Pirandello
Pirandello. Il secondo dopoguerra, in Fausto Pirandello, catalogo, Palazzo Reale, Milano 23 giugno – 1 ottobre 1995, Charta, Milano, 1995
Alla Biennale veneziana del 1950, nel pieno delle “urla da opposte barricate” (Arcangeli) per la nuova arte italiana, Fausto Pirandello presenta una sala impostata su alcune pitture nuovissime: due versioni di Bagnanti, Nudo, La vigna, Natura morta con quaderno.
Lontano è il “galateo dei colori” che già Corrado Alvaro notava assente nella strepitosa personale romana al Secolo, 1947: lontana ogni traccia residua del pur tormentato e ansioso tonalismo che faceva dell’artista una coscienza critica della compagine lata della scuola romana. Dalla fine del decennio precedente, altre vie ha preso la riflessione dell’artista, aliena ormai dalle grazie allarmate, dalle brulicanti e come dolorose sensuosità, dai pur rattratti trionfi visivi dei suoi anni trascorsi. L’introversione sua per vocazione, l’ethos tutto pittorico, soprattutto, l’inflessibilità dell’analisi digrignante e ostinata, l’avvertimento d’una espressività che vuol misconoscere ogni poggiatura retorica (e perciò si dà come atavicamente impastata di tragedia antica più che di patetismo moderno: così posson leggersi fruttuosamente, forse, le sequenze ossessive d’autoritratti): questi i caratteri che inducono Pirandello, consapevole del mutar d’epoca, a non cercare una qualche plausibile evoluzione del proprio fondamento pittorico, ma ad affrontare con coraggio ultimo la concentrazione e la distillazione definitiva delle sue mozioni prime.
Egli cerca, dunque, una naturalità, e la forma pittorica possibile della naturalità, oltre, sono parole sue, “il pregiudizio del verosimile”: per via di decantata scrittura pittorica, e di definitivamente identificata materia pittorica. Ciò che si svolge nel suo studio, in questi anni, è un profondo e impietoso à rebours nella sua storia artistica tutta, a riconvocarne ogni elemento, e su ogni elemento riflettere, analiticamente, selettivamente, alla ricerca di un nuovo e non strategico, non occasionale, statuto di necessità. Si stabilizza e regolarizza, da un canto, il repertorio tematico, al quale egli non può e non vuole rinunciare, ma che deve essere ricondotto a puro motif, e per certi versi exemplum, del crocevia stesso tra idea di natura e sostanza di pittura che ha alimentato l’arte del secolo. Ecco allora rieditarsi più e più volte, protagoniste, le bagnanti dell’antico suo cézannismo ereditato per la non banale ma – ora sa – riduttiva maestria di Carena. Ecco i nudi, pencolanti tra echi d’un primario classicismo (dichiarato sin dalle mantegnesche Composizioni del 1923) e le dolenti pulsazioni sensuali memori della “carnalità animalesca e triste di Pascin e (verosimilmente) di Soutine” (Bellonzi) che nutrono il suo macerato espressivismo. Ecco le nature morte, dimesse tematicamente quanto d’artificiosissimo costrutto, che dicono del lontano innamoramento parigino per Braque, e delle attenzioni rinnovate per l’assertività degli inserti a collage, per il riardere materico dello spessore maconné della pittura…
Conta, ovviamente, anche il clima del tempo. Le polemiche nostrane, originanti da un eccesso improvviso di nutrimento problematico incidente su un milieu culturalmente fragile, e per di più squassato ideologicamente, riportano all’attenzione una pluralità d’ipotesi artistiche, e di letture delle ipotesi medesime, alle quali Pirandello guarda con partecipe curiosità, ma anche con una buona dose di distacco e una vena d’ironia. Si parla non solo di cubismo e surrealismo, ma anche, per il tramite dei “pittori di tradizione francese” che dai primi Quaranta agitano la scena parigina, dell’ipotesi prima d’astratto/concreto. Ma conta, assai più, il privatissimo bilancio cui Pirandello si sente chiamato. “Labili le realtà – scrive nel 1949 in una lettera alla rivista “Educazione politica” – ormai poi tutte irrimediabilmente soggettive; e per definizione l’astratto in ogni forma d’arte, definito e delimitato nel suo reale consistere. Perché c’è il guaio del divenire. Figurare o non figurare assume allora quasi un significato ironico; o pratico, spicciolo…”. Questo il disincanto, questa la scommessa sapiente ed estrema dell’ultimo Pirandello.
Egli decide di ripartire dalla castità rigorosa di Braque, dal suo monacale ordinare il dramma sensuoso del percepibile in figura ripensabile tutta, e pittoricamente statuita secondo codici forti: senza ignorarlo, il dramma, ma assaporandolo sino all’estremo avvertimento formale. Così, le bagnanti e i nudi, figli del mito europeo della “Life-like Statue”, ridivengono in questi anni suoi figure di carne e di vita in cerca d’una comprovata e raggiunta alterità formale e sostanziale, d’una scrittura in cui la fusione tra affetto e pensiero tenda al compimento. E se dramma resti, esso sia quello di tale formatività, laboriosa, di risentita fisiologia artistica: madre, dunque, non sorella dei montanti naturalismi autresdel dibattito degli anni Cinquanta. Se, allo scorcio dei Quaranta, Pirandello pare oscillare tra taluni eccitamenti espressivisti e più pausate poggiature cubiste, è pur vero che tale fase transitoria gli consente di mettere in chiaro, in via definitiva per il tempo a venire, l’autonomia e la responsabilità di senso della struttura grafica dell’immagine: quella stessa che, in altri anni, egli voleva artefice della congruenza plastica stessa della forma.
La fluenza dei moti curvilinei, quel serrarsi delle forme in trasognamenti globulari – per i quali, credo, taluni debiti possano riconoscersi a Masson, figura assai più importante di quanto allora si fosse disposti a riconoscere – e insieme l’assedio del campo visivo da parte dell’immagine, sino a forzarne anche percettivamente la clausola proiettiva: e, ancora, il segmentarsi irritato ma nitido delle linee strutturanti, in una cadenza folta di dissonanze… tale filtro di concettualizzazione è la via per riguadagnare al pittorico la propria attualità fondativa del reale, che è, Pirandello afferma più volte, la lezione profonda del cubismo, al di là d’ogni declinazione contingente.
Non a caso, su tale rinsaldato e potenziato apparato di strutturazione egli si concede una più ampia esplorazione, in senso anche emotivo, della gamma cromatica. Il bruno che per buona parte dei decenni Venti-Trenta fa da ton moyen in sé architettante, della composizione, ora lascia posto a una più ampia escursione di timbri e temperature, e soprattutto di cangiamenti tonali, che le stesure smagrite e calcinate del suo nuovo modo mantengono pur sempre al di qua della compiacenza sensibile. Non più solo il celeste, il bianco cautelato, risuonano sulla trama bassa e spossata delle terre, ma anche il rosso, il rosa, il verde addirittura, capaci ora d’una ancora severa ma ormai dispiegata, e talora infine cantabile, sostanza sensibile. E le terre stesse, e i bianchi, maturano orgogli un tempo sconosciuti: soprattutto laddove, nel cuore dei Cinquanta e nei primi Sessanta, Pirandello zona la sua struttura quasi a tarsia bidimensionale, cercando limpidi e luminosi effetti a cattedrale, cercando il valore ultimo della luce.
E’ per queste pitture che Lionello Venturi, nel celebre saggio in “Commentari”, dice di un Pirandello “molto sintetico e allo stesso tempo abbandonato alla natura”, e nel quale “la percezione della realtà si rivela come se nascesse da un caos”. Dirà, ancora, di “energia plastica eccezionale”, giungendo a sintetizzare: “arte astratta e concreta a un tempo”. Certo, leggere dal punto di vista del codice binario di quel tempo, realismo/astrazione, le pitture del Pirandello di quegli anni, e in specie gli strepitosi paesaggi di metà decennio e poi le composizioni d’inizio Sessanta, con quel rifrangersi della luce e come dispiegarsi su forme ormai prosciugate al proprio fantasma strutturale, agitate da taches brevi e frementi, è possibile solo all’interno del codice astratto/concreto che Venturi aveva ingegnosamente coniato per una compagine non banale d’artisti.
Ma per Pirandello si trattava, oggi si può dire con rasserenata certezza, d’una coincidenza modale, e nulla più, all’interno d’un corso artistico altrimenti radicato, e di ben diversa vocazione. Contava, per Pirandello, allora come ai suoi inizi, la forza interrogativa dell’operare, del ricercare elaborante e insoddisfatto, non l’ubi consistam affermativo; la possibilità del senso, non il teatro della modalità; lo spessore problematico della teoria, non la lucentezza della dimostrazione; la qualità sostanziosa del fare, non la belluria del far vedere. E, su tutto, una sorta di rispetto sacrale per quella che Mafai, che negli stessi anni percorreva vie non meno ispide e spesso altrettanto fraintese, chiamava la Signora Pittura. Ad essa Pirandello ogni giorno, con laico pudore ed amore estremo, rendeva l’omaggio del proprio lavoro.
Nota. Letture complessive e fondamentali su questa stagione di Pirandello sono G. Appella – F. D’Amico (a cura), Fausto Pirandello. Opere su carta (1921-1975), cat. Palazzo Venezia, Roma, e Padiglione d’arte contemporanea, Milano, De Luca-Mondadori, Roma-Milano, 1986; G. Appella – G. Giuffré (a cura), Fausto Pirandello (1899-1975), cat. Palazzo Ricci, Macerata, De Luca, Roma, 1990, ove si leggono le citazioni dell’artista riportate; C. Gian Ferrari, Fausto Pirandello, Leonardo-De Luca, Roma, 1991. Cfr. inoltre C. Alvaro, Pirandello alla Galleria del Secolo, cat., Galleria del Secolo, Roma, 1947; L. Venturi, Fausto Pirandello, in “Commentari”, V, 1, 1954, poi con varianti in Pittori italiani d’oggi, De Luca, Roma, 1958; B. Mantura (a cura), Pirandello, cat. Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, De Luca, Roma, 1977; F. Bellonzi, Fausto Pirandello. Opere scelte, cat. Galleria Gian Ferrari, Milano, e Galleria Arco Farnese, Roma, 1985-1986. Sulla situazione complessiva della Roma del secondo dopoguerra cfr. F. Gualdoni, Arte a Roma 1945-1980, Politi, Milano, 1988.