Pomodoro. Lo turbo e ‘l chiaro, in Arnaldo Pomodoro a Varese, catalogo, Università dell’Insubria e Museo d’arte moderna e contemporanea, Castello di Masnago, Varese, 5 dicembre 1998 – 14 marzo 1999 (seconda parte)

G.: “Tendo a leggere il tuo lavoro come anticlassico: il tuo non è un opporsi al paradigma classico, piuttosto un ragionare sul modello classico sino al suo punto di contraddizione fondamentale. Ciò significa starne molto all’interno, auscultarlo profondamente: il che è assai più arduo che uscirne tout court”. P.: “Ho sempre ritenuto doveroso dichiarare la mia identità culturale. Se sei figlio della tradizione rinascimentale, non puoi fingere d’essere altro: il che non toglie che conoscere la propria identità è un fatto critico, non passivo. Ora siamo in un momento in cui il concetto di geometria euclidea è in crisi. Non esalto le forme, le squarcio, le forme pure e assolute nel mio lavoro sono sottoposte a una messa in crisi. Ho detto in più occasioni che l’altro grande padre della mia scultura, oltre a Klee, è Brancusi. Brancusi è formidabile perché ti dà il profumo della forma pura, perché essenzializza sino all’estremo. Tuttavia non ne ho condiviso il misticismo, e ciò mi ha aiutato ad allontanarlo, a non subirlo. La rabbia che fa  Brancusi è il residuo evocativo al quale si tiene ancorato, e insieme il misticismo, l’idea che una perfezione esiste. Ma a quale perfezione puoi pensare mentre la scienza inventa la bomba atomica? E’ una prospettiva di distruzione che il mondo ci insegna, non di perfezione. Quando ho fatto al prima sfera Fontana aveva appena realizzato le Nature. Io stesso ho avuto il sospetto di esserne influenzato. In realtà ho poi compreso che ci differenziava radicalmente il processo di nascita della forma: perché io parto dal vuoto, parto da dentro, da una mezza sfera a catino, e faccio un lavoro a porre, a far nascere, toccando la terra. In un processo così la forma precisa non è un risultato, ma il problema. A lavorare è il tarlo dentro la forma, il dubbio della forma. Nulla è perfetto: questa è la vera questione della scultura, dopo Brancusi”. G.: “E’ come se lo schema geometrico fosse un pretesto filosofico, se la forma perfetta fosse il motif da verificare in un processo concreto, fisiologico, di generazione e morte, nascere morendo, scontando la corruzione, la deroga, l’impuro, come momento di tensione vitale necessaria, non di negazione”.

Pomodoro, Triade, 1979

Pomodoro, Triade, 1979

Lavorando alla serie delle Colonne del viaggiatore, Pomodoro tende a divaricare in modo sempre più manifesto due delle componenti formali adottate.

Da un canto, il valore della superficie piana come plesso plasticamente concreto capace di farsi campo delle energie plurime attivate dalla partitura segnica: superficie, e dunque soglia d’un differenziale d’esperienza sensibile e intellettuale dello spettatore. Nasce in questo ambito la Ruota, 1961, le cui testure ereditano dei “segni in miniatura che sembrano forme cristalline, ma riccamente organiche” (Hunter (19) ) dei rilievi degli anni Cinquanta, con il collidere forte delle movenze radianti e delle nervature rettilinee disorientanti. Nascono a ridosso le prime Porte, e soprattutto i Radar, ove sempre più esplicito, come accade anche nelle Colonne, si fa lo scarto tra porzioni fratte e brulicanti e zone polite sino allo splendore, così da produrre una tensione brusca tra introversione lenta del percorso di lettura ed estroversione, attraverso il riflesso, del volume geometrico e architettonico (20).

In altre opere di questi anni, segnatamente il Disco n.1, 1964, così come sarà nel decennio successivo per il gruppo Asta cielare, 1978-80, Pomodoro tenta di mantenere tale scarto tra la shape stessa dell’opera e la partitura grafica che la invade totalmente, o meglio, che se ne fa la struttura stessa. Si tratta di una possibilità periodicamente esplorata, con passaggi mediani suggestivi come la Colonna a grandi fogli, 1972, e i recenti Scettri, 1987-88, figli anche della più libera attività di scenografo dell’artista. D’altro canto, con il già citato Cubo, 1961-62, e la prima Sfera, 1963, ecco comparire in modo inizialmente quasi programmatico la questione del solido geometrico nella ricerca dell’artista. Che si tratti delle due forme geometricamente più catafratte e respingenti, con irraggiamenti metafisici, è esattamente il senso della scommessa aggressiva di Pomodoro. Le tracce fitte che ne alterano la perfezione astrattamente sperata, tuttavia, non valgono tanto come erosioni di una compiutezza data per esistente, e piuttosto come svelamenti, svelamenti drammatici certo, del meccanismo interno di generazione della forma stessa, che comporta impurità, articolazione fitta e talora impreventiva, spesso imperscutabile.

Pomodoro, Il grande disco, 1980

Pomodoro, Il grande disco, 1980

E’ come se le vecchie Situazioni vegetali, proliferando per estensione oscura e concatenazione da un grumo iniziale, giungessero a farsi corpo, un corpo che per provocazione intellettuale ha le fattezze di un solido euclideo, la cui pelle – perché di pelle si tratta – non rappresenta altro che una stabilizzazione provvisoria, e transeunte, in forma esperibile e, forse, conoscibile. La trattazione tormentata delle superfici, ben lontana dagli splendori delle politezze brancusiane altrimenti adottate, ha la definizione ansiosa di una situazione transitoria di stabilità formale (Gadda avrebbe detto di “momento-pausa di una fluenza”), che induce ad attribuire pari responsabilità struttiva alle nervature lunghe che sia nel Cubo sia nella Sfera incernierano il dentro visibile: nel quale, ora, i singoli monemi plastici hanno perso ogni eco grafica per farsi veri e propri elementi di questa sovranamente ambigua machina organica.

Tempo, non forma, dunque, come nitidamente legge Argan. Genetica  prorompente ma cieca a una vocazione formale programmatica ed eteronoma, cui la geometria offre non – s’è detto – l’ideale di perfezione bensì una dimora convenzionale, convenzionalmente disincantata, pronta a dissolversi all’atto stesso di enunciarsi. Non l’ontologia mistica di Brancusi, dunque. Non, viste le date, quella opaca ed eticamente smobilitata della Minimal, risposta troppo simmetrica alle degenerazioni utopiche del concretismo. Pomodoro, fatto certo sin dagli inizi della padronanza tecnica assoluta del processo, della capacità di dar forma, sceglie con sovrano sprezzo di mettere la propria cognizione perfetta del fare ad arte per minare la nozione stessa di perfezione. Sa che contingente, dell’avanguardia, è la blasfemia esibita dei modi: fondativa, e ineludibile, è invece l’inquietudine intima della forma.

P.: “Ho sempre considerato fondamentale il confronto con la cultura americana. Superato il complesso dell’Europa, dopo la seconda guerra mondiale hanno inventato un nuovo modo di fare pittura e scultura. Mi interessa il loro codice, anche quando non mi appartiene: quando usiamo la parola bizantino, per noi ha un connotato negativo; per loro è diverso, bizantino significa tradizione di finezza e di “finito”. Il mio modo di fare è “bizantino”, in loro l’intervento umano è completamente diverso, c’è il primato del progettare, c’è rapporto con la macchina: in Di Suvero pensi a Kline, ai suoi gesti, ma i gesti Di Suvero li compie con le putrelle, decide di piegarle, è una scultura impregnata di forza: viene dalla mente, e passa immediatamente alla macchina che ci mette la sua energia. C’è una grezzezza, una brutalità, che non ci appartengono, ma appartengono a loro. I quadri di Newman sono così mentali e progettati, straordinari, ma infine fare il quadro è per lui solo esecuzione. Per un certo tempo i miei soggiorni americani mi hanno fatto nascere il complesso della lentezza del fare, del procedimento lungo per cui l’idea continua a formarsi e modificarsi ad ogni passaggio, e dal primo gesso al bronzo passano mesi, talvolta anni; ma la scultura è seguire i passaggi, questo è il nostro fare. Là mi si rimprovera di pensare la scultura alla maniera antica, rinascimentale (21): cosa ci vuoi fare, nella mente mi porto il mio Montefeltro e Benvenuto Cellini. Però questa qualità la senti. La scultura di un americano può nascere grandissima in un disegno, e dopo pochi calcoli di ingegneria, e dopo il lavoro delle macchine, esserci: ma c’è il rischio di confonderla con le strutture che esistono già, che già fanno parte del mondo”.

Pomodoro, Obelisco Cassodoro, 1988

Pomodoro, Obelisco Cassodoro, 1988

Forte di questi risultati, Pomodoro ha la possibilità di riprendere l’esperienza della grande dimensione, già saggiata con la Colonna del viaggiatore esposta a Spoleto nel 1962. La Grande sfera, 1966-67, commissionata per l’Expo di Montreal e ora collocata al Ministero degli affari esteri a Roma, è il punto di snodo di questa vicenda, che soprattutto dagli anni Settanta, e sino ad oggi, l’artista ha continuato a frequentare, offrendo prove cospicue come la grande mostra del 1971 negli spazi della città di Pesaro, quella del 1984 al Forte di Belvedere fiorentino, e quella recentissima alla Rocca di San Leo. A questo ordine di riflessioni può essere certo ascritta una stagione, alla fine degli anni Sessanta, contrassegnata da opere di relativamente differente impostazione, come Onda e le varianti di Movimento di crollo, dagli incastri nitidi, ancorché articolati, di forme geometriche lucenti d’acciaio polito. Tuttavia è ancora il bronzo a prevalere, non dandosi altra possibilità, per l’artista, di seguire e toccare, s’intende proprio far di mano, ognuno dei congegni plastici e visivi che, per crescita ancor più complessa e non per amplificazione di scala, concorrono a dar corpo alla sua opera.

Nel libro L’arte lunga assai efficace è, nel dialogo con Francesco Leonetti, il passo in cui l’artista racconta l’assunzione di consapevolezza, di fronte ai risultati di bottega, che per la sua scultura anche grandissima non esiste altro fare possibile che “preparare un quarto di sfera e collocare la terra e premere dentro la terra, insomma calcare, dentro, la terra…” (22). Lucidamente, ecco riemergere prepotente il tempo del fare che è la sostanza stessa di questa scultura del tempo: e l’anima rinascimentale per eccellenza, quella ragione proporzionale che rende intimamente monumentali opere che potrebbero essere di dimensioni differentissime, da minime a macroscopiche (23). Conta, per esse, l’identità filogenetica, e quella commensuratio – la citazione albertiana par retorica, ma è d’obbligo – che si pensa esattamente agli antipodi dell’ossessione americana, e oggi non solo americana, per il size, per la mortale misura metrica. E’ certo che, proiettando la fisionomia delle sue forme – un repertorio pressoché stabilizzato in serie alle quali Pomodoro continuamente aggiunge capitoli, per scandaglio paziente e impietoso: il che può leggersi anche come sostanziale conferma della sua indifferenza al formale per il formale – in contesti topici fortemente connotati, dal naturale all’architettura antica a quella modernissima, decisivo è per l’artista stabilire il grado di evidenza che non risolva la presenza dell’opera in pura asserzione, in mise en scène magari suggestiva, ma che ne consenta comunque, dopo la cattura dell’occhio in virtù dell’effetto, una lettura più meditativa e allentata. Il lavorio dunque è, anche in questo caso, ragionamento di proporzione.

P.: “Il senso muta ma non si perde, è questa la grandezza che mi interessa. Non è questione di misura, è un altro tipo di grandezza, è capacità di spazio. La Colonna senza fine di Brancusi non è il Balzac di Rodin, è il monumento di se stessa, è il menhir e l’arte africana. Così la mia scultura. Assume lo spazio, se ne fa segnale, che porta altri segni. La mia scultura non celebra, significa piuttosto, lo spazio, il tempo, valori essenziali”.

Pomodoro, Sfera con sfera, bronzo, 1990, Musei Vaticani, Cortile della Pigna

Pomodoro, Sfera con sfera, bronzo, 1990, Musei Vaticani, Cortile della Pigna

Inoltre, egli prende nuovamente a fare i conti con un problema a lungo eluso, quello della irradiazione mitica e simbolica che, inevitabilmente, un’arte come la sua innesca, e che proprio il confronto stretto con l’architettura, serrata comunque in forme necessarie, amplifica. Pomodoro avverte ancor più nettamente che l’anima architetturale della sua scultura è tanto più nitida quanto più estranea alle rules and regulations dell’architettura storica. Essa vive, piuttosto, di valori fondamentali, quello di dimora, di spazio mitico ed emotivo, di segni ad alto, e sanamente ambiguo, gradiente simbolico. La destinazione naturale di tali concezioni, praticata infatti con frequenza nei tempi ultimi, è il lavoro di scenografia, nella zona franca del luogo teatrale, che riversa in scambio complice e continuo energie inventive sul lavoro plastico, a cominciare dal vertice qualitativo toccato con la serie Forme del mito, 1983, frutto della messa in scena dell’Orestea a Gibellina. Ancora, classico e anticlassico agiscono nella concezione dell’artista, e un valore di segno e forma che non si nega, ormai, a implicanze forti di simbolo, d’una mitopoietica straniata ed emotivamente densa (anche se ben lontana dal laicismo incontrattabile di Pomodoro, non si può non evocare per suggestione la citazione dantesca della “virtù diversa” di Paradiso, II, 147-148: “essa è il formal principio che produce, / conforme a sua bontà, lo turbo e ‘l chiaro”).

Tuttavia Pomodoro non si sottrae alla partita maggiore, anzi. E’ da queste stesse riflessioni che nasce l’introversa Gesamtkunstwerk di Pietrarubbia’s Work, macchina/dimora che prende il nome dal borgo che Pomodoro ha scelto a custode della sua propria identità culturale, e che diviene una sorta di diario architettonico, di “scultura-paese” come indica l’artista stesso (24), di evento plastico complesso e mobile: non più scultura, ma evento spaziale e affettivo fatto di rapporti complessi, relationships ancora, per l’autore come per lo spettatore. In esso l’artista non solo mette a frutto le sue plurime esperienze di contiguità con lo spazio storico dell’architettura, e con la sacrazione dello spazio della quale la scultura è capace, ma anche recupera una dimensione compiuta della grafia di tipo scritturale, che da testura fitta e indecifrabile si spiana sino a farsi vero e proprio inserto testuale, con una citazione dai Mottetti di Montale: “lo sai, debbo riperderti e non posso”. E’, questo passaggio ulteriore, quello che avvia definitivamente Pomodoro verso la stagione presente, lunga stagione segnata, oltre che da straordinarie imprese che si conviene di indicare monumentali (dalla Sfera con sfera nel Cortile della Pigna in Vaticano, 1988-90, a Papyrus per Darmstadt, 1990-92), soprattutto dal librarsi di una visionarietà che s’incarna in una serie proliferante di progetti in cui non si dà scultura come corpo plastico congruente a sé, e piuttosto come inserto dirompente in un tessuto spaziale storicamente connotato.

Pomodoro, Le battaglie, 1995

Pomodoro, Le battaglie, 1995

Non si tratta, beninteso, di progetti irrealizzabili, per ragioni tecniche o d’altra natura. L’alibi dell’infattibile è contrario alla ragione stessa del fare di Pomodoro. Queste concezioni semmai, sottoponendo la nozione stessa di scultura a scala ambientale a una  profonda accelerazione critica e inventiva, investono con prepotenza il limite culturale, non altrimenti che culturale, di una committenza che, sia detto con la giusta dose di polemica, ammette per l’architettura scommesse che dalla scultura, avendone un intendimento comunque disciplinarmente limitato, non può accogliere. Eppure, è questa la scultura di “luoghi fondamentali” – questa che ci si costringe a dire di “progetti visionari” – della quale Pomodoro ha dato ormai ampia prova. A cominciare dallo straordinario progetto, 1978-81, per il Cimitero di Urbino, scavato alla sommità di un colle come una traccia erosiva, perfetta scultura naturale e insieme struttura perfettamente funzionale. La sua ambiguità, ambiguità capace di convogliare elogi pressoché unanimi all’artista ma insieme di renderne infine impossibile l’attuazione (25), risiedeva nello scandalo di un’opera indefinibile, inclassificabile, corporativamente impensabile; era scultura, e architettura costruibile, e architettura di paesaggio: tutto, e nulla di tutto ciò. Era la provocazione estrema che Pomodoro, con la sua pazienza sapiente e la sua esibita – con qualche civetteria, va detto – allure di artigiano esente da snobismi intellettuali, ha scagliato nel mezzo del dibattito artistico contemporaneo, e che di opera in opera egli continua a ribadire. La risposta non è ancora venuta.

Note. 19. S. Hunter, Arnaldo Pomodoro, Abbeville, New York 1982, p. 30. 20. Notevole a questo proposito è la lettura di G. C. Argan, Arnaldo Pomodoro. Il tempo e la memoria, Vanessa, Milano 1978, p. 4: “Richiede, quindi, un tempo di lettura che ha bensì la durata della frase ritmica dell’involucro luminoso, ma viene scandito nell’oscurità dell’interno dalla diversità dei timbri determinata dalla diversa conformazione dei tasti o dei martelletti. E’ precisamente questo percorso obbligato nel profondo che mette all’unisono, più ancora che in relazione, l’esterno e l’interno. Scultura temporale più che spaziale…”. Sulla temporalità di lettura pone l’accento anche T. Trini, Arnaldo Pomodoro, catalogo galleria Multicenter, Milano, 1974. 21. Cfr. ad esempio P. Karmel, Arnaldo Pomodoro, in “The New York Times”, 19 gennaio 1996, che conclude: “The Renaissance strikes back”. 22. A. Pomodoro – F. Leonetti, L’arte lunga, cit., p. 59 e segg. 23. Assai pertinente è la lettura di T. Freudenheim, sintomaticamente datante al 1970: “In un senso vedi tutto come monumentale, anche quando è stato fatto piccolo”: Lettera critica di Tom Freudenheim a Arnaldo Pomodoro, catalogo University Art Museum, Berkeley, Cal., ed altre sedi, 1970-71. 24. A. Pomodoro, Motivo tecnico, teorico e poetico della scultura Pietrarubbia’s Work, in Pietrarubbia’s Work, in “Studio Marconi”, 6-7, Milano, 1976. 25. Una ricostruzione documentata e appassionata della vicenda è F. Leonetti (a cura), Il cimitero sepolto, Feltrinelli, Milano 1982. Vi si evince che soprattutto il sospetto corporativo dell’architettura professionale, non in grado di accogliere la natura estranea di questa invenzione, provocò la decisione di non realizzarlo.