Umberto Bignardi. Una stagione pop, 1959-1968, Galleria Bianconi, Milano, sino al 5 novembre 2016

Questa mostra di Bignardi, curata da Walter Guadagnini, cade in un clima in cui, forse, davvero si è avviata la rilettura non stereotipa della vicenda tutta della pop italiana. In questa occasione è forse opportuna la pubblicazione di un’antica conversazione che apparve in Umberto Bignardi. Opere 1960 – 2003, catalogo, Arte & Arte, Bologna, 9 aprile – 28 maggio 2005:

Bignardi, Flora, 1959

Bignardi, Flora, 1959

Ci sono artisti il cui percorso è da manuale, e infatti li ritrovi nell’apposito capitolo del catalogo linneiano della creatività, e altri che agiscono calpestando i confini, decidendo che il bon ton stabilito dall’ambiente è, appunto, solo bon ton, e creare, e inventare, è ben altra faccenda, una faccenda che ti può portare da altre parti. Alcuni fanno questa scelta perché calpestare i confini può essere una vocazione, altri semplicemente perché si accorgono che il mondo dell’arte omologata è un po’ ristretto, e fuori ci sono un sacco di possibilità da utilizzare.

Umberto Bignardi appartiene a quest’ultima genia, specificamente quella per la quale lavorare offmedia ha significato tenere il passo della techne possibile, e insieme salvaguardare il proprio capitale, anche simbolico, di creatività. Ci si ritrova alla fine qui, a fare il bilancio non solo d’una straordinaria esperienza espressiva, ma ragionare anche su quanto grette e notarili siano state le clausole d’appartenenza che l’arte si è voluta dare. E a raccontarsi questa plurima, fervida storia.

Gualdoni. Fine anni ’50, primi anni ’60. Tu agisci nella cerchia di coloro che poi vengono chiamati i pop italiani, la scuola di Piazza del Popolo, eccetera. Ma i tuoi riferimenti espliciti sono Twombly, Novelli, dunque una cultura tipicamente radicata nel pittorico…

Bignardi, L'occhio, 1962

Bignardi, L’occhio, 1962

Bignardi. Beh… sì… verso la metà del 1959 mi allontanai dalla pittura d’azione che avevo vissuto, fino a quel momento, come gesto lirico… sensualità nel dipingere grandi tele con pigmenti dai colori luminosi… e iniziò una fase di razionalizzazione.

Con Twombly e Novelli eravamo amici; cominciai a frequentarli nel 1958.  Il loro modo di lavorare contribuì decisamente al mio “processo di identificazione”. Una specie di fascinazione conoscitiva su nuovi mezzi e linguaggi che stavo cercando… naturalmente in quel momento mi interessavano anche altre cose, come le carte di Rauschenberg. Cy e Gastone erano due personalità molto diverse così come era molto diverso il loro lavoro, ma c’era un dato comune nelle loro esperienze che percepii immediatamente e che non saprei definire se non con il termine “disegno”, nel senso di un rapporto limpido tra segni, scritture e immagini sul campo bianco, neutro, integro del foglio… (anche della tela, ma questo per me era secondario). Quei dati espressivi e rappresentativi attribuivano altrettanta espressività e potenza di rappresentazione al campo su cui erano stati fatti. Ho poi letto qualcosa di Pierce sul “foglio-mondo”, può essere che mi sbagli, ma nel lavoro di Cy e Gastone c’era una specie di essenzialità logica del fare, di apparente semplificazione e al tempo stesso di grande integrità e ricchezza poetica.

Dalla fine del ’59 e per tutto il ’60 lavorai su grandi fogli di cartoncino bianco e mi sentii libero di agire come non mi era mai successo prima. Esploravo una quantità di fonti e riprendevo per frammenti tracce di arte che mi erano rimaste nella testa e nell’occhio da tempo: per esempio Kandinsky, Gorky e altri. Non mi preoccupavo se c’erano richiami evidenti. Intervenivo sul foglio con tempi di esecuzione differenziati: segni veloci e istintivi, immagini definite con più accuratezza, parti di scrittura che incontravo nelle letture: dai poeti agli elenchi degli atlanti di astronomia e il ricordo degli schizzi di macchine che progettava mio nonno, e poi l’iconografia scientifica e ancora reperti dalla comunicazione commerciale. Usavo tecniche miste manuali. Dalla pittura a queste tavole cicliche di appunti e frammenti c’era un notevole salto, parte di questi lavori è stata esposta solo nel ’94, prima non si era mai vista in pubblico. Credo, comunque, che fossero più nel senso dada che non in direzione pop.

Bignardi, Allergeni, 1962

Bignardi, Allergeni, 1962

G. Insistiamo su questo punto, che deve essere precisato, usando il 1959 come termine di riferimento: nel 1959 ciò che ancora va per la maggiore è un informale molto di materia, molto di gesto. Abbiamo le polarità forti di Burri e Vedova, e l’oggetto un po’ misterioso che è Fontana.  Voi, rispetto a quell’orizzonte, avete già un atteggiamento di rifiuto di una certa declinazione retorica della pittura, che inizia appunto con figure come Novelli.

B. Nella seconda metà dei ’50 c’era un’enorme compressione di sollecitazioni, naturalmente parlo per me. I ventenni italiani di allora avevano scoperto da non molto le meraviglie della “modernità”, le avanguardie storiche, e avevano sotto gli occhi ciò che veniva fatto in tempo reale. Devo dire che non avevo mai provato interesse per l’informale, soprattutto quella versione “umori della natura padana” che prevaleva a Bologna. Proprio nel ’55, l’anno in cui arrivai a Roma per continuare l’Accademia, vidi alla Quadriennale una sala di Burri con tanti “sacchi” e i “tutti neri” con velluti e pezzi di raso e fu veramente folgorante, una di quelle illuminazioni che ridimensionano tutto il resto.

All’Accademia di Roma avevo Toti Scialoja come professore di scenografia; attraverso di lui, oltre a conoscere Burri di persona, mi avvicinai al lavoro degli americani. Alcuni compagni di Accademia, ragionando secondo una progressione verticale dell’arte, trovavano che Pollock rappresentasse il culmine. A me piaceva, ma mi interessavano anche altri: Gorky, Rothko, Motherwell e alcuni più giovani come Diebenkorn. Poi nel ’57 arrivò a Roma Twombly.

Quelle tele che avevo dipinte tra il ’58 e la metà del ’59 erano proprio fatte con il piacere della “bella pittura”. Come dicevo, il ciclo delle tavole su carta mi allontanò dal gesto totalizzante del fare la pittura  (più o meno bella). Dicevo che sentivo la necessità di agire con più razionalità e direi che questa consisteva in una estensione orizzontale, panoramica del linguaggio, non era però una operazione “fredda”.

G. Avevi consapevolezza dei precedenti surrealisti, in questo senso, o ci sei arrivato a forza di rifiutare il conosciuto?

B. Ah…  il surrealismo… direi forse più dada, come dicevo, si trattava di quella accumulazione di scoperte e indicazioni, certo storiche ma vive, che a metà dei ’50 coesistevano senza che una escludesse l’altra. Con un paio di compagni d’Accademia avevamo esplorato, direi da fanatici, tutto ciò che si poteva reperire su dada e surrealismo e quando, nel ’56, andai a Parigi cercai di incontrare i personaggi. Dorazio e Gastone mi avevano anche fornito lettere di presentazione. Andai a trovare Arp e Tzara che aveva un appartamento stipato di meraviglie: dalla Trousse des naufragés di Arp, a strepitose sculture africane. Visitai Man Ray e ricordo che insistetti con l’entusiasmo dei ventenni perché mi mostrasse cose del periodo dada, credo fosse lusingato, ma anche perplesso, poi arrivò sua moglie tutta contenta perché aveva trovato delle piccole saponette a forma di donne bianche e nere nude.

Bignardi, Quadro per bene, 1963

Bignardi, Quadro per bene, 1963

Del surrealismo mi piacevano gli “oggetti a funzionamento simbolico”; Breton aveva fatto delle teche con allineati oggetti reinventati. Nel dada e nel surrealismo preferivo lo humour dissacrante e il nonsense che aleggiava nelle cose migliori, l’uso della foto e degli oggetti.

G. Questa consuetudine con dada forse ti ha anche portato al collage naturalmente, come fatto automatico di assunzione di iconografia.

B. Beh… le cose non andarono secondo una sequenza così netta. Nel ’61, anche perché ci furono fatti privati nuovi piuttosto traumatici, quel lavoro sulle tavole di carta si interruppe e tornai a usare i colori sulla tela con qualche ricaduta a “fare la pittura” con abilità.

Però a proposito di dada e di “immagini pronte all’uso” feci cose dipinte come Cake Mix e tele con i primi collages usando pagine fotografiche da riviste, impaginate nel colore dipinto. Qui, però, entrava in gioco un’altra componente. Nel dopoguerra, quando avevo 11 o 12 anni, mi capitò di scoprire un piccolo universo imagery americano sotto forma di riviste illustrate e fumetti USA di proprietà dei miei cugini bolognesi più grandi.

A quell’età non sapevo nulla di arte e la scoperta di quelle cose mi piaceva moltissimo: le pagine di pubblicità, le illustrazioni… il rapporto con quel tipo di comunicazione non si è più interrotto, si è via via approfondito. Direi che fu la prima rivelazione di ciò che per me erano le arti visive. Poi andai al liceo artistico e ricordo però che in quel periodo, oltre ai primi viaggi alle Biennali o a Milano a vedere Picasso nel ’53, la cosa che studiai con più intensità fu quel primo volume di Skira sui maestri dell’arte moderna. E così cominciai a rendermi conto di cos’era l’arte. Tuttavia, se è vero che l’Arte con la A maiuscola stava in una zona alta, sacrale e proponeva modelli titanico-etici (da Picasso a Mondrian) altrettanto intensi erano l’interesse e la familiarità con il mondo della comunicazione che procedeva e non era minore. Questo per dire che se all’inizio degli anni ’60 sentivo come attuali i riferimenti a dada, c’era anche un rapporto “naturale” molto forte con i fenomeni della comunicazione che d’altronde erano decisamente mutati e ingigantiti dai tempi delle avanguardie storiche. Direi che per il mio lavoro accadde come a quei fiumi che scorrono a lungo paralleli, poi a un certo punto si incontrano e mescolano le acque.

G. Quando tu immetti dei materiali prelevati, quando fai collage, non c’è tradizione di tipo cubista ma dadaista; poi fondamentalmente non t’interessa la procedura del collage, quanto l’assunzione dell’immagine. Giochi con le figure, non dici “faccio il collage” in termini linguistici, quindi extrapittorici: è piuttosto un modo molto diretto, molto icastico di convocare l’immagine in un contesto pittorico. Qui io vedo una differenza molto forte con esperienze anche affini che in quel momento si tentavano in Italia.

B. Direi di sì… nei collages fatti nel ’62/63  usai foto e illustrazioni tecnico-scientifiche trovate nelle riviste. L’idea di prelevare immagini “pronte all’uso” coincideva con quell’interesse che ti dicevo per le forme della comunicazione. Devo dire che non avevo mai smesso di comprare riviste, soprattutto americane, era un investimento rilevante, ma lo ritenevo indispensabile. Si è detto che la pop italiana, o meglio romana, non sia stata necessariamente tributaria rispetto a ciò che succedeva negli  Stati Uniti e in un certo senso è vero. Io comunque trovavo naturale prelevare immagini dalla comunicazione americana perché dentro l’enorme quantità di messaggi che proponeva mi interessava cercare sia i prodotti bassi, sia quelli più “alti” e complessi. Nel caso di Cake Mix dipinto nel ’61, mi era piaciuto riprendere pari pari la struttura di una pagina di advertising di dolci molto popolare per metà didattica e per il resto assolutamente sensuale con le creme, la cioccolata eccetera… Avevo letto I persuasori occulti di Packard.  La Lippard, nel suo libro sulla pop, insiste sul fatto che gli artisti americani avevano scelto intenzionalmente di riprendere le forme di comunicazione commerciale più “basse” perché sapevano che quelle “alte” erano fatte da veri artisti. È un giudizio che condivido, ho sempre pensato che un certo numero di art directors che stavano a Madison Avenue fossero molto più vicini alle idee di Duchamp e non meno degli artisti che si vedevano nelle gallerie.  Basta ricordare un personaggio come Henry Wolf, le campagne per la VW americana, le campagne Clairol e tante altre. Da europeo e italiano, non avevo complessi nell’utilizzare quei materiali, anzi mi sembrava piuttosto eccitante misurarmi con qualcosa che rifletteva, già molto chiaramente, una cultura che sarebbe arrivata anche da noi. Questo non era un atteggiamento di dipendenza, faceva parte di un approccio conoscitivo. I critici che scrissero dei pop romani in quei primi anni ’60 citavano la comunicazione di massa, l’irruzione dei media, lo spazio percettivo della metropoli moderna, ma ho sempre avuto la sensazione che non avessero idee chiare sui livelli ai quali era arrivata la comunicazione.

G. C’è un punto qualificante sul quale ragionare, ed è il fatto che la comunicazione visiva, l’aspetto professionale di fabbricazione delle immagini come lo praticavano  gli americani, aveva un grado di dialettica con l’arte alta che il loro pragmatismo permetteva:  il nostro crocianesimo non permetteva nulla di ciò. Là era normale che nascessero fenomeni come Steinberg e Glaser, di fatto attivi in entrambi i campi. Fare il pubblicitario, da noi, era una storia che riguardava Dino Villani e pochi altri signori; fare l’artista era tutt’altra faccenda e tra i due mondi non solo non c’era comunicazione, ma quasi un reciproco disprezzo.

B. È  vero… è vero anche negli Stati Uniti i consumi di massa, l’industrializzazione di tantissimi prodotti e la pubblicità si erano affermati pienamente fin dagli anni ’20 del ‘900. In Inghilterra c’era una certa tradizione, in Germania dopo la fase del Bauhaus c’era stato l’azzeramento fatto dal nazismo. Una gran quantità di gente talentosa era andata in America e per la comunicazione era successo come per il cinema e la musica, in quel grande mercato molte culture si erano fuse ulteriormente. Da noi, usciti dal fascismo e dalla guerra, c’erano due tendenze che riflettevano una arretratezza di fondo, una era quella della pubblicità pittorica…. ricordi la donna famosa di Boccasile per la pubblicità del talco? Niente male con le belle curve dorate. La seconda tendenza era piuttosto elitaria: c’erano cose belle, per lo più venivano dal razionalismo nordeuropeo se non dai costruttivisti russi, penso a Carboni, ai grafici della Olivetti; Albe Steiner lavorava anche per il PCI, ma dubito che le sue cose fossero percepite da molti italiani… Chi arrivò alle masse italiane fu Carosello che pur essendo stato rivisitato criticamente, resta più o meno avanspettacolo. Quelle immagini che dicevo, costruite dagli art director di Madison Avenue, si prestavano più di altre ad essere prelevate e rispettate nella loro struttura.  A suo tempo, se si farà una rilettura storica del mio lavoro, tengo particolarmente a questo dato…

Bignardi, Senza titolo, 1967

Bignardi, Senza titolo, 1967

G. … un dato che se vuoi spiega la tua vistosa anomalia, cioè che per te all’inizio è stato molto naturale usare altre visioni, e in seguito anche gli strumenti tecnici che l’industria metteva a tua disposizione e che invece nell’arte non c’erano. Probabilmente quando l’hai fatto non hai avvertito la discontinuità che il mondo dell’arte ha letto nel tuo passaggio al multimediale.

B. Ah…. sì…. le mie “anomalie” in relazione ad “altre visioni”. Prima di uscire dal sistema dell’arte, e questa fu l’anomalia più radicale, ce n’erano state un paio. La prima furono i “media trovati modificati” il Prismobile e il Fantavisore del 1965 e la seconda fu il Rotor, cilindro schermo ruotante con porzioni verticali di specchio che era un tutto unico con il film Motion Vision e una serie di diapositive. Il Rotor fu realizzato tra il ’66 e il ’67 ed era sicuramente anomalo rispetto a ciò che succedeva allora a Roma e in Italia (ma direi anche fuori), credo che si trattasse di una delle prime installazioni multimediali mai viste.

Beh… ecco… vedi, ho detto “installazione multimediale”, è una definizione venuta fuori più di recente, nel ’67 non si usava. Il Rotor nacque comunque dal lavoro sulle cronofotografie di Muybridge. Dopo i collages del ’62/’63 avevo ricominciato a usare gli strumenti del disegno e del colore, rielaboravo con tecniche manuali le immagini fotografiche, è il periodo dei Clairol. Conoscevo da tempo Muybridge, mi era sempre piaciuto molto, ma non avevo acquisito le sue cronofotografie come “oggetti” da mettere nei collages perché, fino a quel momento, le avevo intese come un fenomeno storico lontano. Ma poi proprio per l’esperienza dei collages attraverso la quale ero penetrato all’interno della struttura dell’immagine fotografica, e questo mi permetteva di reinventare il disegno e la pittura, le serie di Muybridge sul movimento dell’uomo e degli animali mi si rivelarono come un territorio aperto, una direzione del fare alla quale mi riallacciavo attraverso il tempo. Ti racconto tutte queste mie considerazioni su Muybridge perché è uno dei felici punti di svolta della mia storia. Muybridge, credo nel 1870, incontrò il Senatore Stanford, il fondatore della nota università, un grande appassionato di cavalli che gli domandò di chiarire, usando la foto, un vecchio quesito e cioè se, durante il galoppo, ci fosse un momento in cui tutti e quattro gli zoccoli del cavallo fossero sollevati da terra. Muybridge dimostrò che sì, il cavallo solleva tutti e quattro gli zoccoli, ma per arrivare a questa verifica aveva messo a punto il procedimento della cronofotografia riprendendo un movimento diviso in tanti momenti fissi con una batteria di macchine fotografiche che scattavano a tempo in sequenza. Questo fatto mi colpì molto, Muybridge non aveva agito mosso da finalità estetiche né era uno scienziato come Marey, si trattava piuttosto di un empirismo conoscitivo-creativo che indagava sui fenomeni dell’immagine e della percezione. Lavorai a lungo su questa linea: durante due anni realizzai un gran numero di tavole su carta dalla serie sul movimento dell’uomo e degli animali. Poi, quasi automaticamente, ci furono le prime riprese di cinema a 8 mm su quel materiale. Sempre con l’aiuto di Alfredo Leonardi, che aveva un’ottima esperienza di riprese, pensai di filmare delle persone nude che una dopo l’altra facevano movimenti elementari davanti a un fondale nero quotato. Quest’ultima fase di realizzazione del film Motion Vision fu un po’ lunga; chi si faceva riprendere nudo erano amici, ma non era facile trovarne tanti in breve tempo. E ancora, mentre finivo il film feci il progetto del Rotor che si riferiva anche direttamente agli apparati dei pionieri precinematografici. Il principio però era ribaltato, non volevo la percezione del cinema sullo schermo fisso, ma su una superficie cilindrica ruotante così che il movimento del film si sommasse al movimento di quella superficie.

Il cilindro aveva stecche di specchio che rimandavano porzioni di proiezioni sulle pareti circostanti. Questa installazione era realizzata con mezzi molto semplici, artigianali che comunque pagai di tasca mia. Il Rotor fu esposto in mostre oggi storiche, andò anche in un paio di musei tedeschi, ma non aveva le caratteristiche per entrare nel mercato di allora.

G. Probabilmente quando l’hai fatto non hai avvertito la discontinuità che il mondo dell’arte ha letto nel tuo passaggio al multimediale.

B. Tra la fine del ’68 e l’inizio del ’69 cominciò la mia collaborazione con la Olivetti. Successe all’improvviso, non ero stato io a cercarla. Gli eventi pubblici e privati mi avevano fatto vivere quell’anno 1968 con umori contraddittori. Alla fine degli anni ’60 l’Olivetti aveva una ottima immagine, stava esaurendo le produzioni elettromeccaniche per entrare decisamente nell’elettronica. Questa svolta significava nuove strategie, nuovi prodotti, un marketing di sistema completamente rinnovato, in definitiva una nuova immagine. A dirigere il settore comunicazione-immagine-design c’era Renzo Zorzi, responsabile anche delle edizioni di Comunità, ma il vero artefice della svolta tecnologica era un giovane manager (diventato poi un personaggio leggendario dell’informatica italiana) il quale aveva visto negli Stati Uniti delle presentazioni multimediali e voleva la stessa cosa per sé, anzi meglio. L’ufficio di Zorzi si era rivolto alla Politecne Cinematografica di Milano, e loro, che  erano miei amici e avevano visto Illuminazione, uno spettacolo del teatro di Mario Ricci da un testo di Nanni Balestrini per il quale avevo realizzato un particolare impianto scenico basato su prismi ruotanti sfalsati, con proiezioni di film e diapositive, dissero: “Non siamo in grado di fare cose simili, c’è Bignardi, un artista sperimentale, chiedete a lui”.  Mi chiamarono, incontrai Zorzi, poi il manager responsabile e il risultato di quegli incontri fu evidentemente convincente perché il giorno dopo ero a Francoforte per riunioni e sopralluoghi, l’Olivetti voleva iniziare con quelle presentazioni dalla Germania. Questo racconto serve a far capire il clima di quegli anni. Accettai quella specie di sfida perché cercavano soluzioni innovative. Le soluzioni che avevo in mente trovarono i mezzi per essere verificate e realizzate. Un primo problema tecnologico consisteva nel disporre di un sistema di controllo per multiproiezioni sicuro, flessibile e con dimensioni compatte. Allora non esisteva nulla di simile in commercio. Sapevo cosa volevo ottenere da gruppi di proiettori di diapositive, col lavoro di due ingegneri si arrivò ad avere un mini-computer che dava risultati soddisfacenti. Quelle prime presentazioni consistevano in multivisioni impaginate in strutture che si potrebbero definire teatri audiovisivo-multimediali. Nelle varie configurazioni degli schermi si sommavano contemporaneamente proiezioni dia, cinema e/o una teleproiezione in diretta quando era necessario dimostrare l’operatività di una macchina in tempo reale. Tutte queste informazioni audiovisive erano graduate, per composizione nello spazio e per equilibrio percettivo, con ritmi e sequenze tali da rendere la comunicazione chiara e piacevole. Furono un vero successo e per un anno le seguii in tutta Europa e in Giappone.

Bignardi, Senza titolo, 1967

Bignardi, Senza titolo, 1967

Nel 1969 avevo cominciato a lavorare a un progetto che derivava direttamente dal medium-trovato-modificato del 1965 il Fantavisore, basato sul principio dello specchio schermo. Il Fantavisore era un oggetto di piccole dimensioni realizzato con mezzi artigianali, ma appena lo finii pensai subito di realizzare un grande ambiente con pareti di specchi-schermi in cui le immagini luminose proiettate si riflettessero da un muro all’altro e nel quale gli spettatori si specchiassero a loro volta circondati da un suono quadrifonico. L’idea era di uno spazio virtuale che dissolve la rigidità della struttura solida in un regime di leggerezza e trasparenza dove le immagini si animano. L’Olivetti stava per lanciare una nuova serie di mini-computer e quell’idea di ambiente specchiante a coinvolgimento totale fu accettata per presentarli. Anche qui si verificarono problemi tecnici che non avevo previsto, gli specchi di cristallo dovevano essere trattati in modo da funzionare anche come schermi otticamente perfetti. La soluzione fu di trattare chimicamente una delle facce delle lastre di cristallo in campane sotto vuoto. Fu potenziata l’unità per governare i proiettori e poi bisognava adottare una tecnica fotografica particolare per avere immagini luminose che galleggiassero in un buio assoluto, ogni diapositiva (in un programma ce n’erano più di duemila) doveva essere realizzata con questa tecnica e le immagini da proiettare dovevano anche essere scelte e progettate per funzionare in quella particolare condizione percettiva. Come vedi era un misto di tecnologia e alto artigianato fotografico. Il sistema doveva essere facilmente smontato e imballato per installazioni in luoghi diversi. Adesso si trattava di dargli un nome; incontrai Franco Fortini che era consulente della Olivetti e che disse: “Potremmo chiamarlo Implicor”. Mi piacque. L’Olivetti usò l’Implicor con successo per la presentazione di quei nuovi computer. Ricordo che le immagini proiettate di quei prodotti erano continuamente contrappuntate da ritmi visivi sul mondo dei numeri e del calcolo. La colonna sonora era di Sciarrino. In seguito, poiché il primo impatto promozionale di quel sistema (era andato ovunque, anche in Australia) si era esaurito e c’erano richieste di vari enti culturali che chiedevano di utilizzarlo, si stabilì una specie di accordo: l’Olivetti, in quanto sponsor, forniva la struttura (hardware) e a me rimaneva il controllo del software cioè l’ideazione e la produzione dei programmi. Così, dal ’70 al ’74 l’Implicor comunicò molti argomenti per lo più di design, architettura e urbanistica. L’edizione più nota è quella che andò al MoMA di New York per l’esposizione “Italy, the new domestic landscape” nel 1972. Agli americani piacque, Philip Johnson ne parlò bene in un articolo sul “New York Times” e uscirono recensioni su riviste di visual communication dove si diceva che era una delle cose più interessanti della mostra. I nostri critici d’arte non se ne accorsero, ma non mi ricordai di trascinarli a vederlo e chi si occupava di design non lo considerò perché era un medium di comunicazione e non un prodotto, appunto, di industrial design.

G. È  un caso curioso, era una specie di terra di nessuno, non era riconosciuto e non era riconoscibile come esperienza artistica, e probabilmente non era riconoscibile come nient’altro…

B. Sì… hai ragione era un vero “altrove”… Ricordo di aver letto, periodicamente, la tesi posta da alcuni critici molto “organici” al sistema in cui si suggerisce che una possibile prospettiva dell’arte starebbe in un “altrove” che non è necessariamente lo stesso sistema dell’arte. Sta di fatto che appena il sistema si accorge di uno di questi altrove lo ingloba, e la cosa in sé non è particolarmente negativa, è uno di quei fenomeni irreversibili come il mutamento climatico del pianeta o la crescita demografica nel terzo mondo. Io stavo in un vero “altrove”. L’Implicor era molte cose contemporaneamente: un mezzo di comunicazione che funzionò perché c’erano dei committenti, e credo che questa condizione, finché è esistita, lo rese vivo. In un certo senso era un’opera, non nel senso di opera d’arte fatta per rimanere, ma perché sia la struttura materiale, oggettiva, fatta di metallo, cristalli-schermi e sistemi di proiezione aveva una sua consistenza costruttiva originale destinata a uno scopo ben preciso, sia perché le condizioni percettive della comunicazione che proponeva di volta in volta erano caratterizzate da uno stile unico. Più di dieci anni dopo che la stagione dell’Implicor era finita (l’ultima edizione fu nel ’74 a Bologna con un programma  sui piani degli urbanisti del Comune guidati da Cervellati presentato a un convegno internazionale sulla salvaguardia delle città antiche e dei centri storici), mi capitò di vedere il catalogo della mostra “Magiciens de la terre” al Centre Pompidou. Pensai che l’Implicor avrebbe potuto essere presente in quella mostra, ma mi resi anche conto che era un’ipotesi assurda. Poi anche Sargentini, dopo la mostra al MoMA del ’72, si fece vivo, ma in realtà non mi interessava.

G. Perché non t’interessava?

B. Ho raccontato del Rotor. Era stato presentato da Boatto, Calvesi e Celant, c’erano state buone critiche. Nel ’67 si era visto in mostre divenute, come si usa dire oggi “mitiche”, in seguito era stato esposto in un paio di musei tedeschi. Non c’era da lamentarsi. Tuttavia sentivo che per andare avanti su quella strada le condizioni in cui lo avevo realizzato non potevano più essere le stesse. Ho già accennato che una realizzazione di quel tipo, pur avendo usato mezzi “poveri”, era stata tutta a mio carico (come d’altronde i lavori che avevo fatto a teatro con Ricci, sempre nel ’67). L’Attico l’aveva esposto, ma non era intenzionato ad acquistarlo, d’altronde io per primo sapevo che era un prodotto difficile per il mercato di allora. Anche quel lavoro teatrale Illuminazione fu considerato uno degli esempi più significativi di Teatro immagine nell’ambito di quelle avanguardie nelle cantine romane. Non c’è dubbio che Mario Ricci, in quell’occasione, diede molto spazio alle mie idee, tuttavia il suo teatro nasceva da una linea diversa. Capii che se volevo seguitare avrei dovuto metter su un teatro tutto mio. Ma poi credo di aver già detto che col ’68 ci furono eventi privati che mi misero in crisi. Ora che ho 70 anni e che mia madre non c’è più, credo di poter dire qualcosa che nell’ambiente si sapeva, ma che non ho mai raccontato pubblicamente: la storia di mio fratello. Mio fratello Vittorio aveva 5 anni meno di me, nel 1960 era stato molto male psichicamente, fu curato, seguito, riprese a studiare e arrivò a Roma alla facoltà di architettura, andava avanti con molta fatica. Nel ’68 frequentava il secondo anno, improvvisamente, nei primi scontri all’Università di Roma rimase ucciso un suo amico (si chiamava Rossi) e poi arrivarono i fatti di Valle Giulia. Quello che per lui era un riferimento di precaria stabilità si disintegrò e anche lui si disintegrò. Dopo una prima durissima fase di crisi disse: “Non voglio più studiare architettura voglio fare l’artista”. Trovai naturale farmi da parte e poi avevo bisogno di notevoli somme di denaro, dovevo aiutare mio fratello a curarsi e a vivere tra le persone.

Tornando alla tua domanda, si sa che molti artisti portano avanti più cose contemporaneamente, tengono il piede in più staffe, per me sarebbe stato troppo difficile. L’Implicor aveva avuto una sua storia, non c’era senso a costringere un’idea simile tra le pareti di una galleria privata. Bene o male era stato al MoMA e, nel ’72, molti miei compagni di strada non avevano avuto un’esperienza simile. Alcuni mi dissero: “beato te che te ne sei andato”, e altri: “sei diventato un servo dei padroni”, qualcuno aveva lasciato le arti per dedicarsi all’attività politica.

G. A proposito di questo, ho una curiosità che ci riporta al ’59-’60, alle prime letture della cosiddetta pop italiana: sono letture che di fronte all’immagine di massa, quindi all’immagine con una forte connessione commerciale, hanno bisogno di erigersi un côté di tipo moralistico, ideologico. Da noi la riproduzione dell’immagine mediatica deve essere denuncia, mentre per gli americani è ipertrofia, monumentalizzazione fredda della cosa. Rispetto a tutti questi atteggiamenti variamente moralistici più ancora che politici, un uso fondamentalmente criticistico qual era il tuo, veniva percepito come differente?

B. Ma…. direi che per la mostra alla Tartaruga del 1963 dove esponevo i collages su tela, Forrest Williams fece un’analisi giusta di come usavo le immagini prelevate dalla comunicazione. Citava Ernst Cassirer e la sua definizione “coscienza mitica” in relazione alla virtualità delle immagini fotografiche costruite rispetto alla realtà. Senza scomodare Spengler sui tramonti e declini dell’Occidente, tanto più che come ha scritto Hobsbawn nel suo Secolo breve, quei primi anni ’60 furono il culmine di quella che ha definito “età dell’oro”, c’era già in quel mondo di immagini qualcosa di fascinoso e drammatico al tempo stesso. Infatti non ho dubbi che ci fossero chiare indicazioni di terribilità e predestinazioni oscure nelle pubblicità americane di cibi piuttosto che in tanta arte fatta con intenti ideologici. Comunque direi che le critiche che ci furono su quei miei lavori si concentravano sulle caratteristiche del linguaggio formale.

G. Allora si diceva che il destino della ricerca artistica era confluire nella comunicazione di massa, il che presuppone la tecnologia, il che presuppone di nuovo la proprietà dei mezzi di produzione. Ma i mezzi di produzione chi ce li mette?

B. Beh….è innegabile che i mezzi di produzione dell’arte sono i capitali connessi al suo mercato e mi sembra di capire che l’area dell’arte sia una delle più sfrenatamente concorrenziali e crudelmente selettive, non mi sembra ci siano alternative. Nel ’64 partecipai ad una mostra di giovani italiani al museo di Lund, città universitaria assai carina nel sud della Svezia. C’erano Battaglia, Cintoli, Schifano ed altri. Fui l’unico ad andare, non ero ancora mai stato in Scandinavia ed ero curioso di vedere. Lì ci furono feste e conferenze e poi andai a trovare alcuni giovani artisti e compresi molto bene il senso delle arti protette nelle socialdemocrazie nordiche, un welfare dell’estetica. Il risultato non era molto confortante. Tornando al mio periodo di collaborazione con le grandi aziende, quando lavoravo con la IBM  (sono stato loro consulente per più di dieci anni) mi occupavo principalmente delle grandi convention annuali dove c’erano mediamente duemila partecipanti ed erano veramente grosse macchine comunicative mitico-rituali in cui si usavano tutti i media in una perfetta sequenzialità teatrale. Ecco, per questi eventi che naturalmente non hanno nulla a che fare con l’arte, i mezzi impiegati erano veramente notevoli, investimenti per manifestazioni molto particolari che il grande pubblico non conosce, riservate a persone selezionate in base a criteri meritocratici e dove primeggiavano meccanismi di gratificazione e rafforzamento dello spirito di appartenenza. Si trattava di una abnorme magnificenza, era parte di quell’assetto per “apparati “ e “sistemi” in cui si configura una certa immagine di potenza. Sono stato tentato di stabilire una similitudine tra queste liturgie laiche delle corporation e l’ “effimero barocco” perché è un accostamento piuttosto suggestivo. Ma, al di là di qualche similitudine nella teatralità formale, l’effimero barocco era destinato al popolo, alla totalità dei cattolici nella controriforma. Le manifestazioni di una multinazionale come la IBM degli anni ’80 assomigliavano più a un rito esclusivo per gruppi quasi aristocratici, qualcosa come i cavalieri dell’età feudale. Il vero effimero contemporaneo è sempre più nella televisione. Non ho mai avuto interesse a fare cose per la comunicazione di massa.

G. A proposito di tecniche, di mezzi di produzione. In fondo è la ragione del fallimento del cinema d’artista, fallimento nel senso che ha prodotto un po’ di sperimentazione, che noi tendiamo a monumentalizzare, ma non molto di più. C’è stata da un lato una cattiva vulgata dadaista, cioè che qualsiasi cosa l’artista tocchi è artistica. E c’è stato, in secondo luogo, una sorta di sospetto verso l’ingranaggio: vorrei metter le mani lì dentro, ma se ce le metto troppo dopo divento un elemento del sistema. Tanto che poi si concepiscono dei paradossi come quello di Gore Vidal, secondo cui per essere un grande artista contemporaneo uno non deve avere né talento né conoscenza. C’è stato quasi un orgoglio dell’incompetenza come identificativo dell’artistico, che oggi vedo proseguire identico in  ambiti come la videoarte.

Ebbene, le tecnologie che usavi tu, come poi l’informatica, presuppongono una conoscenza perfetta e strumenti adeguati. Nel tuo caso dimostravi, come dimostra oggi gente come 01.org con i computer, che devi avere una padronanza pazzesca del mezzo tecnico. Per un sacco d’anni, con l’alibi dada ci siamo raccontati l’ignavia tecnica come un valore.

B. Quasi tutti i pittori che hanno fatto del cinema, per lo meno negli anni ’60 (dopo arrivarono le prime telecamere portatili), hanno realizzato il cinema-cinema, c’era una notevole distanza tra quello che dipingevano e i loro film. Qualcuno sostiene che questa distanza tra i due linguaggi era giusta e inevitabile data la specificità dei mezzi. Io produssi non certo una gran quantità di cose, mi interessava l’immagine in movimento, sia come fenomeno primario (Muybridge), sia in termini tali da contraddire la condizione usuale nella quale si percepisce un film e cioè entrare in una storia tuffandosi completamente dentro il rettangolo dello schermo. Credo che i lavori di cinema che ho fatto, in quanto artista, appartengano a quello che Gene Youngblood ha chiamato “expanded cinema”. Una tecnologia non molto conosciuta è quella dei sistemi multivisivi o multimmagine (proiezioni di diapositive, cinema e tv integrate) qualche cosa di molto particolare che data la complessità di gestione e i costi molto alti è andata gradualmente scomparendo dalla scena. Ti dicevo di quelle grandi convention IBM per le quali si era consolidata una sorta di tradizione, naturalmente di matrice americana, che richiedeva un alto grado di spettacolarità. Però, trattandosi di una company avanzata e con pretese culturali “serie” (il fondatore era quacchero), rifiutava linguaggi di genere pubblicitario e da intrattenimento televisivo. Si trattava quindi di ideare formule comunicative vivaci e brevi con stilemi, simbologie e metafore visuali realizzate con un certo “stile”. Non mancavano momenti di humour soprattutto quando venivano premiati gli officers cioè i migliori di ogni dipartimento. Tutto questo in grandi impianti in cui la tecnica multivisiva con diapositive consentiva di inventare schermi di formati completamente diversi dagli standard cinematografico  e televisivo. Per esempio un rettangolo di forma avvolgente di 6 m di altezza per 24 m di base.  In un campo visivo di questo genere si potevano ottenere immagini totali perfette e una gran quantità di effetti compositivi, non solo con la proiezione di diapositive, ma integrando a questa l’inserimento di spezzoni di cinema  e/o teleproiezioni. Questi effetti erano anche ottenuti con forme insolite, nella proiezione di immagini fotografiche si aprivano delle finestre a registro con dentro films e video anche di formati circolari, romboidali, eccetera… Come vedi qualche cosa di notevolmente sofisticato realizzato con tecnologie non certo destinate a comunicazioni di massa.

Succedeva di collaborare con ingegneri e specialisti di software che si divertivano molto ad occuparsi di cose fuori dalla loro routine abituale. Questi impegni sono durati sino alla fine degli anni ’80 quando quel certo capitalismo maturo che sembrava incrollabile (come il muro di Berlino) ha iniziato la sua fase discendente. Tra il 1991 e il ‘92 ho chiuso quelle attività e devo ammettere che si trattava di operazioni abbastanza folli perché non avevano repliche, duravano il tempo di quel determinato evento e poi erano distrutte. Dicevo che questo tipo di eventi restano sconosciuti sia al grande pubblico sia a chi si occupa di arte. Nel mio caso l’unica cosa certa è che tutto ciò che ho fatto in quegli anni è andato distrutto.

G. In effetti, il fatto che fossero delle cose che si consumavano, che si esaurivano nella loro funzione, rimane un elemento molto negativo.

B. Ma… molto negativo… dipende da che punto di vista, non avevo comunque intenzione di manifestare rimpianti. Pensa ai soffitti alla Triennale con i neon di Fontana, probabilmente nella totalità del suo lavoro quei neon sono considerati minori. Fontana è universalmente identificato come l’artista che fa i buchi e i tagli nelle tele. Secondo me quei disegni aerei di neon sono una delle sue cose più belle, eppure erano considerati effimeri. Molte opere sono state progettate e realizzate, in occasione di eventi, sapendo che sarebbero poi scomparse, penso a quello che ormai appartiene alla memoria storica perché fatte tre gli anni ’50 e i ’60: il padiglione Philips (Poème électronique) di Le Corbusier, Xenakis e Varèse a Bruxelles nel ’58; l’allestimento per un’immagine degli Stati Uniti che Charles Eames realizzò nel ’59 e che consisteva in una grande cupola di Buckminster Fuller con dentro un sistema multimmagine a sette schermi piazzata nel parco Sokolniki di Mosca, in occasione di uno dei primi episodi di distensione; e ancora Eames con Saarinen, realizzarono un teatro multimmagine multimedia dentro una forma a uovo sospesa per la IBM, alla fiera mondiale di New York nel ’65  poi Svoboda con un gruppo di tecnici portò all’Expo di Montreal nel ’67 una multivisione con 112 retroproiezioni in cubi mobili allestita nel padiglione cecoslovacco. Ho elencato questi esempi, e ce ne sono altri, perché rappresentano molto bene quello che intendevo dire. Certo sono grandi esempi, il mio lavoro è stato molto molto più modesto, però le immagini prevalenti dei personaggi che ho citato sono quelle dell’architetto, del designer di mobili e di scenografo teatrale. Certo le loro attività principali erano quelle. Cosa resta di quei lavori destinati alla distruzione? Disegni, bozzetti, foto, qualche filmato che non sono naturalmente in grado di restituire il senso vero che quelle opere avevano quando erano vissute o, come si usa dire, fruite dalle folle. Ora l’arte è molto attenta alle formule performative, quelle erano cose ottime, furono ideate sapendo che finito l’evento sarebbero state distrutte ed era giusto così. È   una questione che resta aperta. Ho sempre considerato quei lavori più significativi di tanta roba che sta nei sacri perimetri dove si conserva l’arte. Prima citavo l’età dell’oro nel “secolo breve” appena passato, quelle esperienze realizzate per i grandi eventi non a caso nascevano in quel periodo da committenti che oggi non esistono più, o meglio, se qualcuno oggi può eguagliarli non ha l’intenzione, dato lo scenario attuale, di investire in quella direzione. Probabilmente la televisione e la telematica in quanto fenomeni globali hanno preso il sopravvento. Da quegli immani tritatutto che sono, rappresentano una delle realtà tecnologiche che hanno spostato le condizioni della percezione nel senso più ampio influenzando, ovviamente, le arti. In certi casi la televisione offre esempi di questa diversa condizione percettiva che sono unici e insostituibili. È  il caso delle torri di N.Y. colpite dagli aerei, tutto sta nel fatto in sé che si brucia in tempo reale e quel fatto contiene un’infinità di significati tanto da determinare una qualità, nella percezione, che non consente repliche. Non si tratta di cercare accostamenti tra un simile evento e l’arte, è pur vero però che alcune forme d’arte vorrebbero misurarsi con il peso specifico qualitativo di questa percezione composita.

G. È  la cosa che ha percepito Stockhausen, anche se non ha trovato il modo giusto per dirlo. Rispetto a un secolo in cui l’arte ha prodotto principalmente simulazioni di reato, l’attacco alle torri ha messo gli artisti di fronte al fatto che quello era un reato non simulato, una visione, un estremo mediatico che nessun artista potrebbe toccare mai: ciò ha azzerato completamente la possibilità di continuare con i soliti giochini di provocazione gestibile.

B. Si sa che le provocazioni avvengono più o meno a livello simbolico e non hanno senso se non sono amplificate dall’informazione mediatica che mira sia all’area alta degli specialisti e del mercato, sia al pubblico di massa. In questi casi la qualità creativa sta nel far rimbalzare al meglio l’eco di quell’azione che è poi un tutto unico con l’immagine di chi l’ha fatta. Oltre alla qualità di partenza dell’oggetto da cui muove l’azione, è determinante da parte dell’autore la capacità di agire in una zona intermedia tra la regia mediatica e le strategie di marketing. Trovo che siano posizioni interessanti, riflettono piuttosto bene la realtà dei nostri giorni. Forse ti ho già detto che data la mia storia mi ritrovo in una zona neutrale. Da quando mi sono riavvicinato al lavoro di “artista” ho ripreso a usare mezzi apparentemente semplici come il disegno su carta perché è una dimensione più intima del fare e, direi, mi permette di controllare l’azzardo nel riaffrontare l’esplorazione di un territorio molto ampio dove tutto è degno di essere considerato. Credo sia una condizione in cui riesco ad agire, pur non avendo idea di dove andrò.

G. Questa parcellizzazione, questa frantumazione, tu la percepisci almeno come il brodo di coltura di possibilità nuove, oppure di fine di una vicenda di storia culturale senza che si intravedano ancora le cose nuove?

B. C’è chi ha detto che la mia generazione è stata protagonista di una neoavanguardia, ma può essere anche che sia stata la protagonista della fase finale di ciò che prese il via all’inizio del XX secolo. Non saprei dare un giudizio. Seguita a convincermi quella idea di “sequenza formale” che c’è ne La forma del tempo, storia dell’arte e storia delle cose di George Kubler perché è una visione sull’andamento delle arti che tende ad andare oltre le classificazioni rigide riferite a periodi, stili, generi, eccetera… Questo per dire che essere classificato come “artista pop italiano che agì a Roma negli anni ’60” è corretto e anche gratificante, ma lascia in ombra molte altre cose. Ci sono sequenze formali costituite da fili uniti in fibre che attraversano il tempo muovendo in una direzione non necessariamente rettilinea verso la soluzione di un problema. Naturalmente penso che il problema non sia mai risolto. Ho ripreso a fare il lavoro dell’ “artista” nel 1992 quando ho chiuso definitivamente quelle mie attività “mercenarie”. Evidentemente mi sono ritrovato solo con me stesso, con un notevole archivio personale e la storia, quella passata e quella che si fa giorno per giorno. Dicevo che è un grande territorio da esplorare. L’innovazione digitale ha dato accesso a un universo di immagini e suoni in termini inimmaginabili fino a non molto tempo fa. Tutto questo non è per me tanto un’indicazione di operatività tecnica, che comunque mi interessa, quanto una specie di riallineamento del tempo attraverso l’orizzontalità e la panoramicità dei dati. Ci sono connessioni, interazioni, contraddizioni, frantumazioni, ovviamente contaminazioni e poi molteplicità, complessità, casualità, eccetera… Non è comunque solo un fatto di memoria. Mi piace muovermi in questo territorio e filtrare tutto quello che incontro attraverso le vecchie tecniche manuali. Non saprei dire se è una cosa nuova.

G. Quando tu facevi quelle cose, rispetto alla questione dell’identità, cosa pensavi di essere?

B. Nel catalogo della mostra al MoMA nel ’72 risultavo “designer e art director” dell’Implicor. Alcuni minuti prima dell’inaugurazione di quella mostra entrò nello spazio dove era allestito l’Implicor Ettore Sottsass che mi si rivolse dicendo: “Noi artisti…”, non ricordo il seguito. Nella presentazione che mi fece per una personale al Deposito di Boccadasse nel ’67, Celant scrisse che i disegni da Muybridge erano un design dell’immagine in vista di uno specifico filmico. Poi, quando sono stato invitato alla mostra “La sindrome di Leonardo – artedesign in Italia 1940/1975” organizzata a Torino da Biffi Gentili nel ’95, c’erano i lavori di pittura e scultura di quasi tutti i designers italiani e c’era anche uno dei miei Clairol del ’64. Il fatto curioso è che io ero là come una specie di viceversa perché si trattava di un pittore che si era messo a fare il designer delle comunicazioni. Come vedi ci sono molteplici identità.

G. Nel frattempo la guardavi l’arte? andavi avanti a guardare l’arte, andavi alle mostre?

B. Quando potevo andavo a vedere… Ho assistito ai vari passaggi attraverso i decenni. Credo di aver detto che la mia situazione mi rendeva in un certo senso neutrale. Quando vidi le prime cose della transavanguardia in linea di massima non mi dispiacquero, molti erano stati presi in contropiede da quella tendenza e la giudicavano “regressiva”. Forse quello che mi piacque fu il fatto che si affermassero sul mercato, in quanto opere di tutto rispetto, degli acquarelli fatti su carte enormi, o altrettanto grandi disegni a carboncino o pastello su carta da spolvero. Naturalmente le immagini acquarellate o disegnate erano quello che erano. Mi piacevano certi artisti-fotografi e alcune installazioni. Ricordo anche delle letture come un libro  uscito all’inizio dei ’90 che riportava la trascrizione degli interventi in un convegno dei critici d’arte dove c’erano quasi tutti, da Argan ai più giovani e aveva per tema “Arte: utopia o regressione?”. Da quello che ricordo non mi sembra che le considerazioni conclusive di quel convegno siano granché diverse da ciò che si potrebbe dire oggi.

G. Invece rispetto ai grandi fatti mediali, cose tipo Jarre, tipo The Wall, queste operazioni dentro e fuori da più confini?

B. Nel corso degli anni ‘90 ho tenuto dei corsi di scenografia a Brera, non avevo mai avuto esperienze di insegnamento prima. Il rapporto con i ragazzi mi incuriosiva. Portavo diapositive e videocassette compresa quella di The Wall e in questo caso cercavo di far capire ai ragazzi che quel video rappresentava uno stravolgimento dell’evento originale perché ciò che si percepisce in un monitor tv è una specie di falso spaziale. I grandi fatti mediali, come The Wall, sono percepibili in due modi: il primo è esserci  fisicamente in relazione allo spazio reale di quella tal piazza di Berlino e alla grande installazione, il secondo è la versione video dove l’evento viene compresso nel formato dogmatico del telescopio (oggi anche del display dei nuovi telefonini). Un dato che registrai fu la quasi assoluta ignoranza dei nuovi iscritti a scenografia su cosa sia un teatro, un po’ meno sul cinema, qualche cosa sui computer. Le nuove generazioni sono decisamente teledipendenti. A proposito di Berlino facevo fare anche esercitazioni riprendendo le idee teatrali che Erwin Piscator realizzava in quella città negli anni ’20, uno dei primi esempi di multimedialità con l’uso di proiezioni cinematografiche integrate alle strutture di scenografia e uno dei primi usi di amplificazione audio. Per le ultime generazioni  “multimedialità”  è una voce che riguarda certi prodotti della telematica. Non sono mai riuscito a trasportare nella dimensione pubblica e in una scala abbastanza grande certe idee. Ho tentato col progetto per la performance Ritorno alla città per il festival “Netmage” nell’ambito di Bologna 2000. Il progetto prevedeva 3 punti o stazioni nella città con installazioni e riprese video in diretta di musica live e video preparati appositamente. Le riprese tv avrebbero dovuto rinviare le immagini da una stazione all’altra. Sono riuscito a realizzare solo due stazioni, una al centro Link e l’altra al teatro anatomico dell’Archiginnasio dove ho installato il Rotor sul tavolo di marmo dove venivano stesi i cadaveri. La terza stazione doveva essere una grande pedana rialzata nel centro della piazza Santo Stefano con prismi-schermi ruotanti e sfalsati investiti da teleproiezioni e con la Banda Roncati, un complesso di ragazzi molto bravi, che li attraversava suonando secondo una certa coreografia.  Era l’installazione più costosa e i fondi di cui disponevo non bastavano, un paio di sponsor ci avevano ripensato. Così Ritorno alla città ha mancato quella presenza nello spazio urbano più ampio ed è stato visto solo da chi ha frequentato il Link. Un reportage video è andato in onda su Rai Sat, ma si sa che sono reti seguite da pochi.

G. Il sistema dell’arte ha stabilito una territorialità così salda… ha prevalso l’amministrazione. Quelle cose non dovevano esistere perché non si potevano amministrare. Come la land art, in fondo…

B. Il sistema dell’arte mi fa pensare alle considerazioni che si trovano nel libro di Umberto Galimberti Psiche e techne – l’uomo nell’età della tecnica, dove per tecnica non si intende solo tecnologia, ma piuttosto l’insieme consolidato dei vari apparati e/o sistemi in tutti i campi che tenderebbero a vivere secondo regole proprie di crescita e affermazione non essendo più strumenti, ma piuttosto soggetti che scavalcano la soggettività decisionale degli uomini che pretendono di governarli. Nel libro c’è una domanda finale: “Se prima ci domandavamo cosa possiamo fare noi con la tecnica, ora possiamo cominciare a chiederci: che cosa la tecnica può fare di noi?”

G. Di mondi eterogenei come Fluxus ti interessavi?

B. Negli anni in cui apparve Fluxus ne ebbi una conoscenza molto parziale. A Roma arrivavano alcune cose e quello che vidi mi piacque, ma è uno di quei casi in cui per avere un rapporto vero è necessario viverlo dal di dentro, farne parte. Questo per me voleva dire mollare tutto ed andarsene. Nel ’66 a New York c’erano stati i “Nine Evenings of Theatre and Engineering” all’Armory, quella era una dimensione di lavoro che mi attraeva molto. Nello stesso anno avevo concorso per una borsa della fondazione Arkness per andare due anni negli Stati Uniti con un preciso programma di ricerca, ma non riuscii ad ottenerla. Ricordo comunque altri umori, per esempio una frase di Kounellis che lessi nella trascrizione di un dialogo tra lui, Beuys, Kiefer e Cucchi avvenuta in un museo svizzero alla fine degli ’80. Jannis diceva che quella classe borghese che aveva dato un metro all’andamento dell’arte non c’era più, che gli artisti (negli anni ’80) l’avevano appena scoperto, mentre era un fenomeno accaduto già dai tempi della prima guerra mondiale e questo determinava l’estrema fragilità dell’artista. Mi colpì molto quel tono nostalgico riferito probabilmente a personaggi come Gertrude Stein. I sistemi si erano andati consolidando da parecchio tempo.

G. Quando decidi di rimetterti a fare cose, ricominci dal disegno, dalla narratività di flusso, in cui c’è dentro tutto, l’à rebours, l’oggi. Perché ti sei rimesso a disegnare?

B. Quando ho chiuso le mie attività di consulente e produttore di comunicazione mi sono ritrovato in una condizione piuttosto particolare. Per più di vent’anni ero stato assorbito da quell’attività in modi e ritmi molto intensi, ora c’era una specie di vuoto abbastanza sconcertante. Tuttavia, durante quei vent’anni non avevo mai smesso di disegnare, avevo filtrato attraverso il disegno migliaia di immagini delle più svariate provenienze, progettando centinaia di programmi e disegnando, appunto, altrettanti storyboard. Il disegno era il mio filo o meglio la mia fibra (nel senso di Kubler) e così ho seguitato a disegnare. Per “disegno” intendo ciò che dicevo all’inizio riferendomi a Twombly e Novelli, non tanto la tecnica in cui una punta di grafite si muove su una carta, quanto una misura per agire, muoversi per esplorare e conoscere (così come agì Muybridge con la foto). La tentazione di realizzare anche performances multimediali c’è stata, ma sono episodi nati più dalla particolarità di momenti di relazione quasi privati, come il rapporto, direi transepocale, con una generazione di giovani musicisti che considero tra i migliori formatisi nell’area bolognese. Quindi non ho la pretesa di aspirare a uno di quei posti in cui si designano, come in un organigramma, gli artisti multimedia anche se indubbiamente ho fatto alcune cose e prima di altri. Ho raccontato dettagliatamente ciò che facevo con le multinazionali per rendere comprensibile il divario che ci sarebbe ad insistere per realizzare progetti nel ruolo di artista, fatti con mezzi poveri, rispetto a quelli di cui disponevo in quel sistema che trovava coerente fornirmeli. Ho verificato che adesso cercare quei mezzi che darebbero sostanza ad eventuali idee costituirebbe una fatica troppo grande. Ciò non toglie che se si creassero opportunità favorevoli, non ci rinuncerei.   Il disegno è un terreno sicuro. Lavoro a strappi e a cicli perché il problema non è fare, ma essere nelle condizioni di fare. Appartengo a una generazione che, bene o male, si è formata in relazione ai concetti di identità, libertà, verità, senso, scopo. Ora la tendenza che sembra prevalere e non solo nelle arti, si potrebbe riassumere nello slogan “La cosa che più conta è che il sistema funzioni” e l’ho ben verificato vivendo e operando in quell’altrove. Ciò tenderebbe verso una sorta di insignificanza del nostro modo di esistere.