenza innegabile di gusto e di cultura”), afferma Filippini, oltre che per la drammatica latitanza d’un collezionismo degno di questo nome: lo stesso statuto professionale del pittore, la sua dignità, non godono di riconoscimento alcuno.

“A ciò si aggiunge – scrive – il fatto che siamo una terra piccola: il gusto del pubblico fa pensare all’orologio di una torre campanaria che a un certo punto si è fermato e da allora continua a segnare sempre la stessa ora. Se almeno segnasse l’ora più importante, quando il sole era al culmine! Invece no, il gusto del pubblico si è fermato alle pigre ore pomeridiane, quando si fa volentieri un pisolino e non solo non si ha bisogno di usare la testa, ma si preferisce comportarsi come se non la si avesse affatto. E per completare il quadro: quanto peggiore, più pigro, più stupido è il gusto della gente, tanto più presuntuoso esso diventa” (20). Con Beretta e Marioni, infine, terrà ancora nel 1956 una mostra all’Istituto Svizzero di Roma, introdotta da Piero Bianconi,  figura intellettuale tra le più vivide d’allora (21).

Filippini, Il dramma dell'attualità, bozzetto, dettaglio, 1975

Filippini, Il dramma dell’attualità, bozzetto, dettaglio, 1975

4. Gli anni ’50 e i primi ’60 vedono Filippini misurarsi, nel suo modo tipicamente febbrile, più per sperimentazioni forti che per passaggi e concatenazioni logiche. Il clima culturale va rapidamente mutando, nell’Europa tutta. Il 1951 è l’anno di “Véhémences confrontées”, la mostra che da Nina Dausset allinea Bryen, Capogrossi, De Kooning, Hartung, Mathieu, Pollock, Riopelle, Russell, Wols. Il 1952 non è solo l’anno di Un art autre di Michel Tapié, ma anche quello di Otto pittori italiani di Lionello Venturi, e del picco polemico tra astrattismo e realismo di rito guttusiano alla XXVI Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, in cui si fa memorabile la presenza di Ennio Morlotti prefata da Giovanni Testori. Il 1953 porta “I pittori della realtà in Lombardia” con il fondamentale saggio di Longhi e la riscoperta, per molti, di autori come Moroni, Ceresa, Fra’ Galgario, Ceruti, il 1954 il non meno cruciale saggio di Francesco Arcangeli Gli ultimi naturalisti, indicante una linea implicante tra gli altri Morlotti, Vasco Bendini, Mattia Moreni, Sergio Vacchi. E dal 1950 è nel Ticino Edmondo Dobrzanski, pittore di un’aspra e drammatica condition humaine e d’un modo fortemente engagé (22).

Il periodo non può non essere, per Filippini, che di profonda revisione del proprio fare. L’orizzonte dei suoi riferimenti si amplia, mette da parte le implicazioni popolaresche dello stile, ulteriormente stabilizzandole semmai sul piano della trattazione dei soggetti. Anzi, i temi si fanno ancora più stringenti ed esclusivi, rastremandosi a un repertorio essenziale e, per certi versi, ancor più lucidamente ossessivo. Sulla sua nozione di serie e seriazione, assai tipica in lui, può valere una riflessione che Michel Butor offre a proposito di Pablo Picasso: “La nozione di un’opera come gruppo di opere, di una tela come implicazione di altre tele intorno a essa, è diventata così fondamentale per l’artista che perfino un quadro isolato diventa un caso particolare d’insieme” (23).

I saggi stilistici dicono di un’accelerazione della questione luminosa, in lui fondamentale sin dagli inizi e ben orientata dall’intensa attività grafica: “il tono patetico e quello drammatico nascono dalla luce, dalla sua trasfigurazione lirica, che stempera gli stati d’animo nelle atmosfere, spesso torve e allucinate”, ha scritto Guido Perocco (24).

Da un canto Filippini che persegue, dichiara egli stesso nell’intervista citata a Renzo Pinelli, “disperatamente, la figurazione”, ma ora lascia che, specchiandosi criticamente nell’informale, le materie crescano e si facciano spessore irritato, coagulo ispido, pur nell’asciuttezza e nell’inamenità da fresco che egli predilige, in odio a quella che De Chirico chiamava la “bella materia tinta” dell’olio, e che gli è garantita dalla tempera sintetica e dalla rigidezza resistente dei supporti. I gesti assumono su se stessi la responsabilità d’esprimere nel colore, nelle proprie movenze avvampate, una sorta di luce straniata, perfettamente non fisica, che cresce quasi per interna forza espansiva, come tensione e intensità.

Filippini non può sapere, a quelle date, che Birolli va annotando nei preziosi Taccuini, editi nel 1960, una riflessione anche per lui fondamentale: “Quale fulgente precipizio nella massa e nel coagulo. E quale terreno per una forma liberamente libera. Nessun colore soggiogato da una forma a priori” (25).

Prende a crescere in lui, in questi anni, il lavorio delle tinte, che raggiungono temperature prima inaudite, sino al sovratono, e che sempre più lasciano alla primazia del disegno, capace di reggere l’urto delle irruzioni del gesti coloranti anche quando pericola in concitate trame wolsiane, la responsabilità dell’assetto iconografico.

Si preoccupa ancor meno, ora, Filippini, della propria attualità possibile. Nel crogiuolo delle sue riflessioni entrano alcuni punti di riferimento in cui ha gran luogo il notturno d’anima che si fa visione luministica ansiosa: Caravaggio su tutti, al quale dedica nel 1950 il drammatico dipinto La morte di Caravaggio, e poi Rembrandt e Goya, dunque ossessione e luce. Sono le pietre angolari del suo calarsi definitivo entro spessori emotivi in cui una vitalità disperata, piena, capace anche d’una erotica stremata, s’avverte sempre sottilmente intrigata di morte. Affiora anche, in questi anni, magari attraverso il filtro di suggestioni plurime carpite e reinventate che vanno da Daumier a Kokoschka, da Rouault a Soutine (e certe scene di musica paiono riecheggiare Max Oppenheimer), un’accelerazione del fervore cupo, dell’interiorità tumultuosa d’un Seicento finalmente riletto fuor di scenografia, senza glorie senza grazie: ove affiorano filigrane di Tanzio, del Monsù Desiderio più estremo.

Ma i riferimenti di Filippini non sono mai, anche quando oggetto d’amore profondo, sgabelli su cui montare, garanzie da offrire: devono farsi sangue e nervi del proprio io creante, sostanza d’espressione ulteriore. Una curiosa mostra del 1961, “Zwei Maler der Wirklichkeit. Guttuso, Filippini” (26) entra nel vivo dell’accezione di realtà che le nuove stagioni mettono in campo. La via di Filippini è emozione cosciente del reale che si fa organismo visivo: magari spossato e lacerato, ma organismo. Nulla a che fare con la visività preponderante, e si direbbe la tattilità, guttusiana. Non è la realtà di fuori, è l’irrompere delle sollecitazioni del vivere entro la coscienza acuminata dell’individuo immerso in se stesso, e la sua reazione che si fa, attraverso il filtro complesso della memoria e delle movenze emotive, immagine possibile, nel suo tremendo, elaborante, digrignante dramma del crescere all’apparenza.

5. Viene il 1966, e lo snodo cruciale della pittura di Filippini. Fare il ritratto di Alberto Giacometti, che esce nel 1966 (27), è il documento che segna la svolta determinante nel suo corso d’opere. Avviato l’anno precedente un ritratto di Giacometti in seguito alla conoscenza personale con l’artista, Filippini è folgorato dalla notizia della sua morte, l’11 gennaio 1966. Ne nasce una drammatica stretta intellettuale, che l’emozione nutre, rispetto al motivo che il nostro avverte come essenziale del proprio dipingere, e che egli specchia nel senso di “presenza” che Giacometti conferisce alle proprie teste in resistenza e opposizione allo “scandalo della morte”. “Giacometti si ritrovò sempre perché, da vero artista, cercava, attraverso tutta la sua ricerca, di confessarsi”, scrive Filippini, e ancora: “Giacometti era un trasfiguratore per eccellenza”. Chiavi, tutte, d’una lettura possibile di colui la cui scultura e pittura, eccentriche rispetto ai codici del dibattito artistico, indicano una declinazione di reale diversa in essenza.

Eseguirne il ritratto in absentia, in una serie fitta che s’inoltra come un persistente tarlo espressivo sino al 1969, indica in Filippini il calarsi, con progressiva lucida consapevolezza, nella misura del ritratto come figura di sostituzione, ma di cui s’avverta ancora il palpitare della carne, la vita e la mortalità sempre incombente.

Matura qui quello che Pierre Courthion, nella sua monografia fondamentale su Filippini (28), dice il suo definitivo “stile devastato, scalpellato”, in cui nuovi temi appaiono potenti, il desolato Cristo crocefisso che par rimemorare il rembrandtiano Bue macellato, le coppie d’amanti avvinghiate in un’angoscia disperante, corpi di uomini e d’animali tesi spasmodicamente verso il cielo oppure ripiegati su se stessi in solitudini definitive, come grumi teratomorfi in spazi inappellabilmente estranei.

Altre figure entrano, per conseguenza necessaria, nel suo orizzonte riflessivo. In primo luogo Francis Bacon, il Bacon che cresce nel culto di Rembrandt e per il quale conta “l’intensità della realtà che si sta cercando di catturare”, “l’energia interna dell’apparenza” che la qualifica vitalmente, oltre il sistema delle mere verosimiglianze, cogliendo “il sistema nervoso” delle figure in circostanze che prescindono da ogni intento estetico (29).

Courthion si spinge a evocare il Trionfo della morte di Pisa, Urs Graf e Niklaus Manuel Deutsch – a proposito, un altro gran letterato/pittore – “sulla filigrana della tremenda Charogne di Baudelaire”, per sintetizzare che “questo stile magro, spigoloso, strappato, sgradevole,  queste strutture lacerate, questi ritmi accavallati, queste carcasse terribili d’uomini e di animali, questi dies irae in cui risuona il rintocco degli agonizzanti, questi amalgami ossuti che ancora fanno spasmodicamente l’amore nella tomba, sono l’opera di un pittore singolare” (30).

Alla maturità ultima dell’operare pressante e caustico di Filippini appartiene il suo opus magnum, il grande trittico murale Il dramma dell’attualità, 1975-1976, eseguito nella sede della Televisione della Svizzera italiana a Comano.

Opera sviluppata su 16,60 metri complessivi per 3,45 di altezza, svolta su toni che rimemorano i lucori e la concitazione scesi per i rami dai diletti Tintoretto e Magnasco, l’impresa s’imparenta per qualche verso, nel celebrare un topos della modernità, al grandioso La Fée Électricité di Raoul Dufy per il Pavillon de l’Électricité all’Expo Universale del 1937 (31).

È, anche, una sorta di summa sintetica di alcuni dei temi frequentati da Filippini per una vita, dai musicisti ai movimenti di folla, dalle figure danzanti ai personaggi a braccia levate. Per curiosa coincidenza nello stesso tempo un altro artista della sua generazione dai cromosomi tintoretteschi e surreali, Cesare Peverelli, sta lavorando a un’opera di concezione affine, L’atelier de l’artiste, un vasto telero in cui sono compresenti i temi maggiori della sua vicenda pittorica, che viene presentato al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris nel maggio 1976 (32). È evidentemente un’occasione di bilancio, questa, per Filippini, dopo un quarantennio in cui la pittura ha rappresentato la passione divorante, insieme lo specchio ustorio e l’unica terapia possibile dell’anima.

Egli annota, a proposito di Il dramma dell’attualità: “Nel vestibolo immenso l’estesissima parete con l’epopea del presente. Altro non ne dirò – se non che quasi la si direbbe opera estrema di un uomo: ma questo vecchio fanciullo è qui, respira, chiede fraternità in cambio della sua. Si sa che ancora dipingerà” (33). Sino alla fine.

Note. 1. A. Savinio, Indelicatezza, in Torre di guardia, Sellerio, Palermo 1977, raccolta di scritti datanti al periodo 1934-1940. 2. R. de Solier, Forêt d’écritures, in Z. Birolli (a cura di), Gastone Novelli, catalogo, Galleria Civica d’arte moderna, Torino, 24 febbraio – 25 aprile 1972. 3. J. Glassco, Memoirs of Montparnasse, Oxford University Press, Toronto-New York 1970. 4. F. Filippini, in A. Patocchi, Felice Filippini, Collezione “Artisti ticinesi del bianco e nero”, La Toppa Edizione d’Arte, Lugano, 1952. 5. N. Jacometti (a cura di), Jeunes artistes du Tessin, catalogo, Musée de l’Athénée, Genève, 7 – 29 novembre 1942. 6. C.C., Affreschi nelle cappelle a Morcote da Pietro Chiesa, Ponziano Togni e Felice Filippini, in “Das Werk”, XXIX, 8, Zürich, agosto 1942. Vi si legge che Filippini, “col suo fervido istinto di artista, si abbandona ad una invenzione vivace, spiritosa”, considerata evidentemente anticanonica. 7. E. Montale,  Ossi di seppia (1925), edizione definitiva, Collana “Lo Specchio”, Mondadori, Milano, 1977. 8. F. Catenazzi, Introduzione, in Signore dei poveri morti, Marsilio Editori, Venezia 2000. Signore dei poveri morti esce nel 1943 presso l’Istituto Editoriale Ticinese, Bellizona. Filippini lavora contemporaneamente a una serie importante di illustrazioni del libro di cui dà documentazione M. Will (a cura di), Felice Filippini 1917-1988. Scrittore di immagini, “Quaderni di Villa dei Cedri”, Bellinzona 2005. 9. F. Filippini, lettera a Ugo Canonica del 22 dicembre 1944, citata in F. Catenazzi, cit. 10. R. Giolli, Grossi Manzù Occhetti Pancheri Sassu Strada, catalogo, Galleria Milano, Milano, 1 – 13 aprile 1930. 11. G. Vigorelli, Il verde paradiso di Felice Filippini, in Felice Filippini. Opere giovanili 1940/50, Edizioni Pedrazzini, Locarno 1968. 12. C. Bertelli, Anita Spinelli: una pittura di sfida, in Anita Spinelli. La quadreria e altre opere, testi di C. Nembrini, C. Bertelli, F. Regli, R. Berger, G. Curonici, Tecnografica, Lomazzo 2002. 13. A. Righi, Felice Filippini, catalogo, La Strozzina, Firenze, giugno – luglio 1964. 14. G. G. Tuor, Presentiamo Felice Filippini, in “Quaderni Grigionitaliani”, XXI, 1, Coira, ottobre 1951. 15. Intervista di Renzo Pinelli in R. Zala, Felice Filippini, in “Quaderni Grigionitaliani”, XXXV, 3, Coira, luglio 1966. 16. G. Schönenberger, Piccola pinacoteca filippiniana, in “Libera Stampa”, Lugano, 6 aprile 1954. Il critico più avanti ribadirà che Filippini “rientra piuttosto in un clima – inequivocabilmente italiano – di rievocazione culturale: della Ferrara estense, o dei rozzi affreschi tardo medievali delle chiese dell’alta Lombardia”: Estro e maturità nella pittura di Felice Filippini, in “Libera Stampa”, Lugano, 6 ottobre 1962. 17. V. Šklovskij, Zoo o lettere non d’amore (1923), Sellerio, Palermo 2002. 18. Fondamentale è, in tal senso, l’autorevolezza che gli viene dal ruolo, oltre che autoriale, di direttore dei programmi parlati svolto da Filippini dal 1943 al 1969 presso Radio Monte Ceneri, poi RSI, che lo mantiene in contatto continuo con molte delle figure chiave della cultura europea. Il 31 marzo 1962 l’inaugurazione della nuova sede della RSI a Lugano-Besso è celebrata con la rappresentazione di Meditazione sulla maschera di Amedeo Modigliani, testo di Filippini e musica di Wladimir Vogel, con la direzione di Edwin Loehrer. 19. F. Filippini, lettera a Carlo Emilio Gadda del 31 marzo 1951, citata in F. Catenazzi, cit.; Id., Confessione di qualcuno, in Felice Filippini. Opere giovanili 1940/50, cit. 20. F. Filippini, Gibt es eine Tessiner Kunst der Gegenwart?, in “Werk”, XXXII, 10, Winterthur, ottobre 1945. Proprio in quell’anno l’artista partecipa anche a Arte del Ticino antica e moderna,  mostra organizzata dalla Società studenti ticinesi di Zurigo, catalogo, Kunsthaus, Zürich, 8 settembre – 14 ottobre 1945. 21. Tre pittori ticinesi contemporanei. Emilio Mario Beretta, Mario Marioni, Felice Filippini, testo di Piero Bianconi, catalogo, Istituto Svizzero di Roma, aprile – maggio 1956. 22. Per un quadro complessivo cfr., di chi scrive, Arte in Italia 1943-1999, Neri Pozza, Vicenza 2000; Naturalismo padano, catalogo, Civica Galleria d’Arte Contemporanea, Lissone, 28 settembre – 7 dicembre 2003; Stagioni del figurare, in R. Chiappini (a cura di), Arte in Ticino 1803-2003. Il superamento delle avanguardie 1953-2003, catalogo, Museo di Belle Arti, Lugano, 10 dicembre 2004 – 17 aprile 2005. 23. M. Butor, La successione delle immagini, in Saggi sulla pittura, SE, Milano 1990. 24. G. Perocco, Pittura come grido, in Felice Filippini. Opere giovanili 1940/50, cit. 25. R. Birolli, Taccuini 1936-1959, Einaudi, Torino 1960. 26. Due maestri della realtà. Zwei Maler der Wirklichkeit. Renato Guttuso, Felice Filippini, testi di R. Longhi, G. Ungaretti, M. Valsecchi, catalogo, Galerie Walcheturm, Zürich, 1961. 27. F. Filippini, Fare il ritratto di Alberto Giacometti, Edizioni Galleria Marino, Locarno 1966. Il testo nasce per “Quaderni Grigionitaliani”, ove uscirà nel numero XXXVI, 1, Coira, gennaio 1967. Sarà presto riedito in F. Filippini, Signore dei poveri morti,  romanzo; Fare il ritratto di Giacometti, saggio, Collana “Scrittori della Svizzera Italiana”, 3, Elvetica Edizioni, Chiasso 1968. 28. P. Courthion, Felice Filippini, Edizioni Ilte, Torino 1971. 29. D. Sylvester, Interviste a Francis Bacon, Skira, Ginevra-Milano 2003. 30. P. Courthion, Felice Filippini, cit. 31. Un’ampia riproduzione de Il dramma dell’attualità è in Felice Filippini. Autoritratto di una pittura, introduzione di G. Vigorelli, Centro Internazionale di Studi per le Arti Figurative, Arti Grafiche Fleming, Trezzano sul Naviglio 1977. 32. Peverelli. L’atelier de l’artiste, testi di J. Lassaigne, I. Calvino, conversazioni C. Peverelli – P. Restany, catalogo, Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, 5 maggio – 20 giugno 1976, La Spirale, Milano 1976. 33. F. Filippini, in Felice Filippini. Autoritratto di una pittura, cit.